mercoledì 30 ottobre 2013

raccontar balle

E vidi
che qualcosa si muoveva tra i morti
Era una bimba 
la portai fuori sulla strada
e chiesi
Chi sei
Da quando sei qui
Non lo so
disse.
Come mai sei qui in mezzo ai morti
chiesi
E quella disse
Tra i vivi non posso più stare
(Peter Weiss)


Che tutti in politica raccontino balle a tutti appare evidente.
Così come sappiamo che tutti spiano tutti, e che siamo controllati anche in bagno.

Quindi Grillo ha ragione quando dice che Letta racconta balle e che è questo, e non lui, a creare instabilità.
Non ci sarà l'uscita dal tunnel, non ci saranno riforme strutturali, non si uscirà dalla crisi.
Sono solo parole..., come diceva la canzone.

Grillo ha ragione poi quando, come ieri, dimostra che tutti i partiti sono complici nel rallentare la fuoriuscita di Berlu dal Senato. Il M5S ha chiesto che si votasse il 5 novembre, tutti hanno votato contro e rinviato la cosa a fine novembre, a Natale o alle calende greche.

Grillo ha ragione quando dice che Napo è un politico anziano e furbo, e quando chiede l'impeachment per lui, visto che non può più fare il garante di un bel nulla ed è anzi il responsabile numero 1 dell'inciucio in cui ci troviamo.

Grillo ha ragione quando dice che, se alle prossime elezioni gli italiani votano di nuovo i soliti noti, lui si ritira perchè questo paese non fa per lui.
Il sogno grillino (che se ne vadano tutti a casa) si infrange contro la dura realtà.
Siccome accadrà il contrario di quel che lui sognava (mi pare che i sondaggi confermino che, nonostante tutto, la maggioranza del gregge italiota continuerebbe a votare proprio quelli lì), spero che si arrenda davanti all'evidenza e lo faccia davvero.
Che si ritiri, che non partecipi alle elezioni, che si inventi qualcos'altro, se ce la fa.
Altrimenti vorrà dire che anche lui è solo bravo a raccontar balle.

martedì 29 ottobre 2013

ritrazioni

Sebbene la loro vita sessuale avesse rallentato notevolmente, Harmon lo aveva accettato, e per un pò aveva avuto la sensazione che Bonnie lo stesse 'soddisfacendo'. Ma una notte a letto si era voltato verso di lei e lei si era ritratta. E dopo un lungo istante gli aveva detto a bassa voce: ' Harmon, credo proprio di averne abbastanza di questa roba'.
Giacevamo lì nel buio; e quel che gli serrava il corpo dalle viscere in su era l'orribile, sorda consapevolezza che Bonnie faceva sul serio. Eppure, nessuno è in grado di accettare una sconfitta così, su due piedi.
'Ne hai abbastanza?'. Il dolore che avvertiva era tale che gli sembrava che lei gli avesse ammucchiato venti mattoni sullo stomaco.
'Mi dispiace. Ma ne ho abbastanza. E' inutile che continui a fingere. Non è corretto nei riguardi di nessuno dei due'.
Lui le chiese se fosse perchè era ingrassato.  Lei rispose che in realtà non era ingrassato, e di non prenderla così, per favore. Era solo che ne aveva abbastanza.
Ma forse sono stato egoista, disse Harmon. Che cosa posso fare per soddisfarti ? (Non avevano mai parlato davvero di certe cose, e nel buio lui arrossì).
Possibile che non riuscisse a capirlo ? gli chiese Bonnie. Non era lui, era lei. Ne aveva proprio abbastanza.

Se non riesci a capire qualcosa, le aveva detto una volta Jace, non guardare a quel che pensi, guarda a quel che fai...

Gli occhi azzurri di lui la stavano fissando; Olive vide la vulnerabilità, l'invito, la paura, mentre sedeva in silenzio e posava la mano aperta sul suo torace, e avvertiva il battito del cuore che un giorno si sarebbe fermato, come tutti. Ma ora non c'era nessun altro giorno, c'era solo il silenzio di quella stanza inondata dal sole. Erano lì, e il corpo di Olive, vecchio, grosso, floscio, evvaertì un chiaro desiderio di quello di lui. Il fatto di non aver amato Henry a quel modo per molti anni la rattristò al punto da spingerla a chiudere gli occhi.
Quello che i giovani non sanno, pensò Olive mentre si sdraiava accanto a quell'uomo, con la mano di lui sulla spalla, sul braccio; oh, quello che i giovani non sanno. Non sanno che i corpi anziani, rugosi e bitorzoluti sono altrettanto bisognosi dei loro corpi giovani e sodi, che l'amore non va respinto con noncuranza, come un pasticcino posato assieme ad altri su un piatto passato in giro per l'ennesima volta. No, se l'amore era disponibile, lo si sceglieva, o non lo si sceglieva.  E se il piatto di Olive era stato pieno della bontà di Henry e lei lo aveva trovato gravoso, limitandosi a mangiucchiare qualche briciola alla volta, era perchè non sapeva quello che tutti dovrebbero sapere: che sprechiamo inconsciamente un giorno dopo l'altro.
E perciò, se l'uomo accanto a lei non era il genere di uomo che lei avrebbe scelto prima di allora, che importanza aveva ? Molto probabilmente neanche lui avrebbe scelto lei. Però erano lì, e Olive si immaginò due fette di formaggio svizzero premute insieme, i buchi che ciascuno dei due aveva da dare a quell'unione, i pezzi che la vita ti levava di dosso.
Olive aveva gli occhi chiusi, e la sua anima stanca era attraversata da ondate di gratitudine, e rimpianto.  Immaginò la stanza piena di sole, le pareti accarezzate dai raggi, i cespugli là fuori. Il mondo la confondeva. Non voleva ancora lasciarlo.

(Elizabeth Strout, Olive Kitteridge, Fazi, 2009) 

