martedì 31 marzo 2020

la verità, vi prego, su...

GIORGIO AGAMBEN E L’EPIDEMIA AL NEUTRINO
di MARCO D'ERAMO

Il coronavirus viene utilizzato per stringere la morsa del dominio e del controllo, certo. Ma se Agamben fosse marxista oltre che schmittiano vedrebbe che gli stessi dominanti stanno subendo una crisi senza precedenti.

Giorgio Agamben ha insieme torto e ragione, o, per meglio dire, tanto torto e un po’ di ragione.

Ha torto semplicemente perché i fatti lo stanno smentendo: anche i filosofi muoiono di contagio e Hegel perì di colera. Un vero filosofo può anche cambiare opinione quando i fatti cambiano: quel che era possibile affermare il 26 febbraio, non è più dicibile il 17 marzo.

Ha un po’ di ragione perché non possiamo fare i finti tonti e sappiamo che i dominanti usano ogni occasione per rafforzare il proprio dominio, anche – soprattutto –  in situazioni di crisi acuta (o di guerra). Che il coronavirus sia usato per rafforzare la sorveglianza sui cittadini non lo scopre Agamben, l’evidenza è già stata schiacciante altrove, se fossimo più attenti. In Corea del sud è successo un putiferio perché il governo usava i cellulari per tracciare i possibili contatti che i singoli cittadini avevano avuto con singoli contagiati, sconvolgendo la vita di varie famiglie, svelando altarini, adulteri e altre amenità. In Israele è il Mossad che vuol replicare quest’uso dei cellulari (d’altronde in tutto il mondo i servizi segreti non avevano atteso le epidemie per tracciare i telefonini). In Cina il governo ha usato il virus per moltiplicare gli apparati di videosorveglianza e videoriconoscimento facciale. E Agamben non è il primo a sostenere che uno degli obiettivi del dominio è di isolare i dominati. Già Guy Debord scriveva che l’utopia urbanistica capitalistica era quella di “isolarci insieme”.

Affermare però che i dominanti sfruttano ogni occasione per rafforzare il proprio potere di controllo e sorveglianza, non implica che dobbiamo ricorrere a dietrologie, teorie complottistiche, disegni oscuri: perché l’amministrazione Bush sfruttasse l’11 settembre per decretare l’infame Patriot Act che ha posto tutto il pianeta alla mercede dei sequestri statunitensi clandestini (extraordinary renditons), non c’è stato bisogno che le Twin Towers fossero state abbattute dagli americani stessi: bastava che i Cheney e i Rumsfeld sfruttassero l’occasione insperata che gli era stata offerta. Così, che alla fine di questa crisi i poteri di sorveglianza dei governi risultino decuplicati, non vuol dire che il contagio non sia reale, mortifero e incredibilmente distruttivo.

Ma, questo è il punto, il dominio non è unidimensionale. Non è solo controllo e sorveglianza. È anche sfruttamento e prelievo. E dove Agamben ha perfettamente torto è quando non vede con quanta riluttanza i dominanti stiano accettando che i loro affari (compagnie aeree, imprese edilizie, fabbriche automobilistiche, circuiti turistici, produzioni cinematografiche: in breve, tutto) vadano in malora. Che intere fortune vadano in bancarotta. Con questa immissione di fantascientifiche quantità di liquidità è in atto una gigantesca distruzione di capitale (visto che questa moneta emessa non corrisponde a nessun controvalore reale), simile a quella che avviene in una guerra. Solo che la guerra distrugge non solo capitale finanziario, ma anche capitale materiale: cioè infrastrutture, fabbriche, ponti, porti, stazioni, aeroporti, edifici. In modo tale che dopo la guerra si passa alla ricostruzione. Ed è questa ricostruzione che innesca la ripartenza economica. Invece l’epidemia attuale somiglia molto di più a una bomba al neutrino, che uccide gli umani e lascia intatti edifici, strade, fabbriche. Per cui quando l’epidemia sarà finita non ci sarà nulla (o molto poco) da ricostruire. E questo costituirà un problema micidiale.

È la dimensione economica del dominio (un po’ di Marx, oltre che di Schmitt, non farebbe male ad Agamben), è il danno che quest’epidemia arreca alla dimensione finanziaria del dominio a spiegare l’estrema riluttanza, di cui parlava Paolo Flores d'Arcais, con cui tutti i governi hanno preso misure d’isolamento e di quarantena. Quindi sì, l’epidemia sarà sfruttata per rendere controllo e sorveglianza ancora più capillari; sì, l’epidemia è usata come esperimento in tempo reale di disciplinamento senza precedenti della società, ma tutto questo avviene ex post e a malincuore: chi ci vuole sorvegliare e controllare avrebbe di gran lunga preferito farlo con mezzi meno dispendiosi per sé e per la propria classe.

PS. E poi, se mi posso permettere, il tono oracolare andava bene a D’Annunzio, non a un filosofo: questo lirismo sul contatto/metaforicamente-contagio è francamente fuori luogo quando persone in carne e ossa muoiono sole, abbandonate, isolate dai propri cari senza funerale.

(25 marzo 2020)


Ma Agamben insiste...

Le riflessioni che seguono non riguardano l’epidemia, ma ciò che possiamo capire dalle reazioni degli uomini ad essa. Si tratta, cioè, di riflettere sulla facilità con cui un’intera società ha accettato di sentirsi appestata, di isolarsi in casa e di sospendere le sue normali condizioni di vita, i suoi rapporti di lavoro, di amicizia, di amore e perfino le sue convinzioni religiose e politiche. Perché non ci sono state, come pure era possibile immaginare e come di solito avviene in questi casi, proteste e opposizioni? L’ipotesi che vorrei suggerire è che in qualche modo, sia pure inconsapevolmente, la peste c’era già, che, evidentemente, le condizioni di vita della gente erano diventate tali, che è bastato un segno improvviso perché esse apparissero per quello che erano – cioè intollerabili, come una peste appunto. E questo, in un certo senso, è il solo dato positivo che si possa trarre dalla situazione presente: è possibile che, più tardi, la gente cominci a chiedersi se il modo in cui viveva era giusto.
E ciò su cui occorre non meno riflettere è il bisogno di religione che la situazione fa apparire. Ne è indizio, nel discorso martellante dei media, la terminologia presa in prestito dal vocabolario escatologico che, per descrivere il fenomeno, ricorre ossessivamente, soprattutto sulla stampa americana, alla parola «apocalisse» e evoca, spesso esplicitamente, la fine del mondo. È come se il bisogno religioso, che la Chiesa non è più in grado di soddisfare, cercasse a tastoni un altro luogo in cui consistere e lo trovasse in quella che è ormai di fatto diventata la religione del nostro tempo: la scienza. Questa, come ogni religione, può produrre superstizione e paura o, comunque, essere usata per diffonderle. Mai come oggi si è assistito allo spettacolo, tipico delle religioni nei momenti di crisi, di pareri e prescrizioni diversi e contraddittori, che vanno dalla posizione eretica minoritaria (pure rappresentata da scienziati prestigiosi) di chi nega la gravità del fenomeno al discorso ortodosso dominante che l’afferma e, tuttavia, diverge spesso radicalmente quanto alle modalità di affrontarlo. E, come sempre in questi casi, alcuni esperti o sedicenti tali riescono ad assicurarsi il favore del monarca, che, come ai tempi delle dispute religiose che dividevano la cristianità, prende partito secondo i propri interessi per una corrente o per l’altra e impone le sue misure.
Un’altra cosa che dà da pensare è l’evidente crollo di ogni convinzione e fede comune. Si direbbe che gli uomini non credono più a nulla – tranne che alla nuda esistenza biologica che occorre a qualunque costo salvare. Ma sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata.
Per questo – una volta che l’emergenza, la peste, sarà dichiarata finita, se lo sarà – non credo che, almeno per chi ha conservato un minimo di lucidità, sarà possibile tornare a vivere come prima. E questa è forse oggi la cosa più disperante – anche se, com’è stato detto, «solo per chi non ha più speranza è stata data la speranza».

27 marzo 2020
Giorgio Agamben

Potete confrontare le idee di D'Eramo anche con altri due interessantissimi articoli sulla shock economy:



E poi questo


poi c'è sempre l'ineffabile e inguaribilmente ottimista infogameico Baricco:

Virus, è arrivato il momento dell'audacia
25 MARZO 2020
Con la prudenza ci stiamo dando un sacco da fare. Ora dobbiamo passare ad altro: pensare, capire, leggere il caos e prendersi il rischio di dare a tutti qualche certezza: questo è il mestiere degli intellettuali. Le riflessioni dell'autore del Game in undici punti
DI ALESSANDRO BARICCO

Devo averla già raccontata, ma è il momento di ripeterla. Viene da un bel romanzo svedese. C'è la regina che decide di imparare ad andare a cavallo. Monta in sella. Poi chiede sprezzante al maestro d'equitazione se ci sono della regole. Ed ecco cosa risponde lui: "Prima regola, prudenza. Seconda, audacia".

Bene, direi che con la prudenza ci stiamo dando un sacco da fare. Possiamo passare all'audacia. Dobbiamo passare all'audacia.

Se sei un medico, non so cosa possa voler dire essere audaci in questo momento, quindi non mi permetto di dare suggerimenti. Però so esattamente cosa significhi essere audaci, in questo momento, per gli intellettuali: mettere da parte la tristezza, e pensare: cioè capire, leggere il caos, inventariare i mostri mai visti, dare nomi a fenomeni mai vissuti, guardare negli occhi verità schifose e, dopo che hai fatto tutto questo, prenderti il rischio micidiale di dare a tutti qualche certezza. Al lavoro dunque, ognuno nella misura delle sue possibilità e del suo talento. Io in questo momento non sono particolarmente in forma, ma niente mi impedirà di scrivere qui alcune cose che so. È il mio mestiere.

1. Il mondo non finirà. Né ci ritroveremo in una situazione di anarchia in cui comanderà quello che alle elementari stava all'ultimo banco, non capiva una fava però era grosso e ci godeva a menarti. Sveglia, quelli sono romanzi. Torniamo in noi. E noi - noi umani - siamo una specie di agghiacciante pazienza, intelligenza e forza: siamo gente che è riuscita a convertire il creato nel proprio parco di divertimenti grazie a una delle operazioni più violente e ciniche che si potessero immaginare; non solo, ne siamo anche consapevoli: abbiamo dato un nome al bottino di una simile razzia, antropocene, e siamo arrivati ad essere talmente sicuri di noi stessi da iniziare a pensare recentemente di restituire a parte del creato una sua libertà. Siamo quelli lì. Da sempre combattiamo con i virus. Spesso ci hanno messo in ginocchio. Si dà il caso però che in quella posizione scomoda diventiamo ancora più pazienti, cocciuti e furbi.

2. Stiamo facendo pace col 
Game, con la civiltà digitale: l'abbiamo fondata, poi abbiamo iniziato a odiarla e adesso stiamo facendo pace con lei. La gente, a tutti i livelli, sta maturando un senso di fiducia, consuetudine e gratitudine per gli strumenti digitali che si depositerà sul comune sentire e non se ne andrà più. Una delle utopie portanti della rivoluzione digitale era che gli strumenti digitali diventassero un'estensione quasi biologica dei nostri corpi e non delle protesi artificiali che limitavano il nostro essere umani: l'utopia sta diventando prassi quotidiana. In poche settimane copriremo un ritardo che stavamo cumulando per eccesso di nostalgia, timore, sospetto o semplice fighetteria intellettuale. Ci ritroveremo tra le mani una civiltà amica che riusciremo meglio a correggere perché lo faremo senza risentimento.

