Restiamo bambini per tutta la vita, nonostante il mito dell'adulto che, crescendo ma solo in apparenza, coltiviamo e retoricamente propagandiamo su noi stessi.
Restiamo ancorati alle esperienze primarie di svezzamento, al desiderio di restare attaccati ad una mammella buona, che ci allatta e ci protegge dal mondo e dalle sue minacce.
Restiamo paurosi e disperati se la madre ci abbandona, e piangiamo implorando che torni a salvarci.
Per continuare a respirare, per sopravvivere.
In fondo, la maggioranza degli umani non si divezza mai.
Guardate a quel che sta accadendo oggi.
Ci riattacchiamo alle pompe e ai tubi degli ospedali, alle cure dei medici e degli assistenti, alle banche che iniettano denaro nelle vene della società come latte condensato Nestlè, ai supermercati che ci accolgono amorevoli tra i loro scaffali sempre pieni di cibo e generi di conforto, e che ci permettono di fare una passeggiatina ogni tanto, senza timore di essere denunciati dalle guardie o dai vicini, Ma dietro la parvenza empatica, è la ferocia a trionfare.
Ci riconsegniamo totalmente allo Stato, madre e padre insieme, e ci affidiamo alle sue leggi, ai funzionari dell'impero, ai suoi scherani che offrono bastoni e carote.
Quel che importa, qualunque violenza ci facciano in cambio, è che ci facciano vivere, che proseguano ad allattarci, a nutrirci, a farci respirare. Che ci facciano, che ci lascino -almeno- sopravvivere.
Il resto (libertà, democrazia, valori, significati, felicità...) non conta più.
Lo stato c'è, ci ripetono ossessivamente alla tv. No: c'è solo lo Stato, ecco come stiamo.
Non vogliamo morire, non vogliamo vedere la morte, come individui.
Ma siamo necrofili.in quanto cultura.
Siamo società del dare la morte, della mortificazione umiliante, dello sfruttamento schiavistico nel lavoro, dello scarto e dell'isolamento quale regola di funzionamento normale di vita.
Viviamo già, anche noi', da 'cinesi'.
Lo dimostriamo anche ora, massacrando i vecchi nelle case di (eterno) riposo o nei luoghi concentrazionari non sanificati, ospedali che uccidono pazienti ed operatori sanitari, mandati al macello e buttati al fronte come i fanti nelle trincee della Grande guerra.
O luoghi di lavoro ancora aperti, i ricattati di sempre che devono andare e guadagnare, o i fanatici del lavoro ad oltranza come senso della vita, cioè della morte.
Al di là della retorica: delle persone, della nostra stessa vita, non ce ne frega niente.
L'abbiamo del tutto confusa con altro, che vale di più (si chiama denaro).
Non siamo isolati da ora, lo siamo sempre e da un bel pò, proprio per come viviamo normalmente, proprio attraverso quella che chiamiamo socializzazione (lavorare, produrre, consumare, chattare...).
E, anche ora, è un isolamento senza solitudine: siamo invasi da notizie, richiami, messaggi, inviti, divieti, certificazioni, minacce, seduzioni, terrori.
Assad ha usato il terrorismo come pretesto per bombardare i suoi cittadini nelle case e per le strade.
Noi stiamo usando il coronavirus.
Ora ci fanno stare chiusi in casa. Quando sarà il momento ci imporranno il coprifuoco e la guerra.
Oggi stiamo facendo ancora un salto: di un'ora (legale), dentro il baratro.
Nella più totale acquiescenza e passività, collaborando anzi (come gli ebrei che, senza ribellarsi, si lasciavano diligentemente ficcare nei vagoni, con la speranza -che è sempre potente traditrice- di scamparsela, se obbedienti e remissivi).
Modernità e/è Olocausto.
Ho provato, nei giorni scorsi, a criticare in lista universitaria, la scelta delle lezioni a distanza e la deriva tecno-informatica in corso.
D'altra parte, si sa, molti colleghi fanno già lezioni 'a distanza', anche se stanno in aula e davanti hanno dei veri studenti.
Bene, non c'è stato un intervento a mio favore. Anzi, per un mio intervento critico, mi sono dovuto digerire dieci panegirici che esaltavano il lavoro svolto e le scelte fatte, dandomi dell'ingrato e del disfattista.
So che girano sotto banco molte perplessità, ma nessuno ne parla in pubblico. Si ha paura.
'Taci, il nemico ti ascolta'. Qualunque dubbio espresso ti rende un disertore.
Da qui alla sudditanza più completa il passo è (e sarà) breve. Anzi, è già qui.
Ci fanno entrare in guerra per estirpare il male, per sradicarlo, una volta per tutte, come sempre.
Ci chiedono di stare uniti, di lottare per vincere questa battaglia insieme.
Ma non ci dicono la verità.