lunedì 28 ottobre 2013

catastrofisti ? No, realisti

Eurozona: la marcia indietro dell’integrazione economica

I buoni propositi espressi un anno fa riguardo al processo d’integrazione economica, fiscale e politica dell’Eurozona non si stanno concretizzando. Al contrario, negli ultimi mesi la Germania ha fatto leva sui paesi nordici per annacquare le proposte di unione bancaria e fiscale approvate nel 2012.
I fautori dell’euro sostengono che l’eurozona dovrebbe ispirarsi al modello statunitense ed auspicano un approccio alla Alexander Hamilton, fu lui che nel 1790 fece accollare al tesoro tutti i debiti degli stati dell’unione americana, una mossa che trasformò un conglomerato di stati in uno Stato federale coeso a livello economico e politico. Il presidente dell’Unione Europea, il belga Herman Van Rompuy, vorrebbe passare alla storia come la versione europea di Hamilton ed infatti ha prodotto una serie di documenti dove si enfatizza la necessità di creare un bilancio dell’unione centralizzato, meglio definito unione fiscale. Questa istituzione, una sorta di tesoro dell’Eurozona, avrebbe il compito di compensare gli squilibri economici tra le nazioni, ad esempio potrebbe intervenire negli stati in cui c’è maggiore disoccupazione con politiche miranti a creare posti di lavoro. I fondi necessari per questo tipo di finanziamento sarebbero raccolti sul mercato dei capitali, proprio come fa il tesoro statunitense, emettendo obbligazioni, in altre parole usando gli eurobond.
Altro pilastro del processo d’integrazione dovrebbe essere l’unione bancaria, che offrirebbe alle banche dell’Eurozona una sorta di rete di supporto, un’assicurazione sui depositi a carattere federale, esattamente come avviene negli Stati Uniti.
Nonostante questi progetti siano stati approvati nel 2012 la loro attuazione è stata sabotata magistralmente dal ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble, dal Regno Unito, dalla Finlandia e dall’Olanda. Dopo le elezioni anche la Merkel ha cambiato tono riguardo alle misure necessarie per evitare che l’unione monetaria continui ad essere in crisi. Non si parla più di unione politica, un tema che non è caro all’elettorato tedesco poiché è convinto che dietro questa frase si celi la volontà dei paesi della periferia di usare i risparmi tedeschi per pagare i propri debiti. Ad ottobre la Merkel ha addirittura dichiarato più volte ai burocrati di Bruxelles ed ai rappresentati dell’Eurozona che la Germania non appoggia un aumento del potere della Commissione e del Parlamento europeo, al contrario, la nuova filosofia tedesca è per un ritorno alle responsabilità dei singoli paesi riguardo alle questioni economiche e fiscali. In altre parole si supporta un’integrazione più debole di quella sognata dagli euroburocrati e dai politici della periferia.
Dei vecchi propositi rimane solo l’imposizione di una ferrea disciplina economica per migliorare la competitività delle singole nazioni, che tradotto nel gergo della periferia vuol dire deflazione interna: impoverimento con conseguente caduta del costo del lavoro, ciò che sta succedendo in tutte economie deboli dell’eurozona. Un processo che si arresterà soltanto quando l’impoverimento sarà tale da rendere il nostro costo del lavoro competitivo con quello dei paesi emergenti dove attualmente si delocalizza: Laos, Vietnam e così via.
Sul fronte finanziario, invece, fin tanto che paesi come l’Italia e la Spagna sono in grado di pagare gli interessi sul debito indebitandosi principalmente sul mercato dei capitali nazionale, e fintanto che la Bce ne alimenta le banche con denaro stampato, la situazione rimane in equilibrio. Sembra assurdo ma è quello che sta accadendo, ecco perché il fatidico spread rimane basso.
Nel lungo periodo può succedere di tutto, dalla progressiva deindustrializzazione dell’economia dei paesi della periferia, come sta succedendo in Italia, fino alla cinesizzazione del mercato del lavoro, ed anche di questo fenomeno noi italiani ne sappiamo qualcosa. Non è neppure da escludere una nuova crisi finanziaria simile a quella del 2011, ma questa volta il default di una delle economie della periferia non trascinerebbe nel baratro il sistema bancario tedesco o nord europeo dal momento che chi detiene gran parte del debito sono investitori nazionali e saranno proprio loro insieme ai correntisti ed ai cittadini pagare il conto finale.

Questi ragionamenti, che molti definiscono catastrofisti, sono invece realisti. 
Dal 2008 il mantra è sempre lo stesso: deflazione interna e chi continua a non crederci o è troppo ricco per rendersene conto o troppo ingenuo per prenderne coscienza. In entrambi i casi a renderci ciechi è l’ignoranza.

domenica 27 ottobre 2013

spacificazioni

Non siamo nati mica ieri, Capataz.
non siamo nati mica ieri...
Non siamo mica prigionieri di questa bella modernità,
c'è un altro tipo di futuro, Capataz...
(F. De Gregori, 1987)


La sensazione che si ha (e l'auspicio che ho) è che, nonostante inciuci, rimozioni e collusioni, la pacificazione non regga.
Il conflitto riemerge, e si fa strada e voce, in tutte le sedi e circostanze.
Le soluzioni e le imposizioni della modernità governante scricchiolano rumorosamente.

Grillo e il Fatto iniziano a farsi insistenti contro Napo, che mostra finalmente segni di nervosismo.
Berlu è sempre più disperato, il PdL non c'è più, e non solo di fatto.
E' difficile credere che 'acampados senza casa' e attivisti antiTAV si fermino qui, così come quelli della 'terra dei fuochi' nella straviolentata Campania.
Lo spionaggio internazionale tra gli stati evidenzia che collaborazione e fiducia sono parole vuote e pure ipocrisie. E ci dicono quanto gli USA siano ormai isolati e nell'angolo, al di là della loro potenza militare.
Nel piccolo, il mio vicinato litiga sempre di più, e le urla salgono dalle finestre (tra figli e madri, tra mariti e mogli...) con sempre più frequenza.
Magari, a un certo punto, si ammazzeranno, anche.
E finiranno su Studio Aperto.

In tutto questo casino, soltanto Renzi (il quarto fratello Kennedy, Epimeteo redivivo e in grande ritardo) continua a fingere di essere nell'America degli anni 60 e a parlare di sogni, speranze, progresso.
'Diamo un nome al futuro', è lo slogan della Leopolda.
Te lo do io il nome, caro Renzi.
Si chiama catastrofe.
E decrescita, verso altri mondi possibili (forse) o, se non ce la faremo, tutti -più semplicemente e tristemente- all'altro mondo.






sabato 26 ottobre 2013

ancora sul coreano stanco

Prendersi cura della stanchezza
di Marco Deriu
Università di Parma, Associazione per la decrescita
Sommario
Nel vivere contemporaneo si fa strada sempre più una forma di auto-sfruttamento. Gli
spazi per la riproduzione psicologica e sociale vengono reimpiegati per lavori o
mansioni o nuovi compiti o performance. Il tempo teoricamente non produttivo è
impiegato e canalizzato in un sistema di produzione e di mercato. Il nostro modello di
sviluppo, di crescita, di benessere è davvero una strada per il nostro ben vivere? In
realtà si sta determinando una forma di disagio o di patologia sociale diffusa: sovralavoro,
mancanza di tempo, stress, depressione. Un eccesso di “voler fare” che genera
stanchezza da esaurimento. È possibile invece trovare ispirazione in un’altra esperienza
di stanchezza che discrimina ed ispira: una stanchezza lieta, felice, che ci permette di
abbandonarci a ciò che ci sta più a cuore.
Parole Chiave
Società della prestazione, Autosfruttamento, Inadeguatezza, Depressione, Stanchezza,
Tempo di vita, Quiete, Cura di sé e cura degli altri, Convivialità, Condivisione,
Spiritualità.