3. Chiunque si è accorto di come gli manchino terribilmente, in questi giorni, i rapporti umani non digitali. Capovolgete questa certezza: vuol dire che ne avevamo un sacco, di rapporti umani. Mentre dicevamo cose tipo "ormai la nostra vita passa tutta dai device digitali", quello che facevamo era ammassare una quantità indicibile di rapporti umani. Ce ne accorgiamo adesso, ed è come un risveglio da un piccolo passaggio a vuoto dell'intelligenza. Non dimenticate la lezione, per favore. Anzi, aggiungetene un'altra: tutto questo ci sta insegnando che più lasceremo srotolare la civiltà digitale più assumerà valore, bellezza, importanza e perfino valore economico tutto ciò che ci manterrà umani: corpi, voci naturali, sporcizie fisiche, imperfezioni, abilità delle mani, contatti, fatiche, vicinanze, carezze, temperature, risate e lacrime vere, parole non scritte, e potrei andare avanti per righe e righe. L'umanesimo diventerà la nostra prassi quotidiana e l'unica vera ricchezza: non sarà una disciplina di studi, sarà uno spazio del fare che non ci lasceremo mai rubare. Guardate la furia con cui lo desideriamo ora che un virus l'ha preso in ostaggio, e vi passerà ogni dubbio.

4. Una crepa che sembrava essersi aperta come una voragine, e che ci stava facendo soffrire, si è chiusa in una settimana: quella che aveva separato la gente dalle élites. In pochi giorni, la gente si è allineata, a prezzo di sacrifici inimmaginabili e in fondo con grande disciplina, alle indicazioni date da una classe politica in cui non riponeva alcuna fiducia e in una classe di medici a cui fino al giorno prima stentava a riconoscere una vera autorità anche su questioni più semplici, tipo quella dei vaccini. Una classe dirigente che non sarebbe mai riuscita a fare una riforma della scuola è riuscita a chiudere in casa un intero Paese. Cosa diavolo è successo? La paura, si dirà: e va bene. Ma non è solo quello. C'è qualcosa di più, qualcosa che ci aiuta a capirci meglio: nonostante le apparenze, noi crediamo nell'intelligenza e nella competenza, desideriamo qualcuno in grado di guidarci, siamo in grado di cambiare la nostra vita sulla base delle indicazioni di qualcuno che la sa più lunga di noi. La nostra rivolta contro le élites è temporaneamente sospesa, ma questo ci può aiutare a capirla meglio: noi crediamo nell'intelligenza, ma non più in quella dei padri; vogliamo la competenza ma non quella novecentesca; abbiamo bisogno di qualcuno che decida per noi, ma ci siamo immaginati che non venga da una casta imbambolata da se stessa, stanca e incapace di rigenerarsi. Riassumo. Volevamo una nuova classe dirigente, continuiamo a volerla: possiamo aspettare, adesso non è il momento di fare casino. Ma ricominceremo a volerla il giorno stesso in cui questa emergenza si ricomporrà.

5. È probabile che l'emergenza Covid 19 finirà per rivelarsi come un crinale storico di immensa importanza. Provo a dirla così: è la prima emergenza planetaria generata dall'epoca del 
Game, della rivoluzione digitale, e l'ultima emergenza planetaria che sarà gestita da un'élite e da un'intelligenza di tipo novecentesco. Lo vedete il crinale? La vedete la contraddizione? Capite perché in questo momento capiamo poco, fatichiamo molto, ci smarriamo facilmente? Ci hanno sfidato a un videogame, e noi abbiamo mandato a combattere degli scacchisti. Siamo esattamente in bilico tra un mondo e l'altro. È una posizione scomodissima. Dovete rendervi conto che anche solo senza smartphone, l'ottanta per cento di quello che vi vedete accadere attorno non sarebbe successo (flusso di informazioni, costruzione di storytelling, maree di paura che vanno e vengono, sopravvivenza in situazione di lockdown quasi totale, velocità delle decisioni....): e tuttavia la gestione di tutto questo è in mano, inevitabilmente, a una razionalità novecentesca. Faccio un caso pratico, così ci capiamo. Il Novecento aveva il culto dello specialista. Un uomo che, dopo una vita di studi, sa moltissimo di una cosa. L'intelligenza del Game è diversa: dato che sa di avere a che fare con una realtà molto fluida e complessa, privilegia un altro tipo di sapiente: quello che sa abbastanza di tutto. Oppure fa lavorare insieme competenze diverse. Non lascerebbe mai dei medici, da soli, a dettare la linea di una risposta a un'emergenza medica: gli metterebbe di fianco, subito, un matematico, un ingegnere, un mercante, uno psicologo e tutto quello che sembrerà opportuno. Anche un clown, se serve. Probabilmente agirebbero con un solo imperativo: velocità. E con una singolare metodologia: sbagliare in fretta, fermarsi mai, provare tutto. Attualmente, invece, il nostro procedere segue altre strade. Ci guida, nel modo migliore possibile, un'élite che, per preparazione e appartenenza generazionale, usa la tecnologia digitale ma non la razionalità digitale. Non possiamo certo fargliene una colpa. Ma questo è il momento di capire che se molto di quello che vi circonda stamattina vi sembra assurdo, una delle ragioni è questa. Grandi Maestri di scacchi che giocano a Fortnite (vinceranno, ma capite che lo stile di gioco alle volte vi sembrerà piuttosto surreale).

