GIORGIO AGAMBEN E L’EPIDEMIA AL NEUTRINO
di MARCO D'ERAMO
Il coronavirus viene utilizzato per stringere la morsa del dominio e del controllo, certo. Ma se Agamben fosse marxista oltre che schmittiano vedrebbe che gli stessi dominanti stanno subendo una crisi senza precedenti.
Giorgio Agamben ha insieme torto e ragione, o, per meglio dire, tanto torto e un po’ di ragione.
Ha torto semplicemente perché i fatti lo stanno smentendo: anche i filosofi muoiono di contagio e Hegel perì di colera. Un vero filosofo può anche cambiare opinione quando i fatti cambiano: quel che era possibile affermare il 26 febbraio, non è più dicibile il 17 marzo.
Ha un po’ di ragione perché non possiamo fare i finti tonti e sappiamo che i dominanti usano ogni occasione per rafforzare il proprio dominio, anche – soprattutto – in situazioni di crisi acuta (o di guerra). Che il coronavirus sia usato per rafforzare la sorveglianza sui cittadini non lo scopre Agamben, l’evidenza è già stata schiacciante altrove, se fossimo più attenti. In Corea del sud è successo un putiferio perché il governo usava i cellulari per tracciare i possibili contatti che i singoli cittadini avevano avuto con singoli contagiati, sconvolgendo la vita di varie famiglie, svelando altarini, adulteri e altre amenità. In Israele è il Mossad che vuol replicare quest’uso dei cellulari (d’altronde in tutto il mondo i servizi segreti non avevano atteso le epidemie per tracciare i telefonini). In Cina il governo ha usato il virus per moltiplicare gli apparati di videosorveglianza e videoriconoscimento facciale. E Agamben non è il primo a sostenere che uno degli obiettivi del dominio è di isolare i dominati. Già Guy Debord scriveva che l’utopia urbanistica capitalistica era quella di “isolarci insieme”.
Affermare però che i dominanti sfruttano ogni occasione per rafforzare il proprio potere di controllo e sorveglianza, non implica che dobbiamo ricorrere a dietrologie, teorie complottistiche, disegni oscuri: perché l’amministrazione Bush sfruttasse l’11 settembre per decretare l’infame Patriot Act che ha posto tutto il pianeta alla mercede dei sequestri statunitensi clandestini (extraordinary renditons), non c’è stato bisogno che le Twin Towers fossero state abbattute dagli americani stessi: bastava che i Cheney e i Rumsfeld sfruttassero l’occasione insperata che gli era stata offerta. Così, che alla fine di questa crisi i poteri di sorveglianza dei governi risultino decuplicati, non vuol dire che il contagio non sia reale, mortifero e incredibilmente distruttivo.
Ma, questo è il punto, il dominio non è unidimensionale. Non è solo controllo e sorveglianza. È anche sfruttamento e prelievo. E dove Agamben ha perfettamente torto è quando non vede con quanta riluttanza i dominanti stiano accettando che i loro affari (compagnie aeree, imprese edilizie, fabbriche automobilistiche, circuiti turistici, produzioni cinematografiche: in breve, tutto) vadano in malora. Che intere fortune vadano in bancarotta. Con questa immissione di fantascientifiche quantità di liquidità è in atto una gigantesca distruzione di capitale (visto che questa moneta emessa non corrisponde a nessun controvalore reale), simile a quella che avviene in una guerra. Solo che la guerra distrugge non solo capitale finanziario, ma anche capitale materiale: cioè infrastrutture, fabbriche, ponti, porti, stazioni, aeroporti, edifici. In modo tale che dopo la guerra si passa alla ricostruzione. Ed è questa ricostruzione che innesca la ripartenza economica. Invece l’epidemia attuale somiglia molto di più a una bomba al neutrino, che uccide gli umani e lascia intatti edifici, strade, fabbriche. Per cui quando l’epidemia sarà finita non ci sarà nulla (o molto poco) da ricostruire. E questo costituirà un problema micidiale.
È la dimensione economica del dominio (un po’ di Marx, oltre che di Schmitt, non farebbe male ad Agamben), è il danno che quest’epidemia arreca alla dimensione finanziaria del dominio a spiegare l’estrema riluttanza, di cui parlava Paolo Flores d'Arcais, con cui tutti i governi hanno preso misure d’isolamento e di quarantena. Quindi sì, l’epidemia sarà sfruttata per rendere controllo e sorveglianza ancora più capillari; sì, l’epidemia è usata come esperimento in tempo reale di disciplinamento senza precedenti della società, ma tutto questo avviene ex post e a malincuore: chi ci vuole sorvegliare e controllare avrebbe di gran lunga preferito farlo con mezzi meno dispendiosi per sé e per la propria classe.
PS. E poi, se mi posso permettere, il tono oracolare andava bene a D’Annunzio, non a un filosofo: questo lirismo sul contatto/metaforicamente-contagio è francamente fuori luogo quando persone in carne e ossa muoiono sole, abbandonate, isolate dai propri cari senza funerale.
(25 marzo 2020)
Ma Agamben insiste...
Le riflessioni che seguono non riguardano l’epidemia, ma ciò che possiamo capire dalle reazioni degli uomini ad essa. Si tratta, cioè, di riflettere sulla facilità con cui un’intera società ha accettato di sentirsi appestata, di isolarsi in casa e di sospendere le sue normali condizioni di vita, i suoi rapporti di lavoro, di amicizia, di amore e perfino le sue convinzioni religiose e politiche. Perché non ci sono state, come pure era possibile immaginare e come di solito avviene in questi casi, proteste e opposizioni? L’ipotesi che vorrei suggerire è che in qualche modo, sia pure inconsapevolmente, la peste c’era già, che, evidentemente, le condizioni di vita della gente erano diventate tali, che è bastato un segno improvviso perché esse apparissero per quello che erano – cioè intollerabili, come una peste appunto. E questo, in un certo senso, è il solo dato positivo che si possa trarre dalla situazione presente: è possibile che, più tardi, la gente cominci a chiedersi se il modo in cui viveva era giusto.