«Sicuro di poter dare ogni giorno il meglio alla tua famiglia. Sicuro di poterti
dedicare ai conti di casa, ai tuoi hobby, a seguire il Nasdaq, a migliorare il tuo inglese.
Sicuro di poter tenere tutto sotto controllo. Sicuro di acquistare sempre il meglio usando
Internet al riparo da intrusioni. Sicuro di mettere gli affari della tua famiglia in mani
sicure, come se fossero le tue…». Questo testo di una pubblicità di un portale dedicato
alla famiglia proposto qualche tempo fa da una banca italiana illustra bene la
molteplicità delle attese, delle prove, dell’aspirazione di un poter fare e realizzare
continuo e sistematico su più fronti che oggi caratterizza sempre più lo stile di vita della
nostra contemporaneità.
Ciò che caratterizza sempre più le nostre vite è una forma di auto-sfruttamento
Questa situazione è rafforzata dalle trasformazioni delle forme del lavoro. Per molti
lavoratori oggi non ci sono più orari di lavoro fissi e chiari che determinano una chiara
divisione tra tempi di lavoro e tempi di vita. Tutti gli spazi un tempo battezzati per la
riproduzione psicologica e sociale – l’orario dei pasti, la sera, il sabato e la domenica –
vengono pian piano reimpiegati per lavori o mansioni o nuovi compiti o performance. Il
risultato è che lavoriamo sempre di più, e dedichiamo sempre meno tempo alle forme
basilari di riproduzione: dormire, mangiare, oziare, prendersi cura gli uni degli altri.
Già all’inizio degli anni ’90, un’attenta osservatrice, la statunitense Juliet Schor, notò
nel suo The Overworked American che gli americani vivevano con la sensazione di un
tempo sempre più compresso a causa delle aspettative e delle richieste crescenti
dell’economia capitalistica e della società stessa. Schor faceva notare che nonostante la
crescita della produttività, negli ultimi decenni il tempo dedicato dagli americani alle
ore di lavoro era sensibilmente cresciuto, mentre era diminuito il tempo libero e lo
spazio dedicato all’ozio.
Se gli americani non se la passano bene, gli italiani non stanno molto meglio. Le
indagini multiscopo dell’Istat sull’uso del tempo mostrano che in generale l’Italia è uno
dei paesi in Europa con meno tempo libero a disposizione dei suoi cittadini e per quanto
riguarda in particolare le donne il tempo libero è ancora più basso. Infatti alle
aspettative sociali di un’autonomia e di una gratificazione nello spazio professionale e
lavorativo non ha corrisposto un equivalente impegno maschile nel lavoro di cura
nell’ottica di una sua più equa redistribuzione. L’impegno e la presenza maschile nel
lavoro di cura sono cresciuti ma molto limitatamente, almeno nel contesto italiano e non
sono andati a compensare il tempo impiegato nel lavoro produttivo rimunerato
femminile. Per le donne il tempo dedicato al lavoro produttivo si è semplicemente
andato ad aggiungere a quello tradizionalmente assegnato alla cura. Per quanto riguarda
il tempo libero le donne rimangono penalizzate perfino nel week end e a quasi tutte le
ore del giorno le donne impegnate nelle attività del tempo libero sono meno numerose
degli uomini.
Il risultato complessivo come genitori, è che abbiamo bisogno di trovare
occupazioni” continue anche per “tenere impegnati” i bambini. Mentre fette sempre
più importanti del tempo di cura vengono appaltate e “pagate” sempre di più a lavoratori
e soprattutto lavoratrici esterni, spesso straniere. I bambini crescono in maniera sempre
più chiusa e isolata. Anche quando il lavoro viene compiuto in casa, il tempo e
l’attenzione dedicata ai bambini è spesso limitata e frammentata.
In termini più generali, per uomini e donne, la potenzialità delle nuove tecnologie,
l’aumento dell’efficienza e della produttività non ha liberato tempi di vita o aperto
nuovi spazio di ozio, relax, convivialità, come ci si poteva aspettare.
Nel frattempo è cresciuta infatti la richiesta di produttività e l’attesa di performance
economiche e sociali.
Da una parte la ricerca di sempre nuovi oggetti e prodotti ci richiede sempre più
tempo per guadagnare il necessario per acquistarli e sempre più tempo per fare
shopping. Dall’altra molti dei prodotti e dei gadget che produciamo e che acquistiamo
sono a loro volta divoratori di tempo: dall’auto, alla televisione, al computer, alle nuove
tecnologie domestiche e per la vita quotidiana (elettrodomestici da cucina, microonde,
rasoi, telefonini, lettori mp-3, i-pod, palmari, tablet e i-pad, home theater ecc.). Gli
stessi giochi per bambini – si pensi alla play station e ai video giochi - diventano sempre
più tecnologici e costosi.
Il tempo di non lavoro, il tempo delle vacanze è andato costantemente diminuendo
nella nostra società. Anche le festività riconosciute, le giornate di non lavoro, sono
sempre meno. Lo stesso spazio del tempo libero e delle vacanze è stato occupato da
un’industria apposita e da un mercato del turismo o del divertimento: viaggi, hotel,
residence, villaggi, impianti sportivi, attrazioni turistiche, monumenti, divertimenti,
aperitivi, pasti, tutto è controllato da un mercato sempre più pervasivo. Senza
accorgercene ci siamo abituati a commercializzare anche il tempo non di lavoro. Fatto
questo che ha contribuito a sua volta ad aumentare la necessità di guadagnare per poter
spendere in maniera più esclusiva il proprio bonus di tempo libero.
In altre parole anche il tempo teoricamente non produttivo è oggi impiegato e
canalizzato in un sistema di produzione e di mercato. Dobbiamo pagare anche il nostro
relax. È dobbiamo lavorare di più per acquistare un tempo “libero” sempre più costoso e
impegnativo e quindi di fatto sempre più compresso.
Se non siamo occupati dal lavoro, altre attività – palestre, fit-ness, corsi di vario
genere – tengono impegnate le nostre teste e i nostri corpi. Perfino internet e i social
network oggi diventano attività sempre più impegnative da seguire e conseguentemente
fonti di stress.
Insomma una delle maggiori scarsità con cui stiamo quotidianamente combattendo è
la scarsità di tempo. Il che però è un effetto del modo in cui spremiamo il tempo e noi
stessi, ovvero di forme di sfruttamento e auto sfruttamento sempre più pervasive.
Secondo Alain Ehrenberg, quello che stiamo vivendo è il passaggio da una società
che forniva modelli sociali e di ruolo definiti assieme a rigide prescrizioni e proibizioni
a una società di mercato dove l’individuo è divenuto apparentemente sovrano ed è
sollecitato a “divenire se stesso”, ovvero ad assicurarsi il proprio personale successo.
Siamo tutti delle specie di imprenditori di noi stessi, impegnati ad autopromuoverci e ad
affermarci personalmente e socialmente in un contesto sempre più fluido e precario. La
contrapposizione tra il permesso e il vietato lascia spazio all’opposizione tra possibile e
impossibile.
Gli individui di un tempo erano costretti a confrontarsi e a conformarsi a modelli
rigidi e preconfezionati e il doppio confronto con l’interdetto nei comportamenti e con
la disciplina dei corpi poteva condurli fino all’estremo della nevrosi. Al contrario il
maschio contemporaneo che vive l’ebbrezza narcisistica del “puoi essere quello che
vuoi” si trova a confrontarsi piuttosto con il rischio del fallimento, con la sensazione di
impotenza e quindi con la “depressione”. La fatica depressiva ha preso il posto
dell’angoscia nevrotica. La nevrosi nasceva da un conflitto con una norma, tra le altre
cose sessuale, mentre la depressione nasce da un sentimento di inadeguatezza, di deficit
personale.
La depressione, come ha notato Alain Ehrenberg, è in effetti una “malattia della
responsabilità”, una condizione «in cui predomina un sentimento di insufficienza: il
depresso non si sente all’altezza, è stanco di dover divenire se stesso» (Alain
Ehrenberg, 1999, pag. 5) «La depressione – continua Ehrenberg - ci illumina sulla
nostra attuale esperienza della persona, poiché essa è la patologia di una società in cui
la norma non è più fondata sulla colpa e la disciplina, bensì sulla responsabilità e
l’iniziativa. […] L’individuo è messo a confronto più con una patologia
dell’insufficienza che con una malattia della colpa, più con l’universo della disfunzione
che con quello della legge: il depresso è l’uomo in panne» (Alain Ehrenberg, 1999, pag.
10).
Se per Ehrenberg la depressione è un effetto della pressione della responsabilità, per
il filosofo tedesco di origine coreana Byung-Chul Han è piuttosto l’effetto della
pressione della prestazione.