6. Rimanete a casa, perdìo. Lo devo ripetere? Ok, lo ripeto.

7. Rimanete a casa, perdìo. Con tutto quel che c'è da leggere...

8. L'emergenza Covid 19 ha reso di un'evidenza solare un fenomeno che vagamente intuivamo, ma non sempre accettavamo: da tempo, ormai, a dettare l'agenda degli umani è la paura. Abbiamo bisogno di una quota giornaliera di paura per entrare in azione. Adesso il virus copre il nostro intero fabbisogno, e infatti chi è più spaventato dagli immigrati o dal terrorismo o da Salvini o dagli effetti dei videogame sui figli o dal glutine? Ma anche solo venti giorni fa ne avevamo una gran bisogno, di quelle paure. Le coltivavamo come orchidee. In alcuni momenti di carestia ci siamo fatti bastare un'emergenza meteo o una possibile crisi di governo (capirai). Sappiamo ormai giocare solo coi pezzi neri: se prima la paura non muove, noi non abbiamo strategia. Volevo invece ricordare - e farlo proprio in questi giorni - che noi siamo vivi per realizzare delle idee, costruire qualche paradiso, migliorare i nostri gesti, capire una cosa di più al giorno, e completare, con un certo gusto magari, la creazione. Cosa c'entra la paura? La nostra agenda dovrebbe essere dettata dalla voglia, non dalla paura. Dai desideri. Dalle visioni, santo cielo, non dagli incubi.

9. (Questa è delicata. Astenersi perditempo). A nessuno sfugge, in questi giorni, il dubbio di una certa sproporzione tra il rischio reale e le misure per affrontarlo. Ce la possono spiegare come vogliono, ma la sensazione resta: una certa sproporzione. Non voglio infilarmi in quei paragoni che poi ti portano a raffrontare i morti di Covid 19 con quelli causati dal diabete o dalla scivolosità della cera da pavimenti. Ma resta, ineliminabile, il dubbio che da qualche parte stiamo scontando una certa incapacità a trovare una proporzione aurea tra l'entità del rischio e l'entità delle contromisure. In parte la possiamo sicuramente mettere in conto a quell'intelligenza là, quella novecentesca, alle sue logiche, alla sua scarsa flessibilità, alla sua adorazione per lo specialismo. Tuttavia la faccenda non si risolve lì. Se io cerco di guardare dentro quella sproporzione che tanto ci infastidisce e interroga, alla fine trovo qualcosa che adesso è dura da dire, ma come dicevo è il momento dell'audacia, quindi bisogna dirla. C'è un'inerzia collettiva, dentro a quella apparente sproporzione, un sentimento collettivo che tutti contribuiamo a costruire: abbiamo troppa paura di morire. È come se il diritto alla salute (una fantastica conquista) si fosse irrigidito in un impossibile diritto a una vita perenne, che d'altronde nessuno ci può assicurare. Ora, il rapporto con la morte, e con la paura della morte, è una cosa innanzitutto individuale, una faccenda che ognuno si gestisce da sé (io per esempio me la cavo da schifo). Ma in seconda battuta la paura della morte è anche un sentimento collettivo che le comunità degli umani sono da sempre attente a edificare, limare, correggere, controllare. Per dire, la civiltà di mio nonno, che ancora aveva bisogno delle guerre per mantenersi in vita, stava attenta a tenere alta una certa "capacità di morte". Noi siamo una civiltà che ha scelto la pace (in linea di massima) e dunque abbiamo smesso di coltivare una collettiva abitudine a pensare la morte. Come comunità la combattiamo, ma non la pensiamo. Invece, la meraviglia di una civiltà di pace sarebbe proprio riuscire a pensare la morte di nuovo, e accettarla, non con coraggio, con saggezza; non come un'offesa indicibile ma come un movimento del nostro respiro, una semplice inflessione del nostro andare, forse la cresta di un'onda che siamo e che non smetteremo mai di essere. Non è che un individuo da solo, possa arrivare spesso a certe leggerezza di sentire: ma una comunità sì, lo può fare. Delle comunità, in passato, sono state capaci di portare a morire milioni dei loro figli per un ideale, bello o aberrante che fosse: perché una comunità non dovrebbe essere capace di portare tutti i suoi figli a capire che il primo modo di morire è avere troppa paura di farlo?

10. Molti si chiedono cosa accadrà dopo. Una cosa possibile, mi tocca registrarlo, è che non ci sarà un dopo. Non nel senso che moriremo tutti, no, ovviamente no, l'ho già detto. Ma in questo senso: ci stiamo accorgendo che solo nelle situazioni di emergenza il sistema torna a funzionare bene. Il patto tra gente e le élites si rinsalda, una certa disciplina sociale viene ristabilita, ogni individuo si sente responsabilizzato, si forma una solidarietà diffusa, cala il livello di litigiosità, ecc., ecc. Insomma, per quanto possa sembrare assurdo, la macchina smette di perdere i pezzi quando supera i duecento chilometri orari. Quindi è possibile che si scelga, in effetti, di non scendere più sotto quella velocità: l'emergenza come scenario cronico di tutto il nostro futuro. In questo senso il caso Covid 19 ha tutta l'aria di essere la grande prova generale per il prossimo livello del gioco, la missione finale: salvare il pianeta. L'emergenza totale, cronica, lunghissima, in cui tutto tornerà a funzionare. Non so dire francamente se sia uno scenario augurabile, ma non posso negare che una sua razionalità ce l'ha. E anche abbastanza coerente con l'intelligenza del 
Game, che resta un'intelligenza vagamente tossica, che ha bisogno di stimoli ripetuti e intensi, che dà il meglio di sé in un clima di sfida, e che tutto sommato è stato inventata da dei problem solver, non da dei poeti.

11. Ultima. Non me ne intendo, ma ci vuol poco a capire che tutto quello che sta succedendo ci costerà un mucchio di soldi. Molto peggio della crisi economica del 2009, a fiuto. Vorrei dire una cosa: sarà un'opportunità enorme, storica. Se c'è un momento in cui sarà possibile redistribuire la ricchezza e riportare le diseguaglianze sociali a un livello sopportabile e degno, quel momento sta arrivando. Ai livelli di diseguaglianza sociale su cui siamo attualmente attestati, nessuna comunità è una comunità: fa finta di esserlo, ma non lo è. E' un problema che mina alla base la salute del nostro sistema, che sbugiarda qualsiasi nostra ipotetica felicità e che si divora qualsiasi nostra credibilità, come un cancro. La difficoltà è che certe cose non si riformano, non si ottengono con un graduale, farmaceutico miglioramento, non si migliorano un tantino al giorno, a piccole dosi. Certe cose cambiano con un movimento di torsione violento, che fa male, e che non pensavi di poter fare. Certe cose cambiano per uno choc gestito bene, per una qualche crisi convertita in rinascita, per un terremoto vissuto senza tremare. Lo choc è arrivato, la crisi la stiamo soffrendo, il terremoto non è ancora passato. I pezzi ci sono tutti, sulla scacchiera, fanno tutti male, ma ci sono: c'è una partita che ci aspetta da un sacco di tempo. Che sciocchezza imperdonabile sarebbe avere paura di giocarla.


E, per finire, se non l'avete vista, cercatevi la puntata di Indovina chi viene a cena? di domenica scorsa su Rai3: finalmente un pò di verità sulle zoonosi, i virus che fanno i salti di specie e che ci perseguiteranno sino a quando continueremo a sconvolgere la natura e ad estinguere la fauna selvatica...(cioè, da sempre, e -quindi- per sempre).

Ed una bella poesia della Dickinson :

Ci abituiamo al Buio -
Quando la Luce è messa via -
Come quando la Vicina regge il Lume
Per testimoniare il suo Arrivederci -

Un Momento - facciamo un passo incerti
Per la novità della notte -
Poi - adattiamo la Vista al Buio -
E affrontiamo la Via - eretti -

E così è per più grandi - Oscurità -
Quelle Notti della Mente -
In cui nessuna Luna svela un segno -
O Stella - appare - dentro -

I più Coraggiosi - brancolano un po' -
E talvolta picchiano contro un Albero
In piena Fronte -
Ma fa che imparino a vedere -

Che sia l'Oscurità a cambiare -
O qualcosa nella vista
Che si adatta alla Mezzanotte -
E la Vita s'incammina quasi diritta.



​e due canzoni visionarie del grande Gaber:


https://www.youtube.com/watch?v=BJKR_ej8BD0


https://www.youtube.com/watch?v=50SnH47mi08






domenica 29 marzo 2020

il virus mi ha ridotto così



è primavera, svegliatevi bambini...!

Restiamo bambini per tutta la vita, nonostante il mito dell'adulto che, crescendo ma solo in apparenza, coltiviamo e retoricamente propagandiamo su noi stessi.
Restiamo ancorati alle esperienze primarie di svezzamento, al desiderio di restare attaccati ad una mammella buona, che ci allatta e ci protegge dal mondo e dalle sue minacce.
Restiamo paurosi e disperati se la madre ci abbandona, e piangiamo implorando che torni a salvarci.
Per continuare a respirare, per sopravvivere.
In fondo, la maggioranza degli umani non si divezza mai.
Guardate a quel che sta accadendo oggi.
Ci riattacchiamo alle pompe e ai tubi degli ospedali, alle cure dei medici e degli assistenti, alle banche che iniettano denaro nelle vene della società come latte condensato Nestlè, ai supermercati che ci accolgono amorevoli tra i loro scaffali sempre pieni di cibo e generi di conforto, e che ci permettono di fare una passeggiatina ogni tanto, senza timore di essere denunciati dalle guardie o dai vicini, Ma dietro la parvenza empatica, è la ferocia a trionfare.
Ci riconsegniamo totalmente allo Stato, madre e padre insieme, e ci affidiamo alle sue leggi, ai funzionari dell'impero, ai suoi scherani che offrono bastoni e carote.
Quel che importa, qualunque violenza ci facciano in cambio, è che ci facciano vivere, che proseguano ad allattarci, a nutrirci, a farci respirare. Che ci facciano, che ci lascino -almeno- sopravvivere.
Il resto (libertà, democrazia, valori, significati, felicità...) non conta più.
Lo stato c'è, ci ripetono ossessivamente alla tv.  No: c'è solo lo Stato, ecco come stiamo.

Non vogliamo morire, non vogliamo vedere la morte, come individui.
Ma siamo necrofili.in quanto cultura.
Siamo società del dare la morte, della mortificazione umiliante, dello sfruttamento schiavistico nel lavoro, dello scarto e dell'isolamento quale regola di funzionamento normale di vita.
Viviamo già, anche noi', da 'cinesi'.
Lo dimostriamo anche ora, massacrando i vecchi nelle case di (eterno) riposo o nei luoghi concentrazionari non sanificati, ospedali che uccidono pazienti ed operatori sanitari, mandati al macello e buttati al fronte come i fanti nelle trincee della Grande guerra.
O luoghi di lavoro ancora aperti, i ricattati di sempre che devono andare e guadagnare, o i fanatici del lavoro ad oltranza come senso della vita, cioè della morte.
Al di là della retorica: delle persone, della nostra stessa vita, non ce ne frega niente.
L'abbiamo del tutto confusa con altro, che vale di più (si chiama denaro).

