sabato 26 ottobre 2013

ancora sul coreano stanco

Prendersi cura della stanchezza
di Marco Deriu
Università di Parma, Associazione per la decrescita
Sommario
Nel vivere contemporaneo si fa strada sempre più una forma di auto-sfruttamento. Gli
spazi per la riproduzione psicologica e sociale vengono reimpiegati per lavori o
mansioni o nuovi compiti o performance. Il tempo teoricamente non produttivo è
impiegato e canalizzato in un sistema di produzione e di mercato. Il nostro modello di
sviluppo, di crescita, di benessere è davvero una strada per il nostro ben vivere? In
realtà si sta determinando una forma di disagio o di patologia sociale diffusa: sovralavoro,
mancanza di tempo, stress, depressione. Un eccesso di “voler fare” che genera
stanchezza da esaurimento. È possibile invece trovare ispirazione in un’altra esperienza
di stanchezza che discrimina ed ispira: una stanchezza lieta, felice, che ci permette di
abbandonarci a ciò che ci sta più a cuore.
Parole Chiave
Società della prestazione, Autosfruttamento, Inadeguatezza, Depressione, Stanchezza,
Tempo di vita, Quiete, Cura di sé e cura degli altri, Convivialità, Condivisione,
Spiritualità.



«Sicuro di poter dare ogni giorno il meglio alla tua famiglia. Sicuro di poterti
dedicare ai conti di casa, ai tuoi hobby, a seguire il Nasdaq, a migliorare il tuo inglese.
Sicuro di poter tenere tutto sotto controllo. Sicuro di acquistare sempre il meglio usando
Internet al riparo da intrusioni. Sicuro di mettere gli affari della tua famiglia in mani
sicure, come se fossero le tue…». Questo testo di una pubblicità di un portale dedicato
alla famiglia proposto qualche tempo fa da una banca italiana illustra bene la
molteplicità delle attese, delle prove, dell’aspirazione di un poter fare e realizzare
continuo e sistematico su più fronti che oggi caratterizza sempre più lo stile di vita della
nostra contemporaneità.
Ciò che caratterizza sempre più le nostre vite è una forma di auto-sfruttamento
Questa situazione è rafforzata dalle trasformazioni delle forme del lavoro. Per molti
lavoratori oggi non ci sono più orari di lavoro fissi e chiari che determinano una chiara
divisione tra tempi di lavoro e tempi di vita. Tutti gli spazi un tempo battezzati per la
riproduzione psicologica e sociale – l’orario dei pasti, la sera, il sabato e la domenica –
vengono pian piano reimpiegati per lavori o mansioni o nuovi compiti o performance. Il
risultato è che lavoriamo sempre di più, e dedichiamo sempre meno tempo alle forme
basilari di riproduzione: dormire, mangiare, oziare, prendersi cura gli uni degli altri.
Già all’inizio degli anni ’90, un’attenta osservatrice, la statunitense Juliet Schor, notò
nel suo The Overworked American che gli americani vivevano con la sensazione di un
tempo sempre più compresso a causa delle aspettative e delle richieste crescenti
dell’economia capitalistica e della società stessa. Schor faceva notare che nonostante la
crescita della produttività, negli ultimi decenni il tempo dedicato dagli americani alle
ore di lavoro era sensibilmente cresciuto, mentre era diminuito il tempo libero e lo
spazio dedicato all’ozio.
Se gli americani non se la passano bene, gli italiani non stanno molto meglio. Le
indagini multiscopo dell’Istat sull’uso del tempo mostrano che in generale l’Italia è uno
dei paesi in Europa con meno tempo libero a disposizione dei suoi cittadini e per quanto
riguarda in particolare le donne il tempo libero è ancora più basso. Infatti alle
aspettative sociali di un’autonomia e di una gratificazione nello spazio professionale e
lavorativo non ha corrisposto un equivalente impegno maschile nel lavoro di cura
nell’ottica di una sua più equa redistribuzione. L’impegno e la presenza maschile nel
lavoro di cura sono cresciuti ma molto limitatamente, almeno nel contesto italiano e non
sono andati a compensare il tempo impiegato nel lavoro produttivo rimunerato
femminile. Per le donne il tempo dedicato al lavoro produttivo si è semplicemente
andato ad aggiungere a quello tradizionalmente assegnato alla cura. Per quanto riguarda
il tempo libero le donne rimangono penalizzate perfino nel week end e a quasi tutte le
ore del giorno le donne impegnate nelle attività del tempo libero sono meno numerose
degli uomini.
Il risultato complessivo come genitori, è che abbiamo bisogno di trovare
occupazioni” continue anche per “tenere impegnati” i bambini. Mentre fette sempre
più importanti del tempo di cura vengono appaltate e “pagate” sempre di più a lavoratori
e soprattutto lavoratrici esterni, spesso straniere. I bambini crescono in maniera sempre
più chiusa e isolata. Anche quando il lavoro viene compiuto in casa, il tempo e
l’attenzione dedicata ai bambini è spesso limitata e frammentata.
In termini più generali, per uomini e donne, la potenzialità delle nuove tecnologie,