In un recente saggio egli afferma che da tempo noi non viviamo più in una “società
disciplinare”, come quella descritta da Michael Foucault, ma piuttosto in una “società
della prestazione”. Alla forma del divieto si sostituisce l’imperativo della prestazione. Il
«verbo modale positivo» di una simile società – nota Byung-Chul Han - è il “poter fare”
illimitato. Infinite sono le opportunità e le occasioni che le pubblicità ci presentano e
che osserviamo o ascoltiamo centinaia di volte ogni giorno, per strada, per radio,
televisione, su internet o in giro.
La realtà soggettiva, tuttavia, è radicalmente diversa. Noi siamo vincolati a dove
nasciamo, al nostro contesto, alle nostre risorse, alle nostre opportunità, al nostro tempo.
Se il mercato offre certe opportunità per tutti, esse in realtà sono godibili solo da pochi.
Anzi, come aveva compreso l’economista Fred Hirsch, gran parte dei beni offerti dal
mercato vanno intesi come beni posizionali, il cui godimento dipende dal fatto di
goderne al posto o a spese di altri. La prestazione è spesso un confronto e una
competizione con il vicino, con il prossimo.
La richiesta continua di performance e prestazioni ci ha trasformato tutti in soggetti
imprenditori e al contempo sfruttatori di noi stessi. Ci spremiamo fino in fondo per
ottenere il massimo uso possibile di noi stessi. Questa richiesta e attesa di prestazione
genera tuttavia persone frustrate e depresse.
«L’uomo depresso è quell’animal laborans che sfrutta se stesso del tutto
volontariamente, senza costrizioni esterne. Egli è al tempo stesso vittima e carnefice»
(Byung-Chul Han, 2012, pag. 26).
Ragionare di cura oggi, di cura di sé, di cura degli altri, di cura dell’ambiente ci
obbliga a fare i conti con questo modello sociale e culturale. Questo significa tornare a
domandarci se il modello di sviluppo, di crescita, di benessere che abbiamo inseguito
negli ultimi sessant’anni almeno è davvero una strada per il nostro ben vivere oppure sta
in realtà determinando una forma di disagio o di patologia sociale diffusa: sovra-lavoro
(che paradossalmente si accompagna ad una crescente disoccupazione), mancanza di
tempo, stress, ipertensione, ansia, angoscia, stanchezza, esaurimento, depressione,
nuove forme di povertà e di abbandono. Le ore di una giornata rimangono sempre 24
ma abbiamo sempre meno tempo per dormire, riposarci, godere della vita e delle
relazioni.
Insomma quelle che un tempo chiamavamo società del benessere oggi appaiono
sempre più come “società della stanchezza” per usare l’efficace espressione di Byung-
Chul Han. Una società segnata da malattie come la depressione, l’iperattività, la
sindrome da deficit di attenzione, le diverse forme di burnout, le malattie alimentari
(anoressia, bulimia).
Tutto questo mette al centro una questione che riguarda non soltanto l’impatto
ambientale di questo modello ma anche il suo impatto psichico, culturale e sociale e ci
apre a prospettive di cambiamento radicali e difficili.
«Che cosa è necessario? - Si chiedeva tempo fa Cornelius Castoriadis - Data la crisi
ecologica, l'estrema disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza tra paesi ricchi
e poveri, la quasi impossibilità del sistema di continuare la sua corsa attuale, quello
che necessario è una nuova creazione immaginaria di proporzioni sconosciute nel
passato, una creazione che metta al centro della vita umana significati diversi
dall’espansione della produzione e del consumo, che ponga obiettivi di vita diversi,
riconoscibili dagli esseri umani come qualcosa per cui val la pena vivere. [...] Questa è
l’immensa difficoltà di fronte a cui ci troviamo. Dovremmo volere una società nella
quale i valori economici hanno cessato di essere centrali (o unici), in cui l’economia è
rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo, in
cui dunque si rinuncia a questa corsa folle verso un consumo sempre maggiore. Questo
è necessario non soltanto per evitare la distruzione definitiva dell’ambiente terrestre,
ma anche e soprattutto per uscire dalla miseria psichica e morale degli umani
contemporanei. Occorrerebbe pertanto che gli esseri umani (parlo ora dei paesi ricchi)
accettino un livello di vita dignitoso, ma frugale, e rinuncino all'idea che l'obiettivo
centrale della loro vita sia che il loro consumo aumenti del 2-3% per anno. Per
accettare questo, occorrerebbe che ci fossero altre cose a dare senso alla loro vita»
(Cornelius Castoriadis, 1996, pp. 112-113).
Oggi viviamo un eccesso di positività, una stanchezza legata all’ossessione del poter
fare, del poter realizzare che ci porta ad uno svuotamento ad una graduale ma
inesorabile perdita di forze fisiche e psichiche.
Byung-Chul Han contrappone alla passività generata dall’iperattività, che non
ammette più alcun agire libero, «la negatività del non-fare (nicht-zu)» come tratto
essenziale della contemplazione, come ricerca di una posizione di sovranità dentro di sé.
Ma l’aspetto interessante di quest’analisi è che non contrappone all’eccesso di fare
un appello astratto al suo contrario, non ipotizza l’intervento di una fonte esterna. La
speranza che emerge è data dalla non chiusura, dalla possibilità di concepire degli
itinerari nella stanchezza” che producono esiti inattesi. Emerge l’ipotesi di una
trasformazione che procede dal centro di questa condizione e attraverso un sentiero
misterioso procede verso una diversa esperienza interiore ed esistenziale.
Richiamandosi a Peter Handke, Byung-Chul Han ipotizza che a fianco o oltre una
stanchezza dell’io, solitaria, chiusa al mondo, possa farsi largo una stanchezza
fiduciosa, limpida, aperta al mondo che permette un diverso soffermarsi. Una
stanchezza che apre all’abbandono, alla quiete. L’ipotesi di Byung-Chul Han è che ci
possa essere una stanchezza che cura, «quella stanchezza che non deriva da un riarmo
sfrenato, bensì da un cordiale disarmo dell’io» (Byung-Chul Han, 2012, pag. 6).
La strada che sembra proporre è dunque un approfondimento di questa stanchezza,
uno sprofondamento e un attraversamento di questa stanchezza. Se l’eccesso di voler
fare, della potenza positiva genera una stanchezza da esaurimento, è possibile invece
trovare ispirazione in un’altra esperienza di stanchezza che discrimina ed ispira. Una
stanchezza che «permette di accedere a un’attenzione completamente diversa, a quelle
forme prolungate e lente che si sottraggono all’iper-attenzione breve e veloce» (
Byung-Chul Han, 2012, pag. 70). Una stanchezza lieta, felice, che ci permette di
abbandonarci a ciò che ci sta più a cuore.
Se ascoltata in profondità, la stanchezza segnala infatti anche la mancanza di
desiderio nel continuare a fare una determinata cosa. Segnala il non poter più sopportare
oltre. Rivela la nausea o il disgusto. Permette insomma di riflettere e riflettersi,
permettendo l’insorgere di un’autorità e di un desiderio interiore e relazionale, di una
potenza negativa che ci rafforza e ci autorizza a discriminare, a non fare, a togliere, a
sottrarre.
Insomma il partire da dove si è, il prendere coscienza della nostra condizione ci apre
a percorsi di liberazione che possono aiutarci a tornare a prenderci cura di noi, degli
altri, ad aprire spazi di condivisione e a ridurre le forme di dipendenza dal mercato,
dalla produzione, dal consumo, a ritrovare un senso di spiritualità e di convivialità.


