domenica 8 agosto 2021

su genova, vent'anni dopo

ho inviato questo articolo ad un giornale di area che non l'ha pubblicato...(strano, no?) Ripensare a noi. Come già mi avete permesso di rimarcare in quella breve frase nel vostro numero di luglio, continua a permanere un vuoto, che ha continuato a restare tale in tutti questi anni, e che dipende soltanto da noi: la necessità di un'autocritica da parte nostra. Sulle nostre scelte di allora, sui metodi e sulle forme da noi adottati, sulla caratura etico-politica complessiva delle strategie che il movimento assunse, più o meno consapevolmente e democraticamente. Proverò quindi a tracciare qui alcune considerazioni, a lungo meditate certo, ma ancora vive e accese in me, perlomeno quanto la dolorosa, esaltata e rabbiosa memoria di quei giorni. A vent'anni da Genova anche le voci dell'establishment possono permettersi di riconoscere ora (ora che è troppo tardi, per l'umanità e per il pianeta) che quel movimento aveva tutte le ragioni del mondo. Ed era molto forte, perché teneva insieme tutte le voci del mondo: era infatti caoticamente unito, adeguatamente organizzato, ma altamente differenziato, giovanissimo e radicato nelle esperienze trascorse. Un movimento di movimenti, come si amava dire allora. Imbattibile, sul piano delle argomentazioni culturali e della lotta politica. É per questo che poteva essere sconfitto solo in guerra. L'avversario ne era consapevole. E, inevitabilmente, guerra fu. Tartarughe senza guscio. Come mi capitava in quegli anni, avevo lavorato a lungo -sia come trainer che come facilitatore- per preparare gruppi all'appuntamento di Genova: la formazione all'azione nonviolenta dei gruppi d'affinità (GdA) di Rete Lilliput era stata la mia attività primaria dell'anno 2000, sia nella mia città (all'interno di quella che allora si chiamava 'La casa di Alex', un luogo -a Cagliari- dedicato all'amico Alex Langer), sia in giro per l'Italia. Con i nostri modesti mezzi eravamo comunque giunti al G8 con varie decine di GdA, abbastanza formati, coordinati ed agguerriti, come non si vedeva dai tempi di Comiso. Ma già da quando ci trovammo a campeggiare nel parco di Albaro capimmo che la situazione era ancora più problematica di quel che ci potessimo attendere: ci trovammo a convivere lì con l'area 'nera' ed a verificare che i 'black bloc' esistevano e si stavano preparando allo scontro aperto (smontando panchine, recuperando spranghe dai cantieri, accumulando sampietrini...). Ma, fatto ancora più grave ed inquietante, che alle nostre denunce di questi fatti si rispondeva con aria di sufficienza e rassicurazioni (da parte del Genoa Social Forum-GSF) e col silenzio (da parte delle forze dell'ordine, più volte -e inutilmente- da noi allarmate). La sottovalutazione di quel fenomeno (che, col senno di poi, manifestava anche un certo grado di collusione) si sarebbe rivelata decisiva per lo svolgimento violento e fuori controllo dei giorni successivi. Soltanto pochi di noi intuirono che si stava preparando un gran trappolone e provarono a prepararsi e a denunciarlo: sia attraverso un approfondimento formativo, più centrato sull'eventualità di scontri violenti, sia attraverso interviste e prese di posizione pubbliche che manifestavano preoccupazione per quel che stava probabilmente per accadere. Ma, anche in questo caso, il GSF reagì contro di noi, accusandoci di eccessivo allarmismo e continuando a guardare con aria di sufficienza ai 'giochi di guerra' simulati nei nostri training. In generale, la sensazione più forte che allora ebbi (e che si è rafforzata negli anni) è che arrivammo a quell'esperienza come tartarughe senza guscio, ingenuamente propense a minimizzarne i rischi, sostanzialmente impreparate alla gravità e durezza della situazione reale e collettivamente incapaci di contestualizzarci in corsa rispetto ad essa. Certamente quel che accadde superava l'immaginabile, ma non per questo possiamo esimerci dal considerare i nostri limiti d'approccio, di previsione e gestione degli eventi, che contribuirono ad accentuarne distruttività ed ingovernabilità. Gusci senza tartarughe. Ma, per comprendere pienamente le nostre responsabilità nel disastro genovese, all'ingenuità ed impreparazione dell'area nonviolenta (bianco-rosa) dobbiamo necessariamente aggiungere delle considerazioni critiche sull'atteggiamento tenuto dalla cosiddetta area gialla, che accomunava disobbedienti, tute bianche, centri sociali. Un'area che, pur accettando tatticamente la non-violenza, non ha mai rinunciato alle sue modalità tradizionali d'azione politica: -da un lato, ai suoi rituali da falange militarmente organizzata (la concentrazione dentro lo stadio Carlini, le esercitazioni con scudi e caschi, la