Non siamo isolati da ora, lo siamo sempre e da un bel pò, proprio per come viviamo normalmente, proprio attraverso quella che chiamiamo socializzazione (lavorare, produrre, consumare, chattare...).
E, anche ora, è un isolamento senza solitudine: siamo invasi da notizie, richiami, messaggi, inviti, divieti, certificazioni, minacce, seduzioni, terrori.
Assad ha usato il terrorismo come pretesto per bombardare i suoi cittadini nelle case e per le strade.
Noi stiamo usando il coronavirus.
Ora ci fanno stare chiusi in casa. Quando sarà il momento ci imporranno il coprifuoco e la guerra.
Oggi stiamo facendo ancora un salto: di un'ora (legale), dentro il baratro.
Nella più totale acquiescenza e passività, collaborando anzi (come gli ebrei che, senza ribellarsi, si lasciavano diligentemente ficcare nei vagoni, con la speranza -che è sempre potente traditrice- di scamparsela, se obbedienti e remissivi).
Modernità e/è Olocausto.

Ho provato, nei giorni scorsi, a criticare in lista universitaria, la scelta delle lezioni a distanza e la deriva tecno-informatica in corso.
D'altra parte, si sa, molti colleghi fanno già lezioni 'a distanza', anche se stanno in aula e davanti hanno dei veri studenti.
Bene, non c'è stato un intervento a mio favore. Anzi, per un mio intervento critico, mi sono dovuto digerire dieci panegirici che esaltavano il lavoro svolto e le scelte fatte, dandomi dell'ingrato e del disfattista.
So che girano sotto banco molte perplessità, ma nessuno ne parla in pubblico. Si ha paura.
'Taci, il nemico ti ascolta'.  Qualunque dubbio espresso ti rende un disertore.
Da qui alla sudditanza più completa il passo è (e sarà) breve. Anzi, è già qui.

Ci fanno entrare in guerra per estirpare il male, per sradicarlo, una volta per tutte, come sempre.
Ci chiedono di stare uniti, di lottare per vincere questa battaglia insieme.
Ma non ci dicono la verità.
Perchè i virus non muoiono, vivono con noi, e di noi, e non possono morire.
Noi sì, non loro.
La verità è che dovremo abituarci a convivere col virus.
Come ci siamo abituati a convivere con la guerra permanente, con il terrorismo, con il cambiamento climatico, con la precarietà globalizzata, con la tecnocrazia e la digitalizzazione forzata.
Possiamo e dobbiamo solo adattarci, questo è il segnale persistente e senza alternative.
Ma mentre gli altri processi sono (stati) graduali e discontinui, il virus ( che, in sè, è molto meno pericoloso delle altre minacce) genera invece il panico perchè accade tutto insieme e con continuità ed espansione crescente.
CI stiamo avviando al peggio di una catastrofe: una gestione catastrofica della catastrofe.
Dentro questo panico infodemico-sanitario, quel che si muove è altro e lì dovremmo guardare.
Ma siamo troppo presi dall'angoscia e dalla tristezza per badare al futuro.


Molti si chiedono cosa accadrà dopo. Una cosa possibile, mi tocca
registrarlo, è che non ci sarà un dopo. Non nel senso che moriremo
tutti, no, ovviamente no, l'ho già detto. Ma in questo
senso: ci stiamo accorgendo che solo nelle situazioni di emergenza il
sistema torna a funzionare bene. Il patto tra gente e le élites si
rinsalda, una certa disciplina sociale viene ristabilita, ogni
individuo si sente responsabilizzato, si forma una solidarietà
diffusa, cala il livello di litigiosità, ecc., ecc. Insomma, per
quanto possa sembrare assurdo, la macchina smette di perdere i pezzi
quando supera i duecento chilometri orari. Quindi è possibile che si
scelga, in effetti, di non scendere più sotto quella velocità:
l'emergenza come scenario cronico di tutto il nostro futuro. In questo
senso il caso Covid 19 ha tutta l'aria di essere la grande prova
generale per il prossimo livello del gioco, la missione
finale: salvare il pianeta. L'emergenza totale, cronica, lunghissima,
in cui tutto tornerà a funzionare. Non so dire francamente se sia uno
scenario augurabile, ma non posso negare che una sua razionalità ce
l'ha. E anche abbastanza coerente con l'intelligenza del Game, che
resta un'intelligenza vagamente tossica, che ha bisogno di stimoli
ripetuti e intensi, che dà il meglio di sé in un clima di sfida, e che
tutto sommato è stato inventata da dei problem solver, non da dei
poeti.
(A. Baricco)
























lunedì 23 marzo 2020

casca il mondo

cari e care,
visto che abbiamo tempo, vi consiglio di rileggere Casca il mondo!, in particolare i capitoli H, I, S/T, U, V .
Soprattutto l'S/T, la Sicurezza che ci terrorizza, che ho scritto insieme ad un immunologo vicentino, può risultare molto esplicativo ed attuale.
Io, intanto, mi leggo il Decameron (almeno lì, nella peste, si sollazzavano).
Anche 'Il paese delle ultime cose' di Auster ed 'Anna' di Ammaniti possono essere delle letture centrate di questi tempi.
Prima che la normalità ci riacchiappi, abitiamo per qualche giorno la bellezza del silenzio e del vuoto.

La cupio dissolvi intanto trova sempre nuovi adepti.
Bene bene bene.