l’aumento dell’efficienza e della produttività non ha liberato tempi di vita o aperto
nuovi spazio di ozio, relax, convivialità, come ci si poteva aspettare.
Nel frattempo è cresciuta infatti la richiesta di produttività e l’attesa di performance
economiche e sociali.
Da una parte la ricerca di sempre nuovi oggetti e prodotti ci richiede sempre più
tempo per guadagnare il necessario per acquistarli e sempre più tempo per fare
shopping. Dall’altra molti dei prodotti e dei gadget che produciamo e che acquistiamo
sono a loro volta divoratori di tempo: dall’auto, alla televisione, al computer, alle nuove
tecnologie domestiche e per la vita quotidiana (elettrodomestici da cucina, microonde,
rasoi, telefonini, lettori mp-3, i-pod, palmari, tablet e i-pad, home theater ecc.). Gli
stessi giochi per bambini – si pensi alla play station e ai video giochi - diventano sempre
più tecnologici e costosi.
Il tempo di non lavoro, il tempo delle vacanze è andato costantemente diminuendo
nella nostra società. Anche le festività riconosciute, le giornate di non lavoro, sono
sempre meno. Lo stesso spazio del tempo libero e delle vacanze è stato occupato da
un’industria apposita e da un mercato del turismo o del divertimento: viaggi, hotel,
residence, villaggi, impianti sportivi, attrazioni turistiche, monumenti, divertimenti,
aperitivi, pasti, tutto è controllato da un mercato sempre più pervasivo. Senza
accorgercene ci siamo abituati a commercializzare anche il tempo non di lavoro. Fatto
questo che ha contribuito a sua volta ad aumentare la necessità di guadagnare per poter
spendere in maniera più esclusiva il proprio bonus di tempo libero.
In altre parole anche il tempo teoricamente non produttivo è oggi impiegato e
canalizzato in un sistema di produzione e di mercato. Dobbiamo pagare anche il nostro
relax. È dobbiamo lavorare di più per acquistare un tempo “libero” sempre più costoso e
impegnativo e quindi di fatto sempre più compresso.
Se non siamo occupati dal lavoro, altre attività – palestre, fit-ness, corsi di vario
genere – tengono impegnate le nostre teste e i nostri corpi. Perfino internet e i social
network oggi diventano attività sempre più impegnative da seguire e conseguentemente
fonti di stress.
Insomma una delle maggiori scarsità con cui stiamo quotidianamente combattendo è
la scarsità di tempo. Il che però è un effetto del modo in cui spremiamo il tempo e noi
stessi, ovvero di forme di sfruttamento e auto sfruttamento sempre più pervasive.
Secondo Alain Ehrenberg, quello che stiamo vivendo è il passaggio da una società
che forniva modelli sociali e di ruolo definiti assieme a rigide prescrizioni e proibizioni
a una società di mercato dove l’individuo è divenuto apparentemente sovrano ed è
sollecitato a “divenire se stesso”, ovvero ad assicurarsi il proprio personale successo.
Siamo tutti delle specie di imprenditori di noi stessi, impegnati ad autopromuoverci e ad
affermarci personalmente e socialmente in un contesto sempre più fluido e precario. La
contrapposizione tra il permesso e il vietato lascia spazio all’opposizione tra possibile e
impossibile.
Gli individui di un tempo erano costretti a confrontarsi e a conformarsi a modelli
rigidi e preconfezionati e il doppio confronto con l’interdetto nei comportamenti e con
la disciplina dei corpi poteva condurli fino all’estremo della nevrosi. Al contrario il
maschio contemporaneo che vive l’ebbrezza narcisistica del “puoi essere quello che
vuoi” si trova a confrontarsi piuttosto con il rischio del fallimento, con la sensazione di
impotenza e quindi con la “depressione”. La fatica depressiva ha preso il posto
dell’angoscia nevrotica. La nevrosi nasceva da un conflitto con una norma, tra le altre
cose sessuale, mentre la depressione nasce da un sentimento di inadeguatezza, di deficit
personale.
La depressione, come ha notato Alain Ehrenberg, è in effetti una “malattia della
responsabilità”, una condizione «in cui predomina un sentimento di insufficienza: il
depresso non si sente all’altezza, è stanco di dover divenire se stesso» (Alain
Ehrenberg, 1999, pag. 5) «La depressione – continua Ehrenberg - ci illumina sulla
nostra attuale esperienza della persona, poiché essa è la patologia di una società in cui
la norma non è più fondata sulla colpa e la disciplina, bensì sulla responsabilità e
l’iniziativa. […] L’individuo è messo a confronto più con una patologia
dell’insufficienza che con una malattia della colpa, più con l’universo della disfunzione
che con quello della legge: il depresso è l’uomo in panne» (Alain Ehrenberg, 1999, pag.
10).
Se per Ehrenberg la depressione è un effetto della pressione della responsabilità, per
il filosofo tedesco di origine coreana Byung-Chul Han è piuttosto l’effetto della
pressione della prestazione.