E ciò su cui occorre non meno riflettere è il bisogno di religione che la situazione fa apparire. Ne è indizio, nel discorso martellante dei media, la terminologia presa in prestito dal vocabolario escatologico che, per descrivere il fenomeno, ricorre ossessivamente, soprattutto sulla stampa americana, alla parola «apocalisse» e evoca, spesso esplicitamente, la fine del mondo. È come se il bisogno religioso, che la Chiesa non è più in grado di soddisfare, cercasse a tastoni un altro luogo in cui consistere e lo trovasse in quella che è ormai di fatto diventata la religione del nostro tempo: la scienza. Questa, come ogni religione, può produrre superstizione e paura o, comunque, essere usata per diffonderle. Mai come oggi si è assistito allo spettacolo, tipico delle religioni nei momenti di crisi, di pareri e prescrizioni diversi e contraddittori, che vanno dalla posizione eretica minoritaria (pure rappresentata da scienziati prestigiosi) di chi nega la gravità del fenomeno al discorso ortodosso dominante che l’afferma e, tuttavia, diverge spesso radicalmente quanto alle modalità di affrontarlo. E, come sempre in questi casi, alcuni esperti o sedicenti tali riescono ad assicurarsi il favore del monarca, che, come ai tempi delle dispute religiose che dividevano la cristianità, prende partito secondo i propri interessi per una corrente o per l’altra e impone le sue misure.
Un’altra cosa che dà da pensare è l’evidente crollo di ogni convinzione e fede comune. Si direbbe che gli uomini non credono più a nulla – tranne che alla nuda esistenza biologica che occorre a qualunque costo salvare. Ma sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata.
Per questo – una volta che l’emergenza, la peste, sarà dichiarata finita, se lo sarà – non credo che, almeno per chi ha conservato un minimo di lucidità, sarà possibile tornare a vivere come prima. E questa è forse oggi la cosa più disperante – anche se, com’è stato detto, «solo per chi non ha più speranza è stata data la speranza».
27 marzo 2020
Giorgio Agamben
Potete confrontare le idee di D'Eramo anche con altri due interessantissimi articoli sulla shock economy:
di MARCO D'ERAMO
Il coronavirus viene utilizzato per stringere la morsa del dominio e del controllo, certo. Ma se Agamben fosse marxista oltre che schmittiano vedrebbe che gli stessi dominanti stanno subendo una crisi senza precedenti.
Giorgio Agamben ha insieme torto e ragione, o, per meglio dire, tanto torto e un po’ di ragione.
Ha torto semplicemente perché i fatti lo stanno smentendo: anche i filosofi muoiono di contagio e Hegel perì di colera. Un vero filosofo può anche cambiare opinione quando i fatti cambiano: quel che era possibile affermare il 26 febbraio, non è più dicibile il 17 marzo.
Ha un po’ di ragione perché non possiamo fare i finti tonti e sappiamo che i dominanti usano ogni occasione per rafforzare il proprio dominio, anche – soprattutto – in situazioni di crisi acuta (o di guerra). Che il coronavirus sia usato per rafforzare la sorveglianza sui cittadini non lo scopre Agamben, l’evidenza è già stata schiacciante altrove, se fossimo più attenti. In Corea del sud è successo un putiferio perché il governo usava i cellulari per tracciare i possibili contatti che i singoli cittadini avevano avuto con singoli contagiati, sconvolgendo la vita di varie famiglie, svelando altarini, adulteri e altre amenità. In Israele è il Mossad che vuol replicare quest’uso dei cellulari (d’altronde in tutto il mondo i servizi segreti non avevano atteso le epidemie per tracciare i telefonini). In Cina il governo ha usato il virus per moltiplicare gli apparati di videosorveglianza e videoriconoscimento facciale. E Agamben non è il primo a sostenere che uno degli obiettivi del dominio è di isolare i dominati. Già Guy Debord scriveva che l’utopia urbanistica capitalistica era quella di “isolarci insieme”.
Affermare però che i dominanti sfruttano ogni occasione per rafforzare il proprio potere di controllo e sorveglianza, non implica che dobbiamo ricorrere a dietrologie, teorie complottistiche, disegni oscuri: perché l’amministrazione Bush sfruttasse l’11 settembre per decretare l’infame Patriot Act che ha posto tutto il pianeta alla mercede dei sequestri statunitensi clandestini (extraordinary renditons), non c’è stato bisogno che le Twin Towers fossero state abbattute dagli americani stessi: bastava che i Cheney e i Rumsfeld sfruttassero l’occasione insperata che gli era stata offerta. Così, che alla fine di questa crisi i poteri di sorveglianza dei governi risultino decuplicati, non vuol dire che il contagio non sia reale, mortifero e incredibilmente distruttivo.
Ma, questo è il punto, il dominio non è unidimensionale. Non è solo controllo e sorveglianza. È anche sfruttamento e prelievo. E dove Agamben ha perfettamente torto è quando non vede con quanta riluttanza i dominanti stiano accettando che i loro affari (compagnie aeree, imprese edilizie, fabbriche automobilistiche, circuiti turistici, produzioni cinematografiche: in breve, tutto) vadano in malora. Che intere fortune vadano in bancarotta. Con questa immissione di fantascientifiche quantità di liquidità è in atto una gigantesca distruzione di capitale (visto che questa moneta emessa non corrisponde a nessun controvalore reale), simile a quella che avviene in una guerra. Solo che la guerra distrugge non solo capitale finanziario, ma anche capitale materiale: cioè infrastrutture, fabbriche, ponti, porti, stazioni, aeroporti, edifici. In modo tale che dopo la guerra si passa alla ricostruzione. Ed è questa ricostruzione che innesca la ripartenza economica. Invece l’epidemia attuale somiglia molto di più a una bomba al neutrino, che uccide gli umani e lascia intatti edifici, strade, fabbriche. Per cui quando l’epidemia sarà finita non ci sarà nulla (o molto poco) da ricostruire. E questo costituirà un problema micidiale.