L'immagine può contenere: notte

sabato 21 marzo 2020

influencer diversamente influenzati

altri contributi divergenti
(non necessariamente condivisibili su tutto, ma utili a riflettere oltre la psicosi da panico infodemico in corso)

https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-chiarimenti

https://www.youtube.com/watch?feature=youtu.be&fbclid=IwAR3vA1ucX7BTIwQZqbCzE8eaq_VzMtobLFPdtcpcIlQInodM8oBr9n8ijYI&v=DavWFA0ymgQ&app=desktop

TRA (capo e) COLLO

NON MI VIENE

Non mi viene di esaltarmi patriotticamente in questa 'battaglia contro il coronavirus'.
La cultura della guerra e dell'esaltazione eroica non hanno mai fatto per me.
Mi repelle che si inizino a chiamare 'caduti' quelli che muoiono agonizzando sotto i tubi.
Non mi piace che si militarizzino ulteriormente le nostre vite.
Non mi piace che i militari assurgano a paladini della bontà e della virtù sociale.
Anche perchè nel giro di poco tempo assumeranno la loro faccia, quella vera.
E soprattutto perchè sarebbe bene ricordare che la Sanità è al tracollo perchè le spese militari tolgono ai bilanci pubblici e sociali risorse enorme ogni anno.
E la soluzione a questo non è quella dei soliti salmoni, le donazioni.

Non mi viene di esibirmi al balcone, di esibirmi sui social, di cantare e inneggiare, di far casino, di applaudire.
Mi viene da far silenzio e da apprezzarlo.
Mi va di passeggiare la notte, da solo, in quartiere, mentre tutto tace e non c'è anima viva in giro.
Non mi va di essere ottimista: non andrà tutto bene, soprattutto quando 'si tornerà alla normalità'.
Oltre ai morti, ci saranno danni evidenti.
E tornerà il disastro della ripresa: i cinesi si stanno già riprendendo e ripartiranno a breve.
E' questo, non il virus, a renderci e renderli pericolosi (per la salute nostra e del pianeta).
Da tempo propongo il fermo biologico dell'umanità: questi mesi saranno sempre pochi per riprenderci da noi stessi.

Non mi viene di lasciarmi trascinare dal panico tecno-infodemico, da disperare sulle umani sorti e progressive. Non mi lascio prendere dal vuoto o dal pessimismo del momento o sul futuro.
Non vado a comprare armi come molti statunitensi per essere preparato alla prossima guerra civile.
Giocare nella catastrofe e fare il morto è roba seria, ci vuole coerenza ed allenamento puntuale, quotidiano, non si improvvisa.
Non vanno confusi con momentanei ripensamenti o cambiamenti coatti delle abitudini di giornata.
Rappresentano un cambiamento di premesse sulla morte: il terrore di questi giorni nasce soprattutto dalla sua costante rimozione e negazione, come se potessimo vivere ogni giorno senza di lei.
Così viviamo di solito, ed ora lo paghiamo.

Non mi viene di appassionarmi alle lezioni a distanza, all'e-learning interattivo, alle piattaforme che connettono facce e voci.
Preferisco incontrare i miei studenti, faccia a faccia, e giocare e riflettere direttamente con loro.
Solo per questo la scuola e l'università hanno ancora un minimo di senso.
Il resto è solo tecnica ed automazione, un passatempo per far finta di far qualcosa, un gioco senza vita.
Ma il virus digitale, quello sì, invaderà da ora in poi ancor più le nostre povere vite impoverite.


NON MI TORNA

'Andiamo al macello, ma non possiamo dire no'.
Così dicono i medici in ospedale, chiamati a sforzi e sacrifici immani e inumani.
Ma è possibile che la retorica dei medici eroi (anche loro!) non possa andar di pari passo con meno passività ed acquiescenza, con meno ricattabilità, con un senso della propria dignità personale e professionale che esiga e pretenda risorse, sostegni, protezioni ?
Che renda i medici capaci di dire no ad uno Stato che impone l'autosacrificio come prova di lealtà?
Non si può aderire a richieste di cooperazione senza condivisione, per mera imposizione.
Eppure questo è quello che stiamo facendo, tutti, non solo i medici.
Stanno trasformando un'emergenza ospedaliera in emergenza sanitaria ed in emergenza sociale (per 10.000 morti in tutto il mondo , ma ci rendiamo conto ?).
Non è un complotto, ma chi non non approfitterebbe di un'occasione simile per tenere e rafforzare il proprio potere di controllo e di decisione?
No, troppe cose non tornano, mi dispiace.

Non mi torna che si denunci e punisca un tranquillo signore che passeggia trasgressivamente sul pontile, come se fosse un untore e lo si faccia senza prove che davvero possa contaminare o contagiare qualcuno se se ne sta per conto suo, a venti metri da tutto e da tutti.
E non si puniscano gli inquinatori, quelli che producono automobili e petrolio, pesticidi e plastica.
Chi ci costringe a vivere di lavoro, sotto stress, di corsa (il flagello che sale soprattutto in aree superindustriali, superinquinate e superglobalizzate, come ve lo spiegate altrimenti ?).
I primi tolgono mercato, crescita e denaro, i secondi ce li danno.
Questa è la differenza sostanziale, non la gravità della pestilenza.
Ecco perchè mettono in isolamento noi, e non loro.
Si chiama doppia morale, altro che giustizia o legge uguale per tutti.

E non mi torna che, davanti al tracollo presente e imminente, si trovino tra capo e collo, migliaia di miliardi prima introvabili.
Ci hanno costretto alla precarietà ed all'autosfruttamento, all'austerità e al terrore dello spread, ed ora fabbricano e si inventano denaro a profusione, come se piovesse.
Ora  'si deve immettere liquidità', come se non bastassero le alluvioni.
Prima non andava il reddito di cittadinanza, ora auspicano il reddito di sopravvivenza.
Ci danno soldi solo se ci ammaliamo, se siamo sani ci vogliono poveri, insomma ?
La finanza, le istituzioni, i governi mentivano prima, e mentono ora quando dicono che 'lo fanno per noi'. No. Lo fanno per loro, per stare al potere, per non crollare e per continuare a fare profitti.
E noi ci becchiamo le briciole, litigando tra poveri, come i capponi di Don Abbondio.