In un recente saggio egli afferma che da tempo noi non viviamo più in una “società
disciplinare”, come quella descritta da Michael Foucault, ma piuttosto in una “società
della prestazione”. Alla forma del divieto si sostituisce l’imperativo della prestazione. Il
«verbo modale positivo» di una simile società – nota Byung-Chul Han - è il “poter fare”
illimitato. Infinite sono le opportunità e le occasioni che le pubblicità ci presentano e
che osserviamo o ascoltiamo centinaia di volte ogni giorno, per strada, per radio,
televisione, su internet o in giro.
La realtà soggettiva, tuttavia, è radicalmente diversa. Noi siamo vincolati a dove
nasciamo, al nostro contesto, alle nostre risorse, alle nostre opportunità, al nostro tempo.
Se il mercato offre certe opportunità per tutti, esse in realtà sono godibili solo da pochi.
Anzi, come aveva compreso l’economista Fred Hirsch, gran parte dei beni offerti dal
mercato vanno intesi come beni posizionali, il cui godimento dipende dal fatto di
goderne al posto o a spese di altri. La prestazione è spesso un confronto e una
competizione con il vicino, con il prossimo.
La richiesta continua di performance e prestazioni ci ha trasformato tutti in soggetti
imprenditori e al contempo sfruttatori di noi stessi. Ci spremiamo fino in fondo per
ottenere il massimo uso possibile di noi stessi. Questa richiesta e attesa di prestazione
genera tuttavia persone frustrate e depresse.
«L’uomo depresso è quell’animal laborans che sfrutta se stesso del tutto
volontariamente, senza costrizioni esterne. Egli è al tempo stesso vittima e carnefice»
(Byung-Chul Han, 2012, pag. 26).
Ragionare di cura oggi, di cura di sé, di cura degli altri, di cura dell’ambiente ci
obbliga a fare i conti con questo modello sociale e culturale. Questo significa tornare a
domandarci se il modello di sviluppo, di crescita, di benessere che abbiamo inseguito
negli ultimi sessant’anni almeno è davvero una strada per il nostro ben vivere oppure sta
in realtà determinando una forma di disagio o di patologia sociale diffusa: sovra-lavoro
(che paradossalmente si accompagna ad una crescente disoccupazione), mancanza di
tempo, stress, ipertensione, ansia, angoscia, stanchezza, esaurimento, depressione,
nuove forme di povertà e di abbandono. Le ore di una giornata rimangono sempre 24
ma abbiamo sempre meno tempo per dormire, riposarci, godere della vita e delle
relazioni.
Insomma quelle che un tempo chiamavamo società del benessere oggi appaiono
sempre più come “società della stanchezza” per usare l’efficace espressione di Byung-
Chul Han. Una società segnata da malattie come la depressione, l’iperattività, la
sindrome da deficit di attenzione, le diverse forme di burnout, le malattie alimentari
(anoressia, bulimia).
Tutto questo mette al centro una questione che riguarda non soltanto l’impatto
ambientale di questo modello ma anche il suo impatto psichico, culturale e sociale e ci
apre a prospettive di cambiamento radicali e difficili.
«Che cosa è necessario? - Si chiedeva tempo fa Cornelius Castoriadis - Data la crisi
ecologica, l'estrema disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza tra paesi ricchi
e poveri, la quasi impossibilità del sistema di continuare la sua corsa attuale, quello
che necessario è una nuova creazione immaginaria di proporzioni sconosciute nel
passato, una creazione che metta al centro della vita umana significati diversi
dall’espansione della produzione e del consumo, che ponga obiettivi di vita diversi,
riconoscibili dagli esseri umani come qualcosa per cui val la pena vivere. [...] Questa è
l’immensa difficoltà di fronte a cui ci troviamo. Dovremmo volere una società nella
quale i valori economici hanno cessato di essere centrali (o unici), in cui l’economia è
rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo, in
cui dunque si rinuncia a questa corsa folle verso un consumo sempre maggiore. Questo
è necessario non soltanto per evitare la distruzione definitiva dell’ambiente terrestre,