formazione in cortei 'a guscio', la leadership carismatica ed accentrata, i linguaggi contro-simmetrici...); -dall'altro, alla sua ricerca ossessiva di visibilità massmediatica, anche a costo di tentare mediazioni sottobanco con la polizia per concordare ipotetiche 'invasioni simboliche' della zona rossa, ad uso e consumo delle telecamere già famelicamente appostate. Nel primo caso, l'ironia parodistica sottesa (a loro dire) nell'atteggiamento paramilitare esibito, non venne colta (com'era lecito e prevedibile attendersi, e come più volte avevamo rimarcato a Casarini & C.) da militari e poliziotti, che reagirono di conseguenza a quella malriuscita imitazione e decisero di caricare (ferocemente e senza alcun senso della proporzione) i manifestanti in via Tolemaide ed in piazza Alimonda (con le conseguenze tragiche che conosciamo). Nel secondo caso, all'opportunismo dei nostri compagni di strada la questura (ed il ministro) risposero con l'opportunismo dei potenti: prima promisero (forse) e poi non mantennero (di certo): al primo accenno di 'invasione' attaccarono gli impudenti che credevano di essere furbi e finirono fregati. Ma il loro fallimento trascinò con sé anche il nostro, provocando un'ulteriore escalation del livello di scontro e di violenza, un aumento esponenziale della rabbia e del risentimento, sia tra i manifestanti che tra i loro avversari armati. Non si fanno prigionieri. Quel che accadde il giorno successivo era perciò nelle cose. Cercammo di intervenire in assemblea, quella notte, per scongiurare l'arrivo di nuove persone, che erano state convocate da tempo per il corteo di massa finale. Per quanto mi riguardava, incominciavo a dubitare che un altro mondo fosse possibile e che chi avevamo di fronte ritenesse più probabile mandare noi, all'altro mondo... Ci sembrava che la situazione -dopo gli scontri brutali e l'uccisione di Carlo Giuliani- fosse decisamente cambiata rispetto ai giorni prima e che necessitasse di un ripensamento radicale delle modalità d'azione e di presenza in loco. Ma ancora una volta il GSF non tenne conto delle controproposte e decise di confermare il programma previsto, contro il parere mio e di molti altri. Si era ormai entrati in un clima di guerra, l'avversario era riuscito ad imporre il suo gioco e a portarci nel suo campo. Da quel momento, mi furono chiare da subito due cose: A: che se al corteo dell'indomani non fosse successo nulla di grave, questo sarebbe dipeso soltanto dalle scelte dell'avversario di non infierire ulteriormente al momento, consegnandoci così totalmente alle sue decisioni e non alle nostre. E che, B: se questo sarebbe accaduto, l'avversario avrebbe comunque scelto un altro momento -meno pubblico e visibile- per vendicarsi e scatenare la sua rabbia contro di noi. La prima cosa accadde, e fu un miracolo: più volte si rischiò che la situazione degenerasse e che il corteo venisse attaccato e finisse in mare (con conseguenze incalcolabili che ancora oggi mi danno i brividi anche solo a pensarci). La sera, allora, feci un giro alla scuola Diaz, dove ci avevano proposto di andare a dormire per l'ultima notte: la situazione lì era fuori controllo, totalmente sfuggita di mano al GSF: se fossi stato un poliziotto, ne avrei approfittato per realizzare quel che, nella mia mente spaventata e lucidamente folle, avevo chiamato piano B. Persuasi i membri del mio gruppo (anche litigando per questo con alcuni di loro) a distribuirsi in case di amici genovesi ed invitai caldamente tutte le persone che conoscevo, e che incontravo nei paraggi, a non dormire alla scuola. Nel cuore della notte, assistemmo impotenti alla tv al macello messicano che sappiamo. La polizia aveva deciso di non fare prigionieri, di non lasciare superstiti, di vendicarsi oltre le regole di ingaggio, come accade sempre in una guerra. Ed il terrore di quei giorni, e soprattutto di quella notte, è rimasto -così come era nelle loro intenzioni- nei nostri corpi, ed anche in quelli di chi non c'era ancora, per tutti gli anni a venire, ed ancora oggi. Non decretò solo la strage di chi l'ha vissuta. E neppure soltanto la fine di quell'imbattibile movimento dei movimenti, lasciandolo senza fiato e senza più moto alcuno. Decretò la fine della possibilità di un'azione politica che non si iscrivesse immediatamente nella dimensione del terrore e nella guerra, come i fatti del settembre successivo ineluttabilmente confermarono per l'umanità intera. Da quel momento, infatti, i poteri dominanti hanno compiuto lo scatto finale: le parvenze democratiche hanno sollevato il loro sipario e mostrato la verità dello spettacolo a cui ancora oggi stiamo assistendo, così come siamo divenuti da allora: sparpagliati, silenti, spaventati, attoniti.

