Uno
dei nostri migliori ex studenti ha appena pubblicato un libro ben
scritto, ampio e ben documentato su una serie di autori, italiani e
francesi, da gran tempo misconosciuti e trascurati, che hanno animato
il dibattito pedagogico tra l'Unità d'Italia e la Prima guerra
mondiale, nel tentativo (non riuscito) di salvaguardare la
centralità delle matrici cristiane e cattoliche in ambito educativo
e culturale di fronte all'insorgere prepotente delle istanze
scientifiche e razionalistiche, concomitanti e affini all'avvento del
dominio industriale, capitalistico e borghese.
Un
libro che, nonostante il titolo apparentemente circoscritto e datato,
presenta quindi una forte attualità, in una fase come questa in cui
il richiamo ai valori si fa pressante nel tentativo di venir fuori
dalla profonda crisi etica e politica in cui ci troviamo immersi.
Crisi
delle culture laiche, al pari di quelle religiose, ormai entrambe
divorate dai tempi e dai modi della postmodernità postdemocratica e
postliberale ( e forse anche già post-umana).
Resto
colpito da varie assonanze che riscontro oggi in me, certamente
retaggio della mia formazione cristiana, e soprattutto
materno-milaniana.
Se
non avessi lasciato la Chiesa a vent'anni, forse mi sarei trovato a
scrivere o a pensare un libro così e a cercare di valorizzare
l'opera di autori come questi, spesso dimenticati e superati da
quella che i vincitori chiamano 'storia'.
'Senza
un alcun che di esplosivo la palla del fucile non erompe, così negli
insegnamenti della verità e delle regole dell'onestà, la mente de'
giovani, senza impulso d'affetto, non esce all'atto efficace
dell'apprendervi, anzi ripugna da sì fredda pedanteria che,
insegnando il vero e il vivere onesto, pare non glien'importi nulla.'
Uno
dei maggiori difetti che Conti lