Prendersi
cura della stanchezza
di
Marco Deriu
Università
di Parma, Associazione per la decrescita
Sommario
Nel
vivere contemporaneo si fa strada sempre più una forma di
auto-sfruttamento. Gli
spazi
per la riproduzione psicologica e sociale vengono reimpiegati per
lavori o
mansioni
o nuovi compiti o performance. Il tempo teoricamente non produttivo è
impiegato
e canalizzato in un sistema di produzione e di mercato. Il nostro
modello di
sviluppo,
di crescita, di benessere è davvero una strada per il nostro ben
vivere? In
realtà
si sta determinando una forma di disagio o di patologia sociale
diffusa: sovralavoro,
mancanza
di tempo, stress, depressione. Un eccesso di “voler fare” che
genera
stanchezza
da esaurimento. È possibile invece trovare ispirazione in un’altra
esperienza
di
stanchezza che discrimina ed ispira: una stanchezza lieta, felice,
che ci permette di
abbandonarci
a ciò che ci sta più a cuore.
Parole
Chiave
Società
della prestazione, Autosfruttamento, Inadeguatezza, Depressione,
Stanchezza,
Tempo
di vita, Quiete, Cura di sé e cura degli altri, Convivialità,
Condivisione,
Spiritualità.
«Sicuro
di poter dare ogni giorno il meglio alla tua famiglia. Sicuro di
poterti
dedicare
ai conti di casa, ai tuoi hobby, a seguire il Nasdaq, a migliorare il
tuo inglese.
Sicuro
di poter tenere tutto sotto controllo. Sicuro di acquistare sempre il
meglio usando
Internet
al riparo da intrusioni. Sicuro di mettere gli affari della tua
famiglia in mani
sicure,
come se fossero le tue…». Questo testo di una pubblicità di un
portale dedicato
alla
famiglia proposto qualche tempo fa da una banca italiana illustra
bene la
molteplicità
delle attese, delle prove, dell’aspirazione di un poter fare e
realizzare
continuo
e sistematico su più fronti che oggi caratterizza sempre più lo
stile di vita della
nostra
contemporaneità.
Ciò
che caratterizza sempre più le nostre vite è una forma di
auto-sfruttamento
Questa
situazione è rafforzata dalle trasformazioni delle forme del lavoro.
Per molti
lavoratori
oggi non ci sono più orari di lavoro fissi e chiari che determinano
una chiara
divisione
tra tempi di lavoro e tempi di vita. Tutti gli spazi un tempo
battezzati per la
riproduzione
psicologica e sociale – l’orario dei pasti, la sera, il sabato e
la domenica –
vengono
pian piano reimpiegati per lavori o mansioni o nuovi compiti o
performance. Il
risultato
è che lavoriamo sempre di più, e dedichiamo sempre meno tempo alle
forme
basilari
di riproduzione: dormire, mangiare, oziare, prendersi cura gli uni
degli altri.
Già
all’inizio degli anni ’90, un’attenta osservatrice, la
statunitense Juliet Schor, notò
nel
suo The Overworked
American che gli americani
vivevano con la sensazione di un
tempo
sempre più compresso a causa delle aspettative e delle richieste
crescenti
dell’economia
capitalistica e della società stessa. Schor faceva notare che
nonostante la
crescita
della produttività, negli ultimi decenni il tempo dedicato dagli
americani alle
ore
di lavoro era sensibilmente cresciuto, mentre era diminuito il tempo
libero e lo
spazio
dedicato all’ozio.