È la dimensione economica del dominio (un po’ di Marx, oltre che di Schmitt, non farebbe male ad Agamben), è il danno che quest’epidemia arreca alla dimensione finanziaria del dominio a spiegare l’estrema riluttanza, di cui parlava Paolo Flores d'Arcais, con cui tutti i governi hanno preso misure d’isolamento e di quarantena. Quindi sì, l’epidemia sarà sfruttata per rendere controllo e sorveglianza ancora più capillari; sì, l’epidemia è usata come esperimento in tempo reale di disciplinamento senza precedenti della società, ma tutto questo avviene ex post e a malincuore: chi ci vuole sorvegliare e controllare avrebbe di gran lunga preferito farlo con mezzi meno dispendiosi per sé e per la propria classe.
PS. E poi, se mi posso permettere, il tono oracolare andava bene a D’Annunzio, non a un filosofo: questo lirismo sul contatto/metaforicamente-contagio è francamente fuori luogo quando persone in carne e ossa muoiono sole, abbandonate, isolate dai propri cari senza funerale.
(25 marzo 2020)
Ma Agamben insiste...
Le riflessioni che seguono non riguardano l’epidemia, ma ciò che possiamo capire dalle reazioni degli uomini ad essa. Si tratta, cioè, di riflettere sulla facilità con cui un’intera società ha accettato di sentirsi appestata, di isolarsi in casa e di sospendere le sue normali condizioni di vita, i suoi rapporti di lavoro, di amicizia, di amore e perfino le sue convinzioni religiose e politiche. Perché non ci sono state, come pure era possibile immaginare e come di solito avviene in questi casi, proteste e opposizioni? L’ipotesi che vorrei suggerire è che in qualche modo, sia pure inconsapevolmente, la peste c’era già, che, evidentemente, le condizioni di vita della gente erano diventate tali, che è bastato un segno improvviso perché esse apparissero per quello che erano – cioè intollerabili, come una peste appunto. E questo, in un certo senso, è il solo dato positivo che si possa trarre dalla situazione presente: è possibile che, più tardi, la gente cominci a chiedersi se il modo in cui viveva era giusto.
E ciò su cui occorre non meno riflettere è il bisogno di religione che la situazione fa apparire. Ne è indizio, nel discorso martellante dei media, la terminologia presa in prestito dal vocabolario escatologico che, per descrivere il fenomeno, ricorre ossessivamente, soprattutto sulla stampa americana, alla parola «apocalisse» e evoca, spesso esplicitamente, la fine del mondo. È come se il bisogno religioso, che la Chiesa non è più in grado di soddisfare, cercasse a tastoni un altro luogo in cui consistere e lo trovasse in quella che è ormai di fatto diventata la religione del nostro tempo: la scienza. Questa, come ogni religione, può produrre superstizione e paura o, comunque, essere usata per diffonderle. Mai come oggi si è assistito allo spettacolo, tipico delle religioni nei momenti di crisi, di pareri e prescrizioni diversi e contraddittori, che vanno dalla posizione eretica minoritaria (pure rappresentata da scienziati prestigiosi) di chi nega la gravità del fenomeno al discorso ortodosso dominante che l’afferma e, tuttavia, diverge spesso radicalmente quanto alle modalità di affrontarlo. E, come sempre in questi casi, alcuni esperti o sedicenti tali riescono ad assicurarsi il favore del monarca, che, come ai tempi delle dispute religiose che dividevano la cristianità, prende partito secondo i propri interessi per una corrente o per l’altra e impone le sue misure.
Un’altra cosa che dà da pensare è l’evidente crollo di ogni convinzione e fede comune. Si direbbe che gli uomini non credono più a nulla – tranne che alla nuda esistenza biologica che occorre a qualunque costo salvare. Ma sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata.
Per questo – una volta che l’emergenza, la peste, sarà dichiarata finita, se lo sarà – non credo che, almeno per chi ha conservato un minimo di lucidità, sarà possibile tornare a vivere come prima. E questa è forse oggi la cosa più disperante – anche se, com’è stato detto, «solo per chi non ha più speranza è stata data la speranza».
27 marzo 2020
Giorgio Agamben
Potete confrontare le idee di D'Eramo anche con altri due interessantissimi articoli sulla shock economy:
E poi questo
poi c'è sempre l'ineffabile e inguaribilmente ottimista infogameico Baricco:
Virus, è arrivato il momento
dell'audacia
25
MARZO 2020
Con
la prudenza ci stiamo dando un sacco da fare. Ora dobbiamo passare
ad altro: pensare, capire, leggere il caos e prendersi il rischio di
dare a tutti qualche certezza: questo è il mestiere degli
intellettuali. Le riflessioni dell'autore del Game in undici punti
DI ALESSANDRO BARICCO
Devo averla già
raccontata, ma è il momento di ripeterla. Viene da un bel romanzo
svedese. C'è la regina che decide di imparare ad andare a cavallo.
Monta in sella. Poi chiede sprezzante al maestro d'equitazione se ci
sono della regole. Ed ecco cosa risponde lui: "Prima regola,
prudenza. Seconda, audacia".
Bene, direi che con la prudenza ci stiamo dando un sacco da fare. Possiamo passare all'audacia. Dobbiamo passare all'audacia.
Se sei un medico, non so cosa possa voler dire essere audaci in questo momento, quindi non mi permetto di dare suggerimenti. Però so esattamente cosa significhi essere audaci, in questo momento, per gli intellettuali: mettere da parte la tristezza, e pensare: cioè capire, leggere il caos, inventariare i mostri mai visti, dare nomi a fenomeni mai vissuti, guardare negli occhi verità schifose e, dopo che hai fatto tutto questo, prenderti il rischio micidiale di dare a tutti qualche certezza. Al lavoro dunque, ognuno nella misura delle sue possibilità e del suo talento. Io in questo momento non sono particolarmente in forma, ma niente mi impedirà di scrivere qui alcune cose che so. È il mio mestiere.
1. Il mondo non finirà. Né ci ritroveremo in una situazione di anarchia in cui comanderà quello che alle elementari stava all'ultimo banco, non capiva una fava però era grosso e ci godeva a menarti. Sveglia, quelli sono romanzi. Torniamo in noi. E noi - noi umani - siamo una specie di agghiacciante pazienza, intelligenza e forza: siamo gente che è riuscita a convertire il creato nel proprio parco di divertimenti grazie a una delle operazioni più violente e ciniche che si potessero immaginare; non solo, ne siamo anche consapevoli: abbiamo dato un nome al bottino di una simile razzia, antropocene, e siamo arrivati ad essere talmente sicuri di noi stessi da iniziare a pensare recentemente di restituire a parte del creato una sua libertà. Siamo quelli lì. Da sempre combattiamo con i virus. Spesso ci hanno messo in ginocchio. Si dà il caso però che in quella posizione scomoda diventiamo ancora più pazienti, cocciuti e furbi.
2. Stiamo facendo pace col Game, con la civiltà digitale: l'abbiamo fondata, poi abbiamo iniziato a odiarla e adesso stiamo facendo pace con lei. La gente, a tutti i livelli, sta maturando un senso di fiducia, consuetudine e gratitudine per gli strumenti digitali che si depositerà sul comune sentire e non se ne andrà più. Una delle utopie portanti della rivoluzione digitale era che gli strumenti digitali diventassero un'estensione quasi biologica dei nostri corpi e non delle protesi artificiali che limitavano il nostro essere umani: l'utopia sta diventando prassi quotidiana. In poche settimane copriremo un ritardo che stavamo cumulando per eccesso di nostalgia, timore, sospetto o semplice fighetteria intellettuale. Ci ritroveremo tra le mani una civiltà amica che riusciremo meglio a correggere perché lo faremo senza risentimento.
3. Chiunque si è accorto di come gli manchino terribilmente, in questi giorni, i rapporti umani non digitali. Capovolgete questa certezza: vuol dire che ne avevamo un sacco, di rapporti umani. Mentre dicevamo cose tipo "ormai la nostra vita passa tutta dai device digitali", quello che facevamo era ammassare una quantità indicibile di rapporti umani. Ce ne accorgiamo adesso, ed è come un risveglio da un piccolo passaggio a vuoto dell'intelligenza. Non dimenticate la lezione, per favore. Anzi, aggiungetene un'altra: tutto questo ci sta insegnando che più lasceremo srotolare la civiltà digitale più assumerà valore, bellezza, importanza e perfino valore economico tutto ciò che ci manterrà umani: corpi, voci naturali, sporcizie fisiche, imperfezioni, abilità delle mani, contatti, fatiche, vicinanze, carezze, temperature, risate e lacrime vere, parole non scritte, e potrei andare avanti per righe e righe. L'umanesimo diventerà la nostra prassi quotidiana e l'unica vera ricchezza: non sarà una disciplina di studi, sarà uno spazio del fare che non ci lasceremo mai rubare. Guardate la furia con cui lo desideriamo ora che un virus l'ha preso in ostaggio, e vi passerà ogni dubbio.
4. Una crepa che sembrava essersi aperta come una voragine, e che ci stava facendo soffrire, si è chiusa in una settimana: quella che aveva separato la gente dalle élites. In pochi giorni, la gente si è allineata, a prezzo di sacrifici inimmaginabili e in fondo con grande disciplina, alle indicazioni date da una classe politica in cui non riponeva alcuna fiducia e in una classe di medici a cui fino al giorno prima stentava a riconoscere una vera autorità anche su questioni più semplici, tipo quella dei vaccini. Una classe dirigente che non sarebbe mai riuscita a fare una riforma della scuola è riuscita a chiudere in casa un intero Paese. Cosa diavolo è successo? La paura, si dirà: e va bene. Ma non è solo quello. C'è qualcosa di più, qualcosa che ci aiuta a capirci meglio: nonostante le apparenze, noi crediamo nell'intelligenza e nella competenza, desideriamo qualcuno in grado di guidarci, siamo in grado di cambiare la nostra vita sulla base delle indicazioni di qualcuno che la sa più lunga di noi. La nostra rivolta contro le élites è temporaneamente sospesa, ma questo ci può aiutare a capirla meglio: noi crediamo nell'intelligenza, ma non più in quella dei padri; vogliamo la competenza ma non quella novecentesca; abbiamo bisogno di qualcuno che decida per noi, ma ci siamo immaginati che non venga da una casta imbambolata da se stessa, stanca e incapace di rigenerarsi. Riassumo. Volevamo una nuova classe dirigente, continuiamo a volerla: possiamo aspettare, adesso non è il momento di fare casino. Ma ricominceremo a volerla il giorno stesso in cui questa emergenza si ricomporrà.
5. È probabile che l'emergenza Covid 19 finirà per rivelarsi come un crinale storico di immensa importanza. Provo a dirla così: è la prima emergenza planetaria generata dall'epoca del Game, della rivoluzione digitale, e l'ultima emergenza planetaria che sarà gestita da un'élite e da un'intelligenza di tipo novecentesco. Lo vedete il crinale? La vedete la contraddizione? Capite perché in questo momento capiamo poco, fatichiamo molto, ci smarriamo facilmente? Ci hanno sfidato a un videogame, e noi abbiamo mandato a combattere degli scacchisti. Siamo esattamente in bilico tra un mondo e l'altro. È una posizione scomodissima. Dovete rendervi conto che anche solo senza smartphone, l'ottanta per cento di quello che vi vedete accadere attorno non sarebbe successo (flusso di informazioni, costruzione di storytelling, maree di paura che vanno e vengono, sopravvivenza in situazione di lockdown quasi totale, velocità delle decisioni....): e tuttavia la gestione di tutto questo è in mano, inevitabilmente, a una razionalità novecentesca. Faccio un caso pratico, così ci capiamo. Il Novecento aveva il culto dello specialista. Un uomo che, dopo una vita di studi, sa moltissimo di una cosa. L'intelligenza del Game è diversa: dato che sa di avere a che fare con una realtà molto fluida e complessa, privilegia un altro tipo di sapiente: quello che sa abbastanza di tutto. Oppure fa lavorare insieme competenze diverse. Non lascerebbe mai dei medici, da soli, a dettare la linea di una risposta a un'emergenza medica: gli metterebbe di fianco, subito, un matematico, un ingegnere, un mercante, uno psicologo e tutto quello che sembrerà opportuno. Anche un clown, se serve. Probabilmente agirebbero con un solo imperativo: velocità. E con una singolare metodologia: sbagliare in fretta, fermarsi mai, provare tutto. Attualmente, invece, il nostro procedere segue altre strade. Ci guida, nel modo migliore possibile, un'élite che, per preparazione e appartenenza generazionale, usa la tecnologia digitale ma non la razionalità digitale. Non possiamo certo fargliene una colpa. Ma questo è il momento di capire che se molto di quello che vi circonda stamattina vi sembra assurdo, una delle ragioni è questa. Grandi Maestri di scacchi che giocano a Fortnite (vinceranno, ma capite che lo stile di gioco alle volte vi sembrerà piuttosto surreale).