(Riflessioni Sistemiche - N° 7 dicembre 2012 )



Bibliografia
Castoriadis C., 1996. La montée de l’insignifiance, Les Carrefours du labyrinthe – 4,
Points Essais.
Byung-Chul Han, 2012. La società dell’incertezza, Nottetempo, Roma.
Ehrenberg A., 1999. La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino
Peter Handke, 1991. Saggio sulla stanchezza, Garzanti, Milano.
Schor J.B., 1992. The Overworked American. The Unexpected Decline of Leisure,Basic Books, New York

venerdì 25 ottobre 2013

on the bike, on the beach...

cara C.,
per quelli che si sentono prigionieri
tutto diventa un muro,
anche una porta aperta.
(Renè Char)


Spaparanzato su una sdraio all'Iguana kiosko bar, mi godo sole, vento e onde al Poetto, come non mi capitava da tempo.
Mare abbastanza agitato e algoso davanti a me, ne sento i suoni.
Cinque virago tedesche, anziane e burrose, alquanto cellulitiche, mi circondano con parole, biancori e vampate d'altri suoli. Si godono il nostro strepitoso ed inquietante ottobre.
Mi sento, da loro, meno lontano di un tempo.

Sono giunto in spiaggia sulla mia nuova fiammante bici elettrica color bronzo chiaro: va a 25 all'ora, anche in salita, senza fatica.
Ottima per gironzolare in città, e magari anche per andare dai nipoti o al Cungiareddu.
Arte e perfezione della solitudine.
Una solitudine scattante.
Come un'iguana.

Ma le iguane non leggono libri.
Lo sdraietto mi ha avvinto ancora ad un breve DeLillo del 2001, Body Art :

-Stai bene ?
-Cosa dovrei rispondere ?
-Non so. Ma non ti senti sola ?
-Ci dovrebbe essere un'altra parola per dire sola. Tutti sono soli. Questa è una cosa diversa.
-Ma non credi. Non so. Non sarebbe più facile.
-Questo è il genere di conversazione che dovresti fare con qualcun altro. Io non so fare questo tipo di conversazione.
-Se tu non insistessi a tenerti lontana. Hai bisogno di avere intorno persone e cose familiari. Non fa bene star soli. Lo so cosa provavi per lui. E so che dev'essere terribile. Dio mio. Ma non devi ripiegarti in te stessa. So anche che sei decisa a farlo. So che hai una volontà di ferro, a modo tuo, subdola e ostinata. Ma devi tirarti fuori da questa cosa. Non chiuderti in te stessa.
-Dimmi cosa stai facendo.
-Mi sto ingozzando. E guardo fuori dalla finestra -disse Mariella-. E parlo con te...

Secondo me tu stai creando la tua piccola società totalitaria, le aveva detto una volta Rey, dove sei il dittatore assoluto, e anche il popolo oppresso, aveva detto, forse con ammirazione, da artista ad artista.

-E' vanità. Ecco cos'è, -dice.
Ma la vanità è essenziale per l'attore. E' un vuoto.
E' questa l'etimologia della parola.
Ed è questo che cerco, che voglio costruire con il mio lavoro.

Per cinque giorni di seguito andò in macchina fino alla punta, al promontorio, perchè i gabbiani, un pò goffi sulle zampe sottili, quando si alzano in volo diventano i vettori obliqui di tutto questo tempo roccioso, portandolo fuori dalla geologia, fuori dalla scienza e dalla mente, dandogli leggerezza e aria e corpo, portandoselo dentro i muscoli e il flusso sanguigno del volo, dentro il loro cuore robusto e martellante, il loro cuore metronomo, e perchè sapeva che questo era il giorno in cui sarebbe successo...
Ecco cosa sarebbe successo. Proiettò la scena fino a un certo punto, mentalmente, nelle stanze e nei corridoi, poi smise.
Scese giù per la cessa parafuoco oltre la casa diroccata con la croce bianca dipinta di fresco issata sul colmo del tetto e l'insegna SALVATI davanti alla porta.
Pulì il bagno, usando la confezione spray di disinfettante. Poi si punto alla testa il manico a forma di pistola, e vide se stessa fare quello che chiunque avrebbe potuto fare, da solo, senza particolare riferimento alla propria situazione. Era il disinfettante al profumo di pino, la confezione con il manico a pistola che conteneva detergente per piastrelle e stucco, distruttore di muffe. Si puntò il becco, la bocca da fuoco, alla testa, un dito schiacciato sul grilletto di plastica, la lingua penzoloni per maggior enfasi.
Questo, pensò, fanno le persone, sole nella vita.








giovedì 24 ottobre 2013

questioni genetiche

Qualche giorno fa hanno trovato una bambina bionda in un campo Rom a Larissa, allevata da due genitori non proprio affini per colorito e sembianze.
Due giorni fa ne hanno trovato un'altra in Irlanda, e l'hanno subito sottratta al campo zingari.
Hanno fatto l'esame del DNA ed era effettivamente figlia dei due nomadi.
Gliel'hanno resa, con tante scuse.

Qualche giorno fa, davanti al Ministero del Tesoro, hanno ripreso a protestare i malati di SLA, per veder stanziati i fondi per l'assistenza a domicilio.
Una vicenda vergognosa, che si trascina da governo a governo, costringendo questi poveretti a stressarsi oltre misura.
Oggi uno di loro, un certo signor Pennacchio, a protesta finita, è morto.

Un fanatico leader neonazista ungherese ha scoperto di avere la nonna ebrea.
Si è convertito e ha lasciato il gruppo antisemita.
Potere della genetica !

La sorella di mio padre mi ha telefonato per dirmi che suo marito (zio Gianni, quello che da piccolo mi chiamava 'Cappellini' e mi aveva regalato una bella maglietta dell'Inter), è morto di cancro all'ospedale.
'Vedi, mi dice: loro pensavano di essere più sani e forti di noi Euli, e invece li stiamo interrando tutti!'.
Ecco, questa è la mia base genetica, la mia famiglia d'origine...

Il Governo Letta ha scoperto di avere dei geni democristiani d'annata, ben più potenti e durevoli di qualunque dichiarata ideologia, di destra o di sinistra.
I geni, come si sa, sono sempre di centro.

mercoledì 23 ottobre 2013

tutto per il nostro bene

Ci spiate, per proteggerci.

Ci impoverite, per salvarci.

Ci imbottite di pubblicità, per informarci.

Ci propinate bugie, per rassicurarci.

Ci ammazzate, per non farci soffrire inutilmente.

Ci imponete sacrifici, per santificarci.

Ci assediate di leggi, per regolarizzarci.

Ci promettete la luce, per darci speranza.

E minacciate il buio, per farci scegliere liberamente la luce.

Ed io vi ringrazio.

Per farvi schiattare.





tra trent'anni



Governo Letta, Cassazione: 

"Depistaggio accertato nelle indagini"

 

 

Una sentenza della Suprema corte cinese dispone un nuovo processo civile per valutare la responsabilità di tutti i Ministeri nel fallimento della compagnia (ormai aerea) Italia, proprietaria del Dc 9 a forma di stivale che precipitò nella notte del 27 giugno 2014.
Per anni avevano collaborato a depistare le indagini, fornendo false informazioni sullo stato finanziario della compagnia, mentre proseguivano a esercitare i consueti reati di frode, concussione, falso ideologico e rapina a mano armata (seppur con voce flautata).
Confermata inoltre la tesi del missile sparato da un governo ignoto, ma alleato.