Se
gli americani non se la passano bene, gli italiani non stanno molto
meglio. Le
indagini
multiscopo dell’Istat sull’uso del tempo mostrano che in generale
l’Italia è uno
dei
paesi in Europa con meno tempo libero a disposizione dei suoi
cittadini e per quanto
riguarda
in particolare le donne il tempo libero è ancora più basso. Infatti
alle
aspettative
sociali di un’autonomia e di una gratificazione nello spazio
professionale e
lavorativo
non ha corrisposto un equivalente impegno maschile nel lavoro di cura
nell’ottica
di una sua più equa redistribuzione. L’impegno e la presenza
maschile nel
lavoro
di cura sono cresciuti ma molto limitatamente, almeno nel contesto
italiano e non
sono
andati a compensare il tempo impiegato nel lavoro produttivo
rimunerato
femminile.
Per le donne il tempo dedicato al lavoro produttivo si è
semplicemente
andato
ad aggiungere a quello tradizionalmente assegnato alla cura. Per
quanto riguarda
il
tempo libero le donne rimangono penalizzate perfino nel week end e a
quasi tutte le
ore
del giorno le donne impegnate nelle attività del tempo libero sono
meno numerose
degli
uomini.
Il
risultato complessivo come genitori, è che abbiamo bisogno di
trovare
“occupazioni”
continue anche per “tenere impegnati” i bambini. Mentre fette
sempre
più
importanti del tempo di cura vengono appaltate e “pagate” sempre
di più a lavoratori
e
soprattutto lavoratrici esterni, spesso straniere. I bambini crescono
in maniera sempre
più
chiusa e isolata. Anche quando il lavoro viene compiuto in casa, il
tempo e
l’attenzione
dedicata ai bambini è spesso limitata e frammentata.
In
termini più generali, per uomini e donne, la potenzialità delle
nuove tecnologie,
l’aumento
dell’efficienza e della produttività non ha liberato tempi di vita
o aperto
nuovi
spazio di ozio, relax, convivialità, come ci si poteva aspettare.
Nel
frattempo è cresciuta infatti la richiesta di produttività e
l’attesa di performance
economiche
e sociali.
Da
una parte la ricerca di sempre nuovi oggetti e prodotti ci richiede
sempre più
tempo
per guadagnare il necessario per acquistarli e sempre più tempo per
fare
shopping.
Dall’altra molti dei prodotti e dei gadget che produciamo e che
acquistiamo
sono
a loro volta divoratori di tempo: dall’auto, alla televisione, al
computer, alle nuove
tecnologie
domestiche e per la vita quotidiana (elettrodomestici da cucina,
microonde,
rasoi,
telefonini, lettori mp-3, i-pod, palmari, tablet e i-pad, home
theater ecc.). Gli
stessi
giochi per bambini – si pensi alla play station e ai video giochi -
diventano sempre
più
tecnologici e costosi.
Il
tempo di non lavoro, il tempo delle vacanze è andato costantemente
diminuendo
nella
nostra società. Anche le festività riconosciute, le giornate di non
lavoro, sono
sempre
meno. Lo stesso spazio del tempo libero e delle vacanze è stato
occupato da
un’industria
apposita e da un mercato del turismo o del divertimento: viaggi,
hotel,
residence,
villaggi, impianti sportivi, attrazioni turistiche, monumenti,
divertimenti,
aperitivi,
pasti, tutto è controllato da un mercato sempre più pervasivo.
Senza
accorgercene
ci siamo abituati a commercializzare anche il tempo non di lavoro.
Fatto
questo
che ha contribuito a sua volta ad aumentare la necessità di
guadagnare per poter
spendere
in maniera più esclusiva il proprio bonus di tempo libero.
In
altre parole anche il tempo teoricamente non produttivo è oggi
impiegato e
canalizzato
in un sistema di produzione e di mercato. Dobbiamo pagare anche il
nostro
relax.
È dobbiamo lavorare di più per acquistare un tempo “libero”
sempre più costoso e
impegnativo
e quindi di fatto sempre più compresso.
Se
non siamo occupati dal lavoro, altre attività – palestre,
fit-ness, corsi di vario
genere
– tengono impegnate le nostre teste e i nostri corpi. Perfino
internet e i social
network
oggi diventano attività sempre più impegnative da seguire e
conseguentemente
fonti
di stress.