6. Rimanete a casa, perdìo. Lo devo ripetere? Ok, lo ripeto.
7. Rimanete a casa, perdìo. Con tutto quel che c'è da leggere...
8. L'emergenza Covid 19 ha reso di un'evidenza solare un fenomeno che vagamente intuivamo, ma non sempre accettavamo: da tempo, ormai, a dettare l'agenda degli umani è la paura. Abbiamo bisogno di una quota giornaliera di paura per entrare in azione. Adesso il virus copre il nostro intero fabbisogno, e infatti chi è più spaventato dagli immigrati o dal terrorismo o da Salvini o dagli effetti dei videogame sui figli o dal glutine? Ma anche solo venti giorni fa ne avevamo una gran bisogno, di quelle paure. Le coltivavamo come orchidee. In alcuni momenti di carestia ci siamo fatti bastare un'emergenza meteo o una possibile crisi di governo (capirai). Sappiamo ormai giocare solo coi pezzi neri: se prima la paura non muove, noi non abbiamo strategia. Volevo invece ricordare - e farlo proprio in questi giorni - che noi siamo vivi per realizzare delle idee, costruire qualche paradiso, migliorare i nostri gesti, capire una cosa di più al giorno, e completare, con un certo gusto magari, la creazione. Cosa c'entra la paura? La nostra agenda dovrebbe essere dettata dalla voglia, non dalla paura. Dai desideri. Dalle visioni, santo cielo, non dagli incubi.
9. (Questa è delicata. Astenersi perditempo). A nessuno sfugge, in questi giorni, il dubbio di una certa sproporzione tra il rischio reale e le misure per affrontarlo. Ce la possono spiegare come vogliono, ma la sensazione resta: una certa sproporzione. Non voglio infilarmi in quei paragoni che poi ti portano a raffrontare i morti di Covid 19 con quelli causati dal diabete o dalla scivolosità della cera da pavimenti. Ma resta, ineliminabile, il dubbio che da qualche parte stiamo scontando una certa incapacità a trovare una proporzione aurea tra l'entità del rischio e l'entità delle contromisure. In parte la possiamo sicuramente mettere in conto a quell'intelligenza là, quella novecentesca, alle sue logiche, alla sua scarsa flessibilità, alla sua adorazione per lo specialismo. Tuttavia la faccenda non si risolve lì. Se io cerco di guardare dentro quella sproporzione che tanto ci infastidisce e interroga, alla fine trovo qualcosa che adesso è dura da dire, ma come dicevo è il momento dell'audacia, quindi bisogna dirla. C'è un'inerzia collettiva, dentro a quella apparente sproporzione, un sentimento collettivo che tutti contribuiamo a costruire: abbiamo troppa paura di morire. È come se il diritto alla salute (una fantastica conquista) si fosse irrigidito in un impossibile diritto a una vita perenne, che d'altronde nessuno ci può assicurare. Ora, il rapporto con la morte, e con la paura della morte, è una cosa innanzitutto individuale, una faccenda che ognuno si gestisce da sé (io per esempio me la cavo da schifo). Ma in seconda battuta la paura della morte è anche un sentimento collettivo che le comunità degli umani sono da sempre attente a edificare, limare, correggere, controllare. Per dire, la civiltà di mio nonno, che ancora aveva bisogno delle guerre per mantenersi in vita, stava attenta a tenere alta una certa "capacità di morte". Noi siamo una civiltà che ha scelto la pace (in linea di massima) e dunque abbiamo smesso di coltivare una collettiva abitudine a pensare la morte. Come comunità la combattiamo, ma non la pensiamo. Invece, la meraviglia di una civiltà di pace sarebbe proprio riuscire a pensare la morte di nuovo, e accettarla, non con coraggio, con saggezza; non come un'offesa indicibile ma come un movimento del nostro respiro, una semplice inflessione del nostro andare, forse la cresta di un'onda che siamo e che non smetteremo mai di essere. Non è che un individuo da solo, possa arrivare spesso a certe leggerezza di sentire: ma una comunità sì, lo può fare. Delle comunità, in passato, sono state capaci di portare a morire milioni dei loro figli per un ideale, bello o aberrante che fosse: perché una comunità non dovrebbe essere capace di portare tutti i suoi figli a capire che il primo modo di morire è avere troppa paura di farlo?
10. Molti si chiedono cosa accadrà dopo. Una cosa possibile, mi tocca registrarlo, è che non ci sarà un dopo. Non nel senso che moriremo tutti, no, ovviamente no, l'ho già detto. Ma in questo senso: ci stiamo accorgendo che solo nelle situazioni di emergenza il sistema torna a funzionare bene. Il patto tra gente e le élites si rinsalda, una certa disciplina sociale viene ristabilita, ogni individuo si sente responsabilizzato, si forma una solidarietà diffusa, cala il livello di litigiosità, ecc., ecc. Insomma, per quanto possa sembrare assurdo, la macchina smette di perdere i pezzi quando supera i duecento chilometri orari. Quindi è possibile che si scelga, in effetti, di non scendere più sotto quella velocità: l'emergenza come scenario cronico di tutto il nostro futuro. In questo senso il caso Covid 19 ha tutta l'aria di essere la grande prova generale per il prossimo livello del gioco, la missione finale: salvare il pianeta. L'emergenza totale, cronica, lunghissima, in cui tutto tornerà a funzionare. Non so dire francamente se sia uno scenario augurabile, ma non posso negare che una sua razionalità ce l'ha. E anche abbastanza coerente con l'intelligenza del Game, che resta un'intelligenza vagamente tossica, che ha bisogno di stimoli ripetuti e intensi, che dà il meglio di sé in un clima di sfida, e che tutto sommato è stato inventata da dei problem solver, non da dei poeti.