Nessun cittadino-passeggero sopravvisse.
I ministri invece si salvarono, scappando in Svizzera sui propri elicotteri privati decollati da San Marino (quelli del PD) o da San Pietro (quelli del PdL e di Scelta civica).


Bejing, estate 2044

martedì 22 ottobre 2013

catastro(so)fismi

Cosa c’è che non va nel mondo moderno

Cosa c’è che non va nel mondo moderno

Mentre siamo impegnati con Twitter, Facebook e gli smartphone precipitiamo verso la catastrofe
(oggi, su Internazionale)


Però arriverà, deve arrivare, il momento il tempo e il luogo in cui qualcuno di molto molto autorevole senza essere per questo canzonato e dal coro irriso dica no, non è quello che deve, non è questo che devi accettare per essere accettata. Non devi fare silenzio. Verrà il giorno in cui questo tempo avariato scadrà e sarà buttato come uno yogurt andato a male e ricominceremo tutti, dalle case, dalle televisioni, dai giornali, dalle scuole elementari a dire alle bambine: quando ti chiedono di stare al loro gioco, digli di no. È un gioco sbagliato, non è il tuo gioco. Non è nemmeno un gioco.
Verrà il giorno in cui capiremo l'abisso in cui siamo precipitati pensando che fosse l'anticamera del privé del Billionaire, che fortuna essere ammessi all'harem, e sapremo di nuovo dire, come i nostri nonni ci dicevano: è una trappola, bambina. Quando ti chiedono di mostrargli le mutande non è vero che si alza l'auditel, come dice la canzone scema. Quando te lo chiedono vattene, ridigli in faccia e torna a casa.
(Conchita De Gregorio, oggi su Repubblica)

Circondati dalle armi di distrazione di massa ci dirigiamo, muti ed autosacrificali, verso il supplizio.
Senza dire no, senza fare nulla, continuando a twittare.
E la chiamiamo modernità.
La catastrofe è l'unica, vera modernità.
(oggi, su Saturnalia)




domenica 20 ottobre 2013

la società della stanchezza

Qualche giorno fa sono entrato in contatto con un libriccino della Nottetempo, intitolato 'La società della stanchezza', scritto da un coreano-tedesco, che si fa chiamare Byung Chul Han.
Vi ho trovato molte mie meditazioni di questi ultimi tempi, con qualche idea nuova e provocatoria, su cui ripensare ancora.
L'ho consigliato già a tanti, ed anche stamattina mi è ricapitato di parlarne ad una cara amica al bar.
Si sentiva stanca: di scrivere, di leggere, di quasi tutto. Come me.
Per confortarla, e favorire la sua deriva depressivo-evolutiva, gliene ho parlato.
Vedremo gli effetti.
Ma su questo librino ci ritorneremo, prima o poi.

A proposito di stanchezza, credo che non possa che prendere tutti alla vista di quel che è riaccaduto ieri a Roma: rituali pacifici e rituali violenti, in un'impotenza collettiva, condivisa e generale, che ci avvolge.
I soliti  'antagonisti' che provano a riprender voce, mescolando tutto insieme in un magma confuso, in cui anche la lotta Anti-TAV (unica vera novità nel panorama politico nazionale) va a perdersi.

Oppure quanto ci stanca sentire la puttana di turno da Santoro che continua a parlarci delle manie sessuali di Berlu, dei festini di Arcore, e della fidanzata lesbica o forse zoofila.
O a vedere Letta che si atteggia a nuovo De Gasperi, nella camera ovale di Obama.
O i sindacati che chiamano allo sciopero generale, minaccia suprema contro l'ingiustizia...
Basta, vi prego!
Mi stancano totalmente, come i finti minuetti a suon di spranga intorno alla salma di Priebke o le inermi manifestazioni per la difesa della Costituzione che non c'è.
Ma possibile che in questo paese non si riesca a fare altro che proseguire a ciurlare nel manico ?




venerdì 18 ottobre 2013

...per il cuneo

Eccoci qui, ancora una volta presi per il cuneo.
Il cuneo, si sa, è qualcosa che si incunea, si infila laddove può.
E, senza troppo sforzo, mi pare che anche questa volta ce la farà.
10 euro lordi al mese a un lavoratore, milioni alle banche e alle missioni militari, come sempre.
Per la stabilità, la loro.
Esagerano, davvero. Ma i sondaggi non scendono di tanto, resta una grande stagnazione, le persone sembrano solo sempre più impaurite del futuro e rassegnate sul presente.
Anche la catastrofe pare inghiottita dalle parole del dominio.

In pochi mesi, il cuneo si è introdotto nei partiti, facendo saltare quel poco di radicalità e di non omologazione completa che ancora esisteva:
-Bersani e Fassina vengono liquidati e si fanno strada Letta e Renzi
-Berlu è messo nell'angolo da Alfano e Lupi
-Monti si ritira, sconfitto da Casini e Mauro.
La nuova DC avanza ovunque, in tutti i gruppi tradizionali.
Tutto diventa Centro, almeno nell'area di governo.
Quel poco che restava del social-democraticismo  nel PD. di populismo destrorso nel PdL e di rigoroso liberismo tecnico in Scelta civica vanno a liquefarsi nel magma informe della solita solfa italiana, quella che -in fondo- ci governa da sempre.

Leggo oggi su 'Zona disagio' di J,Franzen una parola tedesca che mi prende: weltschmerz.
Significa questo: dolore del mondo.
Effetto collaterale del cuneo, quando si incunea in luoghi sensibili.


giovedì 17 ottobre 2013

ad una povera salma

Caro omonimo Erick,
lo so che hai ucciso un sacco di gente a Roma, mezzo secolo fa, per rappresaglia...
E lo so che non ti sei pentito.
Neppure in punto di morte, hai rinnegato.
Eri in guerra, e la guerra è anche questo.
Si fanno stragi, si compiono orrori, si ammazza a piè sospinto, si comanda e si obbedisce.
E su questo, hai ragione tu.
E non quelli che l'hanno fatto e lo fanno tuttora e -proprio per questo- non la smettono mai di mostrificarti.
Neppure da morto, neppure da salma.

Come se loro, i vincitori di allora, non abbiano fatto Hiroshima e Nagasaki, i bombardamenti di Dresda, o i gulag.
E come se non continuassero a fare Iraq, Afghanistan e Siria.
O Guantanamo.
Eppure, nessuno li ha perseguiti, nè li persegue o li condanna.
Per non parlare delle vittime di allora, gli ebrei.
Che cosa fanno ora di diverso ai palestinesi in Israele ?

E poi i produttori d'armi, ed i loro mercanti.
E quelli che ci stanno massacrando a colpi di sacrifici e finanza ?
Massacri scientifici, puliti, col viso ed i toni gentili di un criminale alla Letta (zio e nipote).
O quelli di Napolitano, col suo cappellino da innocente e giusto in Sinagoga.
Che vergogna, che ipocrisia farisaica, che scempio morale...