Lo dichiaro: sono disponibile a rischiare di prendere la polmonite e ad incontrare persone disposte a rischiare di prenderla incontrandomi.
Considero questo rischio meno pericoloso che accettare di sottostare a ordini di autosequestro continuo e permanente come quello che stiamo vivendo e a cui stiamo andando incontro, sempre più duro e assurdo (perchè così sarà), per settimane o mesi.
Ma, anche se lo volessimo, rappresenteremmo una minaccia per la salute e la sicurezza di tutti, se le facessimo. E verremmo sanzionati ed esposti al pubblico ludibrio.
I regimi politici 'democratici' preferiscono invidiare i cinesi e i coreani perchè hanno potuto controllare i cittadini con le celle telefoniche o i ricoveri forzati, perchè hanno potuto agire autoritativamente.
Ma non era solo Salvini a volere i pieni poteri, solo due mesi fa ?
L'immunitas l'ha avuta ormai già vinta sulla communitas, ora più che mai.
Ma se io preferissi la libertà alla salute e alla sicurezza ?
Se preferissi la socialità alla distanza ?
Non posso farlo, anzi non posso neppure dirlo senza apparire folle ed antisociale.
No, non mi torna.

















martedì 17 marzo 2020

in caduta (non) libera

lunedì 31 dicembre 2018

Ancora un anno, altro passo verso il baratro

Mi rimetto a scrivere per una volta, dopo tanti mesi di silenzio.
'Silenzio, parla Agnes !', diceva la pubblicità di un tempo.
Ho lasciato, e lascerò, parlare la realtà, almeno per un pò almeno.
Mi pare necessario e sufficiente.

Così scrivevo ormai più di un anno fa, in uno dei miei ultimi post, prima di fare il morto sul serio ( e per gioco).
In mezzo all'emergenza coronavirus riemergo dal silenzio, solo per una volta, mentre la realtà parla.

Eccoci, un passo dopo l'altro, a vedere finalmente la catastrofe anche nelle nostre vite occidentali accidentali. Non possiamo più rimuoverla, anche se continuiamo a cercare di far finta di niente, a tentare di declamare gli slogan della vuota arroganza ed insipienza assoluta (tipo: Milano non si ferma, non abbiamo paura, andrà tutto bene ed altre cazzate simili).
Ed a cantare 'il cielo è sempre più blu' dai balconi, ad accendere cellulari come lumini cimiteriali nella notte delle nostre coscienze intontite dalla paura, ad intonare inni patriottici ridicoli ed osceni ancor più di sempre.
Accadono cose che potrebbero rappresentare una grande finestra di opportunità per provare a cambiare rotta e vite: una vita che rallenta, attività e profitti che decrescono, persone che hanno tempo per pensare, leggere, incontrarsi e guardarsi in casa, fare pulizia dentro e fuori di noi, lasciare le auto in garage, oziare e giocare, disinquinare aria e menti dallo smog e dal rumore frenetico del nulla di sempre.
Ma non illudiamoci: non ne approfitteremo e non basterà a confortarci in futuro.
La nostra quarantena è appena iniziata, e durerà -come nelle migliori tradizioni- quarant'anni buoni nel deserto desolato delle nostre anime e dei nostri corpi abbandonati ai deliri del dominio.

Non sono preoccupato per il virus, ovviamente.
Non sarà quello ad ucciderci, anche se finalmente tocca anche a noi soffrire ed essere colpiti almeno un pò.
Durerà ancora a lungo, morirà forse qualche centinaia di migliaia di esseri umani nel mondo, ma (salvi il dispiacere ed il lutto per le vite di chiunque), non è e non sarà quella la catastrofe che ci divorerà. La guerra in Siria, faccio solo un esempio, sta facendo ormai mezzo milione di morti da anni e non facciamo una piega.
Quindi, scusate il cinismo, non moriremo di questo.

Perchè, ludeticamente parlando, siamo già morti da tempo, certo.
Ma soprattutto perchè vanno a rafforzarsi irreversibilmente tutti quei processi già in corso da tempo e che ora trovano il loro alibi perfetto.
La concatenazione tra uno stato di emergenza politica senza fine che si trasforma in uno stato di guerra permanente che va a potenziare le sbarre della gabbia digitalizzata ed infodemica totale, entusiasticamente votata ad un orribile distanziamento tra persone e popoli, giustificato dalla cultura immunizzata e profilattica della cura sanitaria, che determina il completamento dell'omologazione globalizzata dei comportamenti da parte di tutti, malati e non, in tutto il mondo.
Un'oppressione totalitaria, su scala planetaria, come mai si era vista nella storia.
Il virus passerà, ma tutto questo no, siamo solo alle prove generali.
Ci adatteremo anche a questo, se proprio non lo chiederemo ancora, se non lo desidereremo, pur di sopravvivere e stare insieme ad altri a cui accodarci nella lunga fila verso le camere a gas virtuali di questo astutamente collusivo, perfidamente subdolo, stupidamente ignaro, neo-nazismo dell'oggi e del domani.


PS: Piccoli consigli per la lettura:
la gualtieri...

e qualche intervento recente di un ragazzo che trovo sempre davvero in gamben...

https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-l-invenzione-di-un-epidemia
https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-contagio
https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-perch-on-ho-firmato-l-appello-sullo-ius-soli