11. Ultima. Non me ne intendo, ma ci vuol poco a capire che tutto quello che sta succedendo ci costerà un mucchio di soldi. Molto peggio della crisi economica del 2009, a fiuto. Vorrei dire una cosa: sarà un'opportunità enorme, storica. Se c'è un momento in cui sarà possibile redistribuire la ricchezza e riportare le diseguaglianze sociali a un livello sopportabile e degno, quel momento sta arrivando. Ai livelli di diseguaglianza sociale su cui siamo attualmente attestati, nessuna comunità è una comunità: fa finta di esserlo, ma non lo è. E' un problema che mina alla base la salute del nostro sistema, che sbugiarda qualsiasi nostra ipotetica felicità e che si divora qualsiasi nostra credibilità, come un cancro. La difficoltà è che certe cose non si riformano, non si ottengono con un graduale, farmaceutico miglioramento, non si migliorano un tantino al giorno, a piccole dosi. Certe cose cambiano con un movimento di torsione violento, che fa male, e che non pensavi di poter fare. Certe cose cambiano per uno choc gestito bene, per una qualche crisi convertita in rinascita, per un terremoto vissuto senza tremare. Lo choc è arrivato, la crisi la stiamo soffrendo, il terremoto non è ancora passato. I pezzi ci sono tutti, sulla scacchiera, fanno tutti male, ma ci sono: c'è una partita che ci aspetta da un sacco di tempo. Che sciocchezza imperdonabile sarebbe avere paura di giocarla.
Bene, direi che con la prudenza ci stiamo dando un sacco da fare. Possiamo passare all'audacia. Dobbiamo passare all'audacia.
Se sei un medico, non so cosa possa voler dire essere audaci in questo momento, quindi non mi permetto di dare suggerimenti. Però so esattamente cosa significhi essere audaci, in questo momento, per gli intellettuali: mettere da parte la tristezza, e pensare: cioè capire, leggere il caos, inventariare i mostri mai visti, dare nomi a fenomeni mai vissuti, guardare negli occhi verità schifose e, dopo che hai fatto tutto questo, prenderti il rischio micidiale di dare a tutti qualche certezza. Al lavoro dunque, ognuno nella misura delle sue possibilità e del suo talento. Io in questo momento non sono particolarmente in forma, ma niente mi impedirà di scrivere qui alcune cose che so. È il mio mestiere.
1. Il mondo non finirà. Né ci ritroveremo in una situazione di anarchia in cui comanderà quello che alle elementari stava all'ultimo banco, non capiva una fava però era grosso e ci godeva a menarti. Sveglia, quelli sono romanzi. Torniamo in noi. E noi - noi umani - siamo una specie di agghiacciante pazienza, intelligenza e forza: siamo gente che è riuscita a convertire il creato nel proprio parco di divertimenti grazie a una delle operazioni più violente e ciniche che si potessero immaginare; non solo, ne siamo anche consapevoli: abbiamo dato un nome al bottino di una simile razzia, antropocene, e siamo arrivati ad essere talmente sicuri di noi stessi da iniziare a pensare recentemente di restituire a parte del creato una sua libertà. Siamo quelli lì. Da sempre combattiamo con i virus. Spesso ci hanno messo in ginocchio. Si dà il caso però che in quella posizione scomoda diventiamo ancora più pazienti, cocciuti e furbi.
2. Stiamo facendo pace col Game, con la civiltà digitale: l'abbiamo fondata, poi abbiamo iniziato a odiarla e adesso stiamo facendo pace con lei. La gente, a tutti i livelli, sta maturando un senso di fiducia, consuetudine e gratitudine per gli strumenti digitali che si depositerà sul comune sentire e non se ne andrà più. Una delle utopie portanti della rivoluzione digitale era che gli strumenti digitali diventassero un'estensione quasi biologica dei nostri corpi e non delle protesi artificiali che limitavano il nostro essere umani: l'utopia sta diventando prassi quotidiana. In poche settimane copriremo un ritardo che stavamo cumulando per eccesso di nostalgia, timore, sospetto o semplice fighetteria intellettuale. Ci ritroveremo tra le mani una civiltà amica che riusciremo meglio a correggere perché lo faremo senza risentimento.
3. Chiunque si è accorto di come gli manchino terribilmente, in questi giorni, i rapporti umani non digitali. Capovolgete questa certezza: vuol dire che ne avevamo un sacco, di rapporti umani. Mentre dicevamo cose tipo "ormai la nostra vita passa tutta dai device digitali", quello che facevamo era ammassare una quantità indicibile di rapporti umani. Ce ne accorgiamo adesso, ed è come un risveglio da un piccolo passaggio a vuoto dell'intelligenza. Non dimenticate la lezione, per favore. Anzi, aggiungetene un'altra: tutto questo ci sta insegnando che più lasceremo srotolare la civiltà digitale più assumerà valore, bellezza, importanza e perfino valore economico tutto ciò che ci manterrà umani: corpi, voci naturali, sporcizie fisiche, imperfezioni, abilità delle mani, contatti, fatiche, vicinanze, carezze, temperature, risate e lacrime vere, parole non scritte, e potrei andare avanti per righe e righe. L'umanesimo diventerà la nostra prassi quotidiana e l'unica vera ricchezza: non sarà una disciplina di studi, sarà uno spazio del fare che non ci lasceremo mai rubare. Guardate la furia con cui lo desideriamo ora che un virus l'ha preso in ostaggio, e vi passerà ogni dubbio.