E se la prendono con te (gli ex stalinisti 'antifascisti' di Rifondazione comunista), oppure ti esaltano (gli ultras neonazisti, che vanno dove ci sono le telecamere o le risse...).
Tutto finto, come sai.
Tu eri una persona seria, loro no.
Hai fatto seriamente il tuo lavoro di militare ed aguzzino, hai provato a scampartela (come tutti quelli come te) e non ci sei riuscito ( a differenza di molti altri, che sono rimasti assisi sui loro scranni a lungo, anche dopo la 'Liberazione', facendosi chiamare democristiani o liberali).
E sei morto così, centenario, senza pace.
Ed anche noi siamo solo morti, e per questo non vogliamo che tu sia sepolto.

mercoledì 16 ottobre 2013

bonaventura

Reduce da due mattinate a Verbania, con due seconde liceo al  Classico-Scientifico 'Bonaventura Cavalieri', (un meno noto seguace di Galileo...).
Scuola aperta, insegnanti coinvolti abbastanza motivati sul progetto (ma stanchissimi, oberati di lavoro e di burocrazia, frustrati e soli come non mai...), che lottano per tenere un numero di alunni sufficiente, anche a costo di smembrare classi e di ricompattarle per risparmiare, etc etc...
La solita scuola italiana, che fa le nozze coi fichi secchi.
E in tutto questo, noi che andiamo a lavorarci su cambiamento climatico e catastrofi.

Adolescenti in catastrofe, appunto.
Ragazze silenziose, visi attenti e compunti, delicatezza e silenzi.
Ragazzi chiassosi, tra il balente e l'acnoide.
Qualunque gioco per loro si trasforma in informe pogata, urto e spinta, contatto improprio.
Ora d'aria per giovani anime carcerate.

Segnali potenti: individualismo sfrenato (frasi tipo: salvare prima me, poi -forse, se c'è tempo- gli altri, tanto io sarò morto, se mi eliminano dal gioco che cosa me ne importa di stare lì a guardarlo...); sottovalutazione-rimozione (tanto toccherà ad altri, cosa vuoi che siano 40 cm di sollevamento del mare, sino a due gradi di calore in più non ci cambia nulla...); competizione tutti contro tutti (siamo come le gazzelle che si svegliano e corrono perchè c'è il leone che le mangia...).
Insomma, i modelli saranno sbagliati, ma funzionano.
I nostri, magari sono giusti, ma non funzionano proprio e vengono scambiati per moralismo, retorica, ipocrisia. Spesso, a ragione, visto il modo in cui di fatto viviamo.

In parallelo, e ben intrecciata, visione del primo episodio di Hunger Games.
La trilogia libresca ha fatto strage di ragazzi.
Non male, se ben incorniciato (cosa che non mi pare che avvenga).
Provate a vederlo.

Bonaventura a voi




rimetti a noi...

Debito, per quanto tempo ancora?

Le ultime settimane sono state un susseguirsi di allarmi sempre più drammatici. La parola catastrofe è stata il leitmotiv. Il governo degli Stati Uniti ha chiuso bottega per qualche giorno. Il default appariva imminente, inevitabile. Mentre scrivo queste righe, l’allarme resta alto: il 17 ottobre è la data ultima, l’orlo dell’abisso. Il tutto legato a doppio filo con il “tetto” del debito americano: se i repubblicani non concederanno l’innalzamento di quel “tetto”, oltre i 17 trilioni di dollari (17.000 miliardi), salta tutto per aria. Ma com’è possibile che un paese come l’America, che stampa – creandoli dal nulla – svariate centinaia di miliardi di dollari ogni anno, che – prestati al Tesoro consentono di pagarsi il debito – rimanga senza soldi?
Mistero, apparente, creato dalla strampalata finanza mondiale. Il fatto è che, fino a ieri, quel debito veniva comprato in gran parte dai cinesi, che adesso sono diventati molto sospettosi. E l’altro fatto è che c’è una legge dello Stato Usa che stabilisce un tetto del debito consentito. Oltre il quale non si può più spendere. I repubblicani ne hanno fatto un’arma per colpire l’Amministrazione di Obama. E il loro divieto è diventato una minaccia per tutti. E’ una cosa seria? Lo è,  serissima. La stessa cosa era accaduta nel 2011, anche in quel caso tra alte strida di possibile default. Tanto alte che i consumatori americani  si erano spaventati e avevano speso il 22% in meno rispetto all’anno precedente. E, se il consumo americano scende, scende l’economia mondiale.  La recessione, da fantasma qual è, diventa reale, se non diventa addirittura una depressione.
C’è della pazzia nel comportamento dei repubblicani. Ma la vera questione è che tutto il meccanismo è impazzito. E Obama non è da meno.  Il fatto è che noi siamo alle dipendenze di quella pazzia. Anzi siamo parte integrante di quella pazzia, e la condividiamo. E nessuno sa come uscirne. Per meglio dire si saprebbe come uscirne, ma nessuno si azzarda a dirlo. Perché ha paura. Infatti uscirne significa cambiare le regole della finanza mondiale, che sono quelle scritte dalla finanza anglosassone, da Wall Street e dalla City of London, e imposta a tutto il mondo. Uscirne significa dire apertamente che gli Usa non sono più in grado di pagare l’orchestra. Ma è un discorso lungo. Un qualsiasi governante europeo che dicesse una cosa del genere sarebbe fatto fuori in meno di 48 ore. Vuoi sorprendendolo a letto con tre prostitute, vuoi perché gravemente ammalato, vuoi perché avvelenato con il Polonio 210.
Dunque silenzio, accompagnato da geremiadi incomprensibili ai più. Ma ci sono alcune cose da sapere per capire come – con alta probabilità – andrà a finire nelle prossime ore. La prima di queste cose è il 14-esimo emendamento della Costituzione Usa, che dice esattamente questo: “La validità del debito pubblico degli Stati Uniti (…) non può essere messa in discussione”. La seconda è questa: che il debito americano è l’unica proprietà che non corre alcun rischio su questo pianeta. Quel debito è la colonna portante che sorregge non solo l’economia americana, ma tutto il sistema finanziario del mondo. E perché? Perché tutti i finanzieri del mondo, insieme a tutti i governanti del mondo, la pensano in questo modo. Cioè si comportano come se quel debito sia una merce sicura al 100 per cento. Una merce per la quale c’è sempre, e ci sarà sempre, una domanda. Una merce che non resterà mai ferma in magazzino. Ecco, appunto: fino a ieri è stato così. La questione di oggi è: e se così non fosse domani? Questa domanda mette i brividi. Una default americano destabilizzerebbe tutti i mercati dei debiti, a cominciare da quello europeo. E ciò, come una valanga, investirebbe il valore di tutti i beni in ogni latitudine.
Follia? Certo, evidente. Follia pura. Ma è la realtà. Ecco perché io credo che il default americano non ci sarà. Troveranno un accordo in extremis, un trucco, un marchingegno. E  tutti tireranno un sospiro di sollievo.  Ma quello che si deve capire è che sarà un respiro corto. Perché il problema reale che giace sotto il paradosso apparente è che la questione non sarà risolta per la semplice ragione che non è più risolvibile, così come ciò che non è sostenibile, alla lunga, non potrà essere sostenuto. La situazione che si è creata in questi ultimi quaranta anni ha dato agli americani immensi vantaggi. Mantenerla equivale a mantenere quei vantaggi. Ma non è più possibile in un mondo in cui altri protagonisti aspirano (e possono aspirare) a quei vantaggi. Per conservare il suo potere e i suoi vantaggi l’Occidente ha truccato le carte. Di fronte alla contrazione della crescita ha stimolato il debito. Ora è il debito che regge lo sviluppo. Ma il debito è divenuto troppo grande e cresce ancora a ritmi esponenziali. E non c’è mongolfiera che possa salire per sempre. Quando si arriva al limite, al “tetto”, poi ci si ferma e infine si precipita.
Fino a ora gli Usa, di fatto, non hanno pagato. Sul presupposto che la loro supremazia militare avrebbe consentito loro di non pagare  comunque.  Adesso il mondo non è più il loro (o soltanto il loro). E la loro superiorità militare , pur evidente, non può nascondere i libri mastri. Il debito è divenuto troppo grande per tutti, America inclusa. Rendere visibile tutto questo alle opinioni pubbliche  non si può. Ecco perché il default americano sarà evitato: per ora. Ma sarà solo un rinvio. Un rinvio corto. Prima lo capiremo, meglio sarà per noi. Capirlo significa smetterla di illuderci che uscendo dall’euro ci salveremo. Se non cambiamo le regole che ci sono state imposte, non ci salveremo affatto.  Il debito è impagabile, ma i padroni dell’Universo ci chiederanno di pagarlo. Poi bruceranno i libri mastri, insieme ai nostri risparmi e ai nostri diritti.