Insomma
una delle maggiori scarsità con cui stiamo quotidianamente
combattendo è
la
scarsità di tempo. Il che però è un effetto del modo in cui
spremiamo il tempo e noi
stessi,
ovvero di forme di sfruttamento e auto sfruttamento sempre più
pervasive.
Secondo
Alain Ehrenberg, quello che stiamo vivendo è il passaggio da una
società
che
forniva modelli sociali e di ruolo definiti assieme a rigide
prescrizioni e proibizioni
a
una società di mercato dove l’individuo è divenuto apparentemente
sovrano ed è
sollecitato
a “divenire se stesso”, ovvero ad assicurarsi il proprio
personale successo.
Siamo
tutti delle specie di imprenditori di noi stessi, impegnati ad
autopromuoverci e ad
affermarci
personalmente e socialmente in un contesto sempre più fluido e
precario. La
contrapposizione
tra il permesso e il vietato lascia spazio all’opposizione tra
possibile e
impossibile.
Gli
individui di un tempo erano costretti a confrontarsi e a conformarsi
a modelli
rigidi
e preconfezionati e il doppio confronto con l’interdetto nei
comportamenti e con
la
disciplina dei corpi poteva condurli fino all’estremo della
nevrosi. Al contrario il
maschio
contemporaneo che vive l’ebbrezza narcisistica del “puoi essere
quello che
vuoi”
si trova a confrontarsi piuttosto con il rischio del fallimento, con
la sensazione di
impotenza
e quindi con la “depressione”. La fatica depressiva ha preso il
posto
dell’angoscia
nevrotica. La nevrosi nasceva da un conflitto con una norma, tra le
altre
cose
sessuale, mentre la depressione nasce da un sentimento di
inadeguatezza, di deficit
personale.
La
depressione, come ha notato Alain Ehrenberg, è in effetti una
“malattia della
responsabilità”,
una condizione «in
cui predomina un sentimento di insufficienza: il
depresso
non si sente all’altezza, è stanco di dover divenire se stesso»
(Alain
Ehrenberg,
1999, pag. 5) «La
depressione – continua Ehrenberg - ci illumina sulla
nostra
attuale esperienza della persona, poiché essa è la patologia di una
società in cui
la
norma non è più fondata sulla colpa e la disciplina, bensì sulla
responsabilità e
l’iniziativa.
[…] L’individuo
è messo a confronto più con una patologia
dell’insufficienza
che con una malattia della colpa, più con l’universo della
disfunzione
che
con quello della legge: il depresso è l’uomo in panne»
(Alain Ehrenberg, 1999, pag.
10).
Se
per Ehrenberg la depressione è un effetto della pressione della
responsabilità, per
il
filosofo tedesco di origine coreana Byung-Chul Han è piuttosto
l’effetto della
pressione
della prestazione.
In
un recente saggio egli afferma che da tempo noi non viviamo più in
una “società
disciplinare”,
come quella descritta da Michael Foucault, ma piuttosto in una
“società
della
prestazione”. Alla forma del divieto si sostituisce l’imperativo
della prestazione. Il
«verbo
modale positivo» di una simile società – nota Byung-Chul Han - è
il “poter fare”
illimitato.
Infinite sono le opportunità e le occasioni che le pubblicità ci
presentano e
che
osserviamo o ascoltiamo centinaia di volte ogni giorno, per strada,
per radio,
televisione,
su internet o in giro.
La
realtà soggettiva, tuttavia, è radicalmente diversa. Noi siamo
vincolati a dove
nasciamo,
al nostro contesto, alle nostre risorse, alle nostre opportunità, al
nostro tempo.
Se
il mercato offre certe opportunità per tutti, esse in realtà sono
godibili solo da pochi.