ma anche e soprattutto per uscire dalla miseria psichica e morale degli umani
contemporanei. Occorrerebbe pertanto che gli esseri umani (parlo ora dei paesi ricchi)
accettino un livello di vita dignitoso, ma frugale, e rinuncino all'idea che l'obiettivo
centrale della loro vita sia che il loro consumo aumenti del 2-3% per anno. Per
accettare questo, occorrerebbe che ci fossero altre cose a dare senso alla loro vita»
(Cornelius Castoriadis, 1996, pp. 112-113).
Oggi viviamo un eccesso di positività, una stanchezza legata all’ossessione del poter
fare, del poter realizzare che ci porta ad uno svuotamento ad una graduale ma
inesorabile perdita di forze fisiche e psichiche.
Byung-Chul Han contrappone alla passività generata dall’iperattività, che non
ammette più alcun agire libero, «la negatività del non-fare (nicht-zu)» come tratto
essenziale della contemplazione, come ricerca di una posizione di sovranità dentro di sé.
Ma l’aspetto interessante di quest’analisi è che non contrappone all’eccesso di fare
un appello astratto al suo contrario, non ipotizza l’intervento di una fonte esterna. La
speranza che emerge è data dalla non chiusura, dalla possibilità di concepire degli
itinerari nella stanchezza” che producono esiti inattesi. Emerge l’ipotesi di una
trasformazione che procede dal centro di questa condizione e attraverso un sentiero
misterioso procede verso una diversa esperienza interiore ed esistenziale.
Richiamandosi a Peter Handke, Byung-Chul Han ipotizza che a fianco o oltre una
stanchezza dell’io, solitaria, chiusa al mondo, possa farsi largo una stanchezza
fiduciosa, limpida, aperta al mondo che permette un diverso soffermarsi. Una
stanchezza che apre all’abbandono, alla quiete. L’ipotesi di Byung-Chul Han è che ci
possa essere una stanchezza che cura, «quella stanchezza che non deriva da un riarmo
sfrenato, bensì da un cordiale disarmo dell’io» (Byung-Chul Han, 2012, pag. 6).
La strada che sembra proporre è dunque un approfondimento di questa stanchezza,
uno sprofondamento e un attraversamento di questa stanchezza. Se l’eccesso di voler
fare, della potenza positiva genera una stanchezza da esaurimento, è possibile invece
trovare ispirazione in un’altra esperienza di stanchezza che discrimina ed ispira. Una
stanchezza che «permette di accedere a un’attenzione completamente diversa, a quelle
forme prolungate e lente che si sottraggono all’iper-attenzione breve e veloce» (
Byung-Chul Han, 2012, pag. 70). Una stanchezza lieta, felice, che ci permette di
abbandonarci a ciò che ci sta più a cuore.
Se ascoltata in profondità, la stanchezza segnala infatti anche la mancanza di
desiderio nel continuare a fare una determinata cosa. Segnala il non poter più sopportare
oltre. Rivela la nausea o il disgusto. Permette insomma di riflettere e riflettersi,
permettendo l’insorgere di un’autorità e di un desiderio interiore e relazionale, di una
potenza negativa che ci rafforza e ci autorizza a discriminare, a non fare, a togliere, a
sottrarre.
Insomma il partire da dove si è, il prendere coscienza della nostra condizione ci apre
a percorsi di liberazione che possono aiutarci a tornare a prenderci cura di noi, degli
altri, ad aprire spazi di condivisione e a ridurre le forme di dipendenza dal mercato,
dalla produzione, dal consumo, a ritrovare un senso di spiritualità e di convivialità.


(Riflessioni Sistemiche - N° 7 dicembre 2012 )



Bibliografia
Castoriadis C., 1996. La montée de l’insignifiance, Les Carrefours du labyrinthe – 4,
Points Essais.
Byung-Chul Han, 2012. La società dell’incertezza, Nottetempo, Roma.
Ehrenberg A., 1999. La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino
Peter Handke, 1991. Saggio sulla stanchezza, Garzanti, Milano.
Schor J.B., 1992. The Overworked American. The Unexpected Decline of Leisure,Basic Books, New York

1 commento:

  1. grazie della citazione, è molto interessante e per me Deriu è una voce sempe molto interessante,ma prima ancora una bella persona. Cristina

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