venerdì 11 ottobre 2013

ai ricchi e potenti, impuniti (tipo quelli della VeDrò)

Frank era insolitamente di cattivo umore.
I giornali parlavano di un giro di vite contro la criminalità organizzata, e Frank aveva attaccato una concione.
'La Nike paga ventinove centesimi a un bambino per la fabbricazione di una canottiera da basket, e la vende  a centoquaranta dollari. E sarei io il criminale ?
Wal-Mart manda sul lastrico la metà dei negozi a conduzione famigliare e paga i ragazzi che fabbricano le sue porcherie da quattro soldi sette centesimi l'ora. E sarei io il criminale ?
Abbiamo perso due milioni di posti di lavoro in due anni, un lavoratore non può più permettersi un anticipo per una casa, e il fisco ci spreme come limoni e manda i nostri soldi a un liquidatore che chiude una fabbrica, licenzia gli operai e si ritaglia un compenso a sette cifre. E sarei io il criminale ? Io quello da carcere a vita ?
Metti insieme le bande dei Crips, dei Bloods, dei giamaicani,la mafia e la mala russa, i cartelli messicani, e tutti insieme non riescono a guadagnare in un anno quello che il Congresso mette su in un solo pomeriggio. Prendi tutti gli spacciatori che vendono crack in ogni angolo d'America, non riuscirebbe a tirare su disonestamente i quattrini di un solo senatore colluso con l'amministratore delegato di una società per azioni.
Mio padre mi ripeteva sempre che contro il potere non si può nulla, e aveva ragione. Non si può sconfiggere la Casa Bianca, o il Congresso. Decidono loro le regole del gioco, e il gioco è truccato, ma non per noi.
Certo, ogni morte di papa danno una batosta a uno di loro. Sacrificano qualcuno per un paio d'anni in un carcere federale per gettare fumo negli occhi, citandoli ad esempio per gli altri di ciò che accade a un bianco ricco e così stupido da farsi beccare con le mani nel sacco. Ma se io scivolo su una fottuta buccia di banana finisco nel penitenziario più schifoso insieme a tutti i perdenti, per il resto della vita.
Lo sai perchè il governo vuole sbarazzarsi del crimine organizzato ? '

'Siamo in competizione'.

'E' questo il motivo. Ecco cosa c'è dietro la task force contro il crimine organizzato, il tuo Fbi, la Rico. Grande governo e grandi affari, ecco la definizione adatta di 'complicità nei racket'. Ogni volta che due amministratori pubblici pisciano insieme nel cesso dei senatori si commette un reato.

'E così il governo vuole sconfiggere la criminalità organizzata'.
'Davvero spassoso'.
'Il governo è la criminalità organizzata'.
'L'unica differenza tra loro e noi è che loro sono più organizzati...'

(Don Winslow, L'inverno di Frankie Machine, Einaudi, 2008)

giovedì 10 ottobre 2013

impolitica e ingiustizia

Al centro dei nostri discorsi pubblici è tornato a collocarsi, come in ogni età di crisi e di rivolgimento, il problema della giustizia politica...
Questo travaso, dal Palazzo alla Piazza (e sia pure una Piazza artificialmente ricreata nell'intimità dei salotti domestici), ha rivitalizzato un vecchio 'ismo': con l'espressione 'giustizialismo' si è passati a designare la diffusa esigenza di risarcimento indirizzata alla magistratura e insieme la domanda di tradurre l'epurazione giudiziaria in epurazione politica.
A contrastare l'orrore di alcuni davanti all'eventualità che i santuari della politica potessero essere violati dai giudici, si è aggregato nel corso degli anni Novanta un consenso sulle iniziative giudiziarie che rivelava insieme a una sacrosanta domanda di legalità anche il disperato bisogno di identificazione di una cittadinanza ormai priva di riferimento nelle ideologie e nelle culture politiche.

A una prima approssimazione, per giustizia politica si possono intendere fondamentalmente due cose: innanzitutto i procedimenti giudiziari che hanno per oggetto violazioni del diritto compiute da detentori di pubblici poteri nell'esercizio delle loro funzioni; in secondo luogo l'uso del potere giudiziario per il conseguimento di fini politici -la liquidazione di una classe politica o di un partito avverso, la legittimazione o la delegittimazione di un regime.
Le due fattispecie sono naturalmente connesse, anche se non necessariamente coincidono.
Nel corso della 'rivoluzione dei giudici' esse si sono esemplarmente saldate.

Dove la crisi del modello consociativo si consuma nella palude della criptopolitica, la procedura giudiziaria sembra l'unico farmaco efficace contro la patologia del sistema. In mancanza di un'efficace opposizione politica, capace di esercitare funzioni di controllo, il processo politico diventa lo strumento per effettuare il ricambio della classe politica. Nelle condizioni normali di un sistema parlamentare, quel ricambio è in funzione della dialettica tra potere legislativo e potere esecutivo. Nella realtà italiana bloccata dalla conventio ad excludendum e dalle pratiche consociative ha fatto invece irruzione un terzo incomodo.
Si direbbe che nel ricambio abbia funzionato una sorta di legge del contrappasso. Alla mancanza di trasparenza del circuito governativo-legislativo si è posto rimedio con l'illuminazione giudiziaria delle transazioni fra il pubblico e il privato. Nell'immaginario degli spettatori alla politica come luogo dell'opacità si è contrapposta la giustizia come luogo della trasparenza. Ombra e luce. Il risultato è stato ottenuto dilatando a dismisura la dimensione della pubblicità extraprocessuale...
Si è affermato un 'processo diffuso' che ha h avuto come conseguenza per un verso il rafforzamento dell'istituzione giudiziaria ma per l'altro il rischio di uno stravolgimento della giustizia ad uso e consumo di una democrazia plebiscitaria. 
Non deve però sfuggire la connessione forte tra la causa e l'effetto. L'eccesso di pubblicità extraprocessuale funge in qualche modo da compensazione all'eccesso di segretezza della criptopolitica...Dove la politica si ritrae dalla pubblicità e si sottrae al giudizio degli elettori, non può poi sorprendere che il ricambio della classe politica avvenga nella forma di una rivoluzione giudiziaria proiettata dai media fuori dalle aule dei tribunali.

In questo contesto il giustizialismo diventa l'ideologia-salvagente per gli orfani delle ideologie.
Ma è un'ideologia che vive soprattutto nell'identificazione con qualche suo portatore 'forte' e in queto modo diventa un veicolo per quella personalizzazione della politica che è comunque un tratto emergente nella trasformazione delle attuali democrazie.
Già in difficoltà nel governo della complessità, esse sono alla ricerca di carisma in ogni angolo della vita sociale...

(P.P.Portinaro, Introduzione, in A.Demandt, Processare il nemico, Einaudi, 1996)