lunedì 2 agosto 2021

pass(aggi) obbligati

Le emergenze catastrofiche si sovrappongono ed intrecciano sempre più frequentemente e pericolosamente. Per quanto ci si impegni, non è più possibile rimuoverle. Una possibilità poteva risiedere nell'accrescere la nostra capacità di stare nell'incertezza, rafforzare fiducia e relazioni, accogliere i rischi del vivere: in sintesi, nell'imparare a giocare con la catastrofe. Ma abbiamo preso un'altra strada, quella del securitarismo: militare, digitale, sanitario. Ed ora eccoci di fronte ad una serie di passaggi che ormai non possono che apparirci obbligati. La nostra libertà si riduce ancor più ad una serie di obblighi a cui dover soltanto obbedire. Chi ama la libertà e la vita più della sopravvivenza e della salute dovrà però non smettere di ricordare a se stesso e a tutti che, anche in questo momento, si potrebbe scegliere diversamente. Mi sono vaccinato ed ho in tasca il green pass. Ma questo non significa che accetti la logica dell'obbligo, anzi. Credo sempre nel valore dell'obiezione e della disobbedienza, anche da parte di chi lo fa a partire da credenze che non sono le mie. Non mi affido ad ideologie rigide, pregiudizialmente schierate, che siano scientiste o anti-scientifiche. Per questo, mi dichiaro assolutamente contrario all'obbligo del vaccino e del green pass generalizzato. Concentriamoci invece nel cercar di raggiungere al più presto l'immunità di gregge, così come avviene per altre epidemie: vacciniamo tutte le persone disponibili a farlo, e lasciamo in pace tutti coloro che non lo vogliono. Se qualcuno ritiene che il rischio di vaccinarsi sia superiore a quello di non farlo, va rispettato. Se è disposto a pagare i costi della sua scelta divergente, va rispettato. E se i costi economici della sua scelta ricadono sulla collettività, dobbiamo comunque continuare a curare chi si ammala: ne ha diritto in quanto cittadino che paga le tasse, indipendentemente dalle sue scelte vax o no-vax. Per certe situazioni di contatto (contesti sanitari, scolastici, pubblici, di cura...) si potrebbe rendere obbligatoria una certificazione, ma non solo attraverso il vaccino. Si dovrebbe proseguire a richiedere solo un tampone, periodico e gratuito. E/o l'uso della mascherina al chiuso, sempre (ad esempio, per impiegati pubblici, camerieri, baristi o ristoratori). In determinati contesti, si potrebbe comunque sempre lasciare alle persone che li vivono la possibilità di volersi assumere consensualmente il rischio di incontrarsi e lavorare insieme senza richiedersi nulla a vicenda, senza obblighi reciproci. Le regole specifiche di relazione, se consapevolmente assunte, hanno sempre infatti un valore superiore per me rispetto a quelle che ci obbligano per legge.