4. Una crepa che sembrava essersi aperta come una voragine, e che ci stava facendo soffrire, si è chiusa in una settimana: quella che aveva separato la gente dalle élites. In pochi giorni, la gente si è allineata, a prezzo di sacrifici inimmaginabili e in fondo con grande disciplina, alle indicazioni date da una classe politica in cui non riponeva alcuna fiducia e in una classe di medici a cui fino al giorno prima stentava a riconoscere una vera autorità anche su questioni più semplici, tipo quella dei vaccini. Una classe dirigente che non sarebbe mai riuscita a fare una riforma della scuola è riuscita a chiudere in casa un intero Paese. Cosa diavolo è successo? La paura, si dirà: e va bene. Ma non è solo quello. C'è qualcosa di più, qualcosa che ci aiuta a capirci meglio: nonostante le apparenze, noi crediamo nell'intelligenza e nella competenza, desideriamo qualcuno in grado di guidarci, siamo in grado di cambiare la nostra vita sulla base delle indicazioni di qualcuno che la sa più lunga di noi. La nostra rivolta contro le élites è temporaneamente sospesa, ma questo ci può aiutare a capirla meglio: noi crediamo nell'intelligenza, ma non più in quella dei padri; vogliamo la competenza ma non quella novecentesca; abbiamo bisogno di qualcuno che decida per noi, ma ci siamo immaginati che non venga da una casta imbambolata da se stessa, stanca e incapace di rigenerarsi. Riassumo. Volevamo una nuova classe dirigente, continuiamo a volerla: possiamo aspettare, adesso non è il momento di fare casino. Ma ricominceremo a volerla il giorno stesso in cui questa emergenza si ricomporrà.
5. È probabile che l'emergenza Covid 19 finirà per rivelarsi come un crinale storico di immensa importanza. Provo a dirla così: è la prima emergenza planetaria generata dall'epoca del Game, della rivoluzione digitale, e l'ultima emergenza planetaria che sarà gestita da un'élite e da un'intelligenza di tipo novecentesco. Lo vedete il crinale? La vedete la contraddizione? Capite perché in questo momento capiamo poco, fatichiamo molto, ci smarriamo facilmente? Ci hanno sfidato a un videogame, e noi abbiamo mandato a combattere degli scacchisti. Siamo esattamente in bilico tra un mondo e l'altro. È una posizione scomodissima. Dovete rendervi conto che anche solo senza smartphone, l'ottanta per cento di quello che vi vedete accadere attorno non sarebbe successo (flusso di informazioni, costruzione di storytelling, maree di paura che vanno e vengono, sopravvivenza in situazione di lockdown quasi totale, velocità delle decisioni....): e tuttavia la gestione di tutto questo è in mano, inevitabilmente, a una razionalità novecentesca. Faccio un caso pratico, così ci capiamo. Il Novecento aveva il culto dello specialista. Un uomo che, dopo una vita di studi, sa moltissimo di una cosa. L'intelligenza del Game è diversa: dato che sa di avere a che fare con una realtà molto fluida e complessa, privilegia un altro tipo di sapiente: quello che sa abbastanza di tutto. Oppure fa lavorare insieme competenze diverse. Non lascerebbe mai dei medici, da soli, a dettare la linea di una risposta a un'emergenza medica: gli metterebbe di fianco, subito, un matematico, un ingegnere, un mercante, uno psicologo e tutto quello che sembrerà opportuno. Anche un clown, se serve. Probabilmente agirebbero con un solo imperativo: velocità. E con una singolare metodologia: sbagliare in fretta, fermarsi mai, provare tutto. Attualmente, invece, il nostro procedere segue altre strade. Ci guida, nel modo migliore possibile, un'élite che, per preparazione e appartenenza generazionale, usa la tecnologia digitale ma non la razionalità digitale. Non possiamo certo fargliene una colpa. Ma questo è il momento di capire che se molto di quello che vi circonda stamattina vi sembra assurdo, una delle ragioni è questa. Grandi Maestri di scacchi che giocano a Fortnite (vinceranno, ma capite che lo stile di gioco alle volte vi sembrerà piuttosto surreale).
6. Rimanete a casa, perdìo. Lo devo ripetere? Ok, lo ripeto.
7. Rimanete a casa, perdìo. Con tutto quel che c'è da leggere...
8. L'emergenza Covid 19 ha reso di un'evidenza solare un fenomeno che vagamente intuivamo, ma non sempre accettavamo: da tempo, ormai, a dettare l'agenda degli umani è la paura. Abbiamo bisogno di una quota giornaliera di paura per entrare in azione. Adesso il virus copre il nostro intero fabbisogno, e infatti chi è più spaventato dagli immigrati o dal terrorismo o da Salvini o dagli effetti dei videogame sui figli o dal glutine? Ma anche solo venti giorni fa ne avevamo una gran bisogno, di quelle paure. Le coltivavamo come orchidee. In alcuni momenti di carestia ci siamo fatti bastare un'emergenza meteo o una possibile crisi di governo (capirai). Sappiamo ormai giocare solo coi pezzi neri: se prima la paura non muove, noi non abbiamo strategia. Volevo invece ricordare - e farlo proprio in questi giorni - che noi siamo vivi per realizzare delle idee, costruire qualche paradiso, migliorare i nostri gesti, capire una cosa di più al giorno, e completare, con un certo gusto magari, la creazione. Cosa c'entra la paura? La nostra agenda dovrebbe essere dettata dalla voglia, non dalla paura. Dai desideri. Dalle visioni, santo cielo, non dagli incubi.