Anzi,
come aveva compreso l’economista Fred Hirsch, gran parte dei beni
offerti dal
mercato
vanno intesi come beni posizionali, il cui godimento dipende dal
fatto di
goderne
al posto o a spese di altri. La prestazione è spesso un confronto e
una
competizione
con il vicino, con il prossimo.
La
richiesta continua di performance e prestazioni ci ha trasformato
tutti in soggetti
imprenditori
e al contempo sfruttatori di noi stessi. Ci spremiamo fino in fondo
per
ottenere
il massimo uso possibile di noi stessi. Questa richiesta e attesa di
prestazione
genera
tuttavia persone frustrate e depresse.
«L’uomo
depresso è quell’animal laborans che sfrutta se stesso del tutto
volontariamente,
senza costrizioni esterne. Egli è al tempo stesso vittima e
carnefice»
(Byung-Chul
Han, 2012, pag. 26).
Ragionare
di cura oggi, di cura di sé, di cura degli altri, di cura
dell’ambiente ci
obbliga
a fare i conti con questo modello sociale e culturale. Questo
significa tornare a
domandarci
se il modello di sviluppo, di crescita, di benessere che abbiamo
inseguito
negli
ultimi sessant’anni almeno è davvero una strada per il nostro ben
vivere oppure sta
in
realtà determinando una forma di disagio o di patologia sociale
diffusa: sovra-lavoro
(che
paradossalmente si accompagna ad una crescente disoccupazione),
mancanza di
tempo,
stress, ipertensione, ansia, angoscia, stanchezza, esaurimento,
depressione,
nuove
forme di povertà e di abbandono. Le ore di una giornata rimangono
sempre 24
ma
abbiamo sempre meno tempo per dormire, riposarci, godere della vita e
delle
relazioni.
Insomma
quelle che un tempo chiamavamo società del benessere oggi appaiono
sempre
più come “società
della stanchezza” per
usare l’efficace espressione di Byung-
Chul
Han. Una società segnata da malattie come la depressione,
l’iperattività, la
sindrome
da deficit di attenzione, le diverse forme di burnout, le malattie
alimentari
(anoressia,
bulimia).
Tutto
questo mette al centro una questione che riguarda non soltanto
l’impatto
ambientale
di questo modello ma anche il suo impatto psichico, culturale e
sociale e ci
apre
a prospettive di cambiamento radicali e difficili.
«Che
cosa è necessario? - Si
chiedeva tempo fa Cornelius Castoriadis -
Data la crisi
ecologica,
l'estrema disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza tra
paesi ricchi
e
poveri, la quasi impossibilità del sistema di continuare la sua
corsa attuale, quello
che
necessario è una nuova creazione immaginaria di proporzioni
sconosciute nel
passato,
una creazione che metta al centro della vita umana significati
diversi
dall’espansione
della produzione e del consumo, che ponga obiettivi di vita diversi,
riconoscibili
dagli esseri umani come qualcosa per cui val la pena vivere. [...]
Questa è
l’immensa
difficoltà di fronte a cui ci troviamo. Dovremmo volere una società
nella
quale
i valori economici hanno cessato di essere centrali (o unici), in cui
l’economia è
rimessa
al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine
ultimo, in
cui
dunque si rinuncia a questa corsa folle verso un consumo sempre
maggiore. Questo
è
necessario non soltanto per evitare la distruzione definitiva
dell’ambiente terrestre,
ma
anche e soprattutto per uscire dalla miseria psichica e morale degli
umani
contemporanei.
Occorrerebbe pertanto che gli esseri umani (parlo ora dei paesi
ricchi)
accettino
un livello di vita dignitoso, ma frugale, e rinuncino all'idea che
l'obiettivo
centrale
della loro vita sia che il loro consumo aumenti del 2-3% per anno.
Per
accettare
questo, occorrerebbe che ci fossero altre cose a dare senso alla loro
vita»
(Cornelius
Castoriadis, 1996, pp. 112-113).