Perchè i virus non muoiono, vivono con noi, e di noi, e non possono morire.
Noi sì, non loro.
La verità è che dovremo abituarci a convivere col virus.
Come ci siamo abituati a convivere con la guerra permanente, con il terrorismo, con il cambiamento climatico, con la precarietà globalizzata, con la tecnocrazia e la digitalizzazione forzata.
Possiamo e dobbiamo solo adattarci, questo è il segnale persistente e senza alternative.
Ma mentre gli altri processi sono (stati) graduali e discontinui, il virus ( che, in sè, è molto meno pericoloso delle altre minacce) genera invece il panico perchè accade tutto insieme e con continuità ed espansione crescente.
CI stiamo avviando al peggio di una catastrofe: una gestione catastrofica della catastrofe.
Dentro questo panico infodemico-sanitario, quel che si muove è altro e lì dovremmo guardare.
Ma siamo troppo presi dall'angoscia e dalla tristezza per badare al futuro.
Molti si chiedono cosa accadrà dopo. Una cosa possibile, mi tocca
registrarlo, è che non ci sarà un dopo. Non nel senso che moriremo
tutti, no, ovviamente no, l'ho già detto. Ma in questo
senso: ci stiamo accorgendo che solo nelle situazioni di emergenza il
sistema torna a funzionare bene. Il patto tra gente e le élites si
rinsalda, una certa disciplina sociale viene ristabilita, ogni
individuo si sente responsabilizzato, si forma una solidarietà
diffusa, cala il livello di litigiosità, ecc., ecc. Insomma, per
quanto possa sembrare assurdo, la macchina smette di perdere i pezzi
quando supera i duecento chilometri orari. Quindi è possibile che si
scelga, in effetti, di non scendere più sotto quella velocità:
l'emergenza come scenario cronico di tutto il nostro futuro. In questo
senso il caso Covid 19 ha tutta l'aria di essere la grande prova
generale per il prossimo livello del gioco, la missione
finale: salvare il pianeta. L'emergenza totale, cronica, lunghissima,
in cui tutto tornerà a funzionare. Non so dire francamente se sia uno
scenario augurabile, ma non posso negare che una sua razionalità ce
l'ha. E anche abbastanza coerente con l'intelligenza del Game, che
resta un'intelligenza vagamente tossica, che ha bisogno di stimoli
ripetuti e intensi, che dà il meglio di sé in un clima di sfida, e che
tutto sommato è stato inventata da dei problem solver, non da dei
poeti.(A. Baricco)
Restiamo ancorati alle esperienze primarie di svezzamento, al desiderio di restare attaccati ad una mammella buona, che ci allatta e ci protegge dal mondo e dalle sue minacce.
Restiamo paurosi e disperati se la madre ci abbandona, e piangiamo implorando che torni a salvarci.
Per continuare a respirare, per sopravvivere.
In fondo, la maggioranza degli umani non si divezza mai.
Guardate a quel che sta accadendo oggi.
Ci riattacchiamo alle pompe e ai tubi degli ospedali, alle cure dei medici e degli assistenti, alle banche che iniettano denaro nelle vene della società come latte condensato Nestlè, ai supermercati che ci accolgono amorevoli tra i loro scaffali sempre pieni di cibo e generi di conforto, e che ci permettono di fare una passeggiatina ogni tanto, senza timore di essere denunciati dalle guardie o dai vicini, Ma dietro la parvenza empatica, è la ferocia a trionfare.
Ci riconsegniamo totalmente allo Stato, madre e padre insieme, e ci affidiamo alle sue leggi, ai funzionari dell'impero, ai suoi scherani che offrono bastoni e carote.
Quel che importa, qualunque violenza ci facciano in cambio, è che ci facciano vivere, che proseguano ad allattarci, a nutrirci, a farci respirare. Che ci facciano, che ci lascino -almeno- sopravvivere.
Il resto (libertà, democrazia, valori, significati, felicità...) non conta più.
Lo stato c'è, ci ripetono ossessivamente alla tv. No: c'è solo lo Stato, ecco come stiamo.
Non vogliamo morire, non vogliamo vedere la morte, come individui.
Ma siamo necrofili.in quanto cultura.
Siamo società del dare la morte, della mortificazione umiliante, dello sfruttamento schiavistico nel lavoro, dello scarto e dell'isolamento quale regola di funzionamento normale di vita.
Viviamo già, anche noi', da 'cinesi'.
Lo dimostriamo anche ora, massacrando i vecchi nelle case di (eterno) riposo o nei luoghi concentrazionari non sanificati, ospedali che uccidono pazienti ed operatori sanitari, mandati al macello e buttati al fronte come i fanti nelle trincee della Grande guerra.
O luoghi di lavoro ancora aperti, i ricattati di sempre che devono andare e guadagnare, o i fanatici del lavoro ad oltranza come senso della vita, cioè della morte.
Al di là della retorica: delle persone, della nostra stessa vita, non ce ne frega niente.
L'abbiamo del tutto confusa con altro, che vale di più (si chiama denaro).
Non siamo isolati da ora, lo siamo sempre e da un bel pò, proprio per come viviamo normalmente, proprio attraverso quella che chiamiamo socializzazione (lavorare, produrre, consumare, chattare...).
E, anche ora, è un isolamento senza solitudine: siamo invasi da notizie, richiami, messaggi, inviti, divieti, certificazioni, minacce, seduzioni, terrori.
Assad ha usato il terrorismo come pretesto per bombardare i suoi cittadini nelle case e per le strade.
Noi stiamo usando il coronavirus.
Ora ci fanno stare chiusi in casa. Quando sarà il momento ci imporranno il coprifuoco e la guerra.
Oggi stiamo facendo ancora un salto: di un'ora (legale), dentro il baratro.
Nella più totale acquiescenza e passività, collaborando anzi (come gli ebrei che, senza ribellarsi, si lasciavano diligentemente ficcare nei vagoni, con la speranza -che è sempre potente traditrice- di scamparsela, se obbedienti e remissivi).
Modernità e/è Olocausto.
Ho provato, nei giorni scorsi, a criticare in lista universitaria, la scelta delle lezioni a distanza e la deriva tecno-informatica in corso.
D'altra parte, si sa, molti colleghi fanno già lezioni 'a distanza', anche se stanno in aula e davanti hanno dei veri studenti.
Bene, non c'è stato un intervento a mio favore. Anzi, per un mio intervento critico, mi sono dovuto digerire dieci panegirici che esaltavano il lavoro svolto e le scelte fatte, dandomi dell'ingrato e del disfattista.
So che girano sotto banco molte perplessità, ma nessuno ne parla in pubblico. Si ha paura.
'Taci, il nemico ti ascolta'. Qualunque dubbio espresso ti rende un disertore.
Da qui alla sudditanza più completa il passo è (e sarà) breve. Anzi, è già qui.
Ci fanno entrare in guerra per estirpare il male, per sradicarlo, una volta per tutte, come sempre.
Ci chiedono di stare uniti, di lottare per vincere questa battaglia insieme.
Ma non ci dicono la verità.
Perchè i virus non muoiono, vivono con noi, e di noi, e non possono morire.
Noi sì, non loro.
La verità è che dovremo abituarci a convivere col virus.
Come ci siamo abituati a convivere con la guerra permanente, con il terrorismo, con il cambiamento climatico, con la precarietà globalizzata, con la tecnocrazia e la digitalizzazione forzata.
Possiamo e dobbiamo solo adattarci, questo è il segnale persistente e senza alternative.
Ma mentre gli altri processi sono (stati) graduali e discontinui, il virus ( che, in sè, è molto meno pericoloso delle altre minacce) genera invece il panico perchè accade tutto insieme e con continuità ed espansione crescente.
CI stiamo avviando al peggio di una catastrofe: una gestione catastrofica della catastrofe.
Dentro questo panico infodemico-sanitario, quel che si muove è altro e lì dovremmo guardare.
Ma siamo troppo presi dall'angoscia e dalla tristezza per badare al futuro.
Molti si chiedono cosa accadrà dopo. Una cosa possibile, mi tocca
registrarlo, è che non ci sarà un dopo. Non nel senso che moriremo
tutti, no, ovviamente no, l'ho già detto. Ma in questo
senso: ci stiamo accorgendo che solo nelle situazioni di emergenza il
sistema torna a funzionare bene. Il patto tra gente e le élites si
rinsalda, una certa disciplina sociale viene ristabilita, ogni
individuo si sente responsabilizzato, si forma una solidarietà
diffusa, cala il livello di litigiosità, ecc., ecc. Insomma, per
quanto possa sembrare assurdo, la macchina smette di perdere i pezzi
quando supera i duecento chilometri orari. Quindi è possibile che si
scelga, in effetti, di non scendere più sotto quella velocità:
l'emergenza come scenario cronico di tutto il nostro futuro. In questo
senso il caso Covid 19 ha tutta l'aria di essere la grande prova
generale per il prossimo livello del gioco, la missione
finale: salvare il pianeta. L'emergenza totale, cronica, lunghissima,
in cui tutto tornerà a funzionare. Non so dire francamente se sia uno
scenario augurabile, ma non posso negare che una sua razionalità ce
l'ha. E anche abbastanza coerente con l'intelligenza del Game, che
resta un'intelligenza vagamente tossica, che ha bisogno di stimoli
ripetuti e intensi, che dà il meglio di sé in un clima di sfida, e che
tutto sommato è stato inventata da dei problem solver, non da dei
poeti.(A. Baricco)
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