9. (Questa è delicata. Astenersi perditempo). A nessuno sfugge, in questi giorni, il dubbio di una certa sproporzione tra il rischio reale e le misure per affrontarlo. Ce la possono spiegare come vogliono, ma la sensazione resta: una certa sproporzione. Non voglio infilarmi in quei paragoni che poi ti portano a raffrontare i morti di Covid 19 con quelli causati dal diabete o dalla scivolosità della cera da pavimenti. Ma resta, ineliminabile, il dubbio che da qualche parte stiamo scontando una certa incapacità a trovare una proporzione aurea tra l'entità del rischio e l'entità delle contromisure. In parte la possiamo sicuramente mettere in conto a quell'intelligenza là, quella novecentesca, alle sue logiche, alla sua scarsa flessibilità, alla sua adorazione per lo specialismo. Tuttavia la faccenda non si risolve lì. Se io cerco di guardare dentro quella sproporzione che tanto ci infastidisce e interroga, alla fine trovo qualcosa che adesso è dura da dire, ma come dicevo è il momento dell'audacia, quindi bisogna dirla. C'è un'inerzia collettiva, dentro a quella apparente sproporzione, un sentimento collettivo che tutti contribuiamo a costruire: abbiamo troppa paura di morire. È come se il diritto alla salute (una fantastica conquista) si fosse irrigidito in un impossibile diritto a una vita perenne, che d'altronde nessuno ci può assicurare. Ora, il rapporto con la morte, e con la paura della morte, è una cosa innanzitutto individuale, una faccenda che ognuno si gestisce da sé (io per esempio me la cavo da schifo). Ma in seconda battuta la paura della morte è anche un sentimento collettivo che le comunità degli umani sono da sempre attente a edificare, limare, correggere, controllare. Per dire, la civiltà di mio nonno, che ancora aveva bisogno delle guerre per mantenersi in vita, stava attenta a tenere alta una certa "capacità di morte". Noi siamo una civiltà che ha scelto la pace (in linea di massima) e dunque abbiamo smesso di coltivare una collettiva abitudine a pensare la morte. Come comunità la combattiamo, ma non la pensiamo. Invece, la meraviglia di una civiltà di pace sarebbe proprio riuscire a pensare la morte di nuovo, e accettarla, non con coraggio, con saggezza; non come un'offesa indicibile ma come un movimento del nostro respiro, una semplice inflessione del nostro andare, forse la cresta di un'onda che siamo e che non smetteremo mai di essere. Non è che un individuo da solo, possa arrivare spesso a certe leggerezza di sentire: ma una comunità sì, lo può fare. Delle comunità, in passato, sono state capaci di portare a morire milioni dei loro figli per un ideale, bello o aberrante che fosse: perché una comunità non dovrebbe essere capace di portare tutti i suoi figli a capire che il primo modo di morire è avere troppa paura di farlo?
10. Molti si chiedono cosa accadrà dopo. Una cosa possibile, mi tocca registrarlo, è che non ci sarà un dopo. Non nel senso che moriremo tutti, no, ovviamente no, l'ho già detto. Ma in questo senso: ci stiamo accorgendo che solo nelle situazioni di emergenza il sistema torna a funzionare bene. Il patto tra gente e le élites si rinsalda, una certa disciplina sociale viene ristabilita, ogni individuo si sente responsabilizzato, si forma una solidarietà diffusa, cala il livello di litigiosità, ecc., ecc. Insomma, per quanto possa sembrare assurdo, la macchina smette di perdere i pezzi quando supera i duecento chilometri orari. Quindi è possibile che si scelga, in effetti, di non scendere più sotto quella velocità: l'emergenza come scenario cronico di tutto il nostro futuro. In questo senso il caso Covid 19 ha tutta l'aria di essere la grande prova generale per il prossimo livello del gioco, la missione finale: salvare il pianeta. L'emergenza totale, cronica, lunghissima, in cui tutto tornerà a funzionare. Non so dire francamente se sia uno scenario augurabile, ma non posso negare che una sua razionalità ce l'ha. E anche abbastanza coerente con l'intelligenza del Game, che resta un'intelligenza vagamente tossica, che ha bisogno di stimoli ripetuti e intensi, che dà il meglio di sé in un clima di sfida, e che tutto sommato è stato inventata da dei problem solver, non da dei poeti.
11. Ultima. Non me ne intendo, ma ci vuol poco a capire che tutto quello che sta succedendo ci costerà un mucchio di soldi. Molto peggio della crisi economica del 2009, a fiuto. Vorrei dire una cosa: sarà un'opportunità enorme, storica. Se c'è un momento in cui sarà possibile redistribuire la ricchezza e riportare le diseguaglianze sociali a un livello sopportabile e degno, quel momento sta arrivando. Ai livelli di diseguaglianza sociale su cui siamo attualmente attestati, nessuna comunità è una comunità: fa finta di esserlo, ma non lo è. E' un problema che mina alla base la salute del nostro sistema, che sbugiarda qualsiasi nostra ipotetica felicità e che si divora qualsiasi nostra credibilità, come un cancro. La difficoltà è che certe cose non si riformano, non si ottengono con un graduale, farmaceutico miglioramento, non si migliorano un tantino al giorno, a piccole dosi. Certe cose cambiano con un movimento di torsione violento, che fa male, e che non pensavi di poter fare. Certe cose cambiano per uno choc gestito bene, per una qualche crisi convertita in rinascita, per un terremoto vissuto senza tremare. Lo choc è arrivato, la crisi la stiamo soffrendo, il terremoto non è ancora passato. I pezzi ci sono tutti, sulla scacchiera, fanno tutti male, ma ci sono: c'è una partita che ci aspetta da un sacco di tempo. Che sciocchezza imperdonabile sarebbe avere paura di giocarla.
E, per finire, se non l'avete vista, cercatevi la puntata di Indovina chi viene a cena? di domenica scorsa su Rai3: finalmente un pò di verità sulle zoonosi, i virus che fanno i salti di specie e che ci perseguiteranno sino a quando continueremo a sconvolgere la natura e ad estinguere la fauna selvatica...(cioè, da sempre, e -quindi- per sempre).
Ed una bella poesia della Dickinson :
Ci abituiamo al Buio - Quando la Luce è messa via - Come quando la Vicina regge il Lume Per testimoniare il suo Arrivederci - Un Momento - facciamo un passo incerti Per la novità della notte - Poi - adattiamo la Vista al Buio - E affrontiamo la Via - eretti - E così è per più grandi - Oscurità - Quelle Notti della Mente - In cui nessuna Luna svela un segno - O Stella - appare - dentro - I più Coraggiosi - brancolano un po' - E talvolta picchiano contro un Albero In piena Fronte - Ma fa che imparino a vedere - Che sia l'Oscurità a cambiare - O qualcosa nella vista Che si adatta alla Mezzanotte - E la Vita s'incammina quasi diritta. e due canzoni visionarie del grande Gaber: https://www.youtube.com/watch?v=BJKR_ej8BD0 https://www.youtube.com/watch?v=50SnH47mi08 |
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