Oggi
viviamo un eccesso di positività, una stanchezza legata
all’ossessione del poter
fare,
del poter realizzare che ci porta ad uno svuotamento ad una graduale
ma
inesorabile
perdita di forze fisiche e psichiche.
Byung-Chul
Han contrappone alla passività generata dall’iperattività, che
non
ammette
più alcun agire libero, «la negatività del non-fare (nicht-zu)»
come tratto
essenziale
della contemplazione, come ricerca di una posizione di sovranità
dentro di sé.
Ma
l’aspetto interessante di quest’analisi è che non contrappone
all’eccesso di fare
un
appello astratto al suo contrario, non ipotizza l’intervento di una
fonte esterna. La
speranza
che emerge è data dalla non chiusura, dalla possibilità di
concepire degli
“itinerari
nella stanchezza” che producono esiti inattesi. Emerge l’ipotesi
di una
trasformazione
che procede dal centro di questa condizione e attraverso un sentiero
misterioso
procede verso una diversa esperienza interiore ed esistenziale.
Richiamandosi
a Peter Handke, Byung-Chul Han ipotizza che a fianco o oltre una
stanchezza
dell’io, solitaria, chiusa al mondo, possa farsi largo una
stanchezza
fiduciosa,
limpida, aperta al mondo che permette un diverso soffermarsi. Una
stanchezza
che apre all’abbandono, alla quiete. L’ipotesi di Byung-Chul Han
è che ci
possa
essere una stanchezza che cura, «quella
stanchezza che non deriva da un riarmo
sfrenato,
bensì da un cordiale disarmo dell’io»
(Byung-Chul Han, 2012, pag. 6).
La
strada che sembra proporre è dunque un approfondimento di questa
stanchezza,
uno
sprofondamento e un attraversamento di questa stanchezza. Se
l’eccesso di voler
fare,
della potenza positiva genera una stanchezza da esaurimento, è
possibile invece
trovare
ispirazione in un’altra esperienza di stanchezza che discrimina ed
ispira. Una
stanchezza
che «permette di
accedere a un’attenzione completamente diversa, a quelle
forme
prolungate e lente che si sottraggono all’iper-attenzione breve e
veloce» (
Byung-Chul
Han, 2012, pag. 70). Una stanchezza lieta, felice, che ci permette di
abbandonarci
a ciò che ci sta più a cuore.
Se
ascoltata in profondità, la stanchezza segnala infatti anche la
mancanza di
desiderio
nel continuare a fare una determinata cosa. Segnala il non poter più
sopportare
oltre.
Rivela la nausea o il disgusto. Permette insomma di riflettere e
riflettersi,
permettendo
l’insorgere di un’autorità e di un desiderio interiore e
relazionale, di una
potenza
negativa che ci rafforza e ci autorizza a discriminare, a non fare, a
togliere, a
sottrarre.
Insomma
il partire da dove si è, il prendere coscienza della nostra
condizione ci apre
a
percorsi di liberazione che possono aiutarci a tornare a prenderci
cura di noi, degli
altri,
ad aprire spazi di condivisione e a ridurre le forme di dipendenza
dal mercato,
dalla
produzione, dal consumo, a ritrovare un senso di spiritualità e di
convivialità.
(Riflessioni Sistemiche - N° 7 dicembre 2012 )
Bibliografia
Castoriadis C., 1996. La montée de
l’insignifiance, Les Carrefours du labyrinthe – 4,
Points Essais.
Byung-Chul
Han, 2012. La società
dell’incertezza, Nottetempo, Roma.
Ehrenberg
A., 1999. La fatica di essere se stessi. Depressione e società,
Einaudi, Torino
Peter
Handke, 1991. Saggio sulla stanchezza, Garzanti, Milano.
Schor J.B., 1992. The Overworked
American. The Unexpected Decline of Leisure,Basic
Books, New York
grazie della citazione, è molto interessante e per me Deriu è una voce sempe molto interessante,ma prima ancora una bella persona. Cristina
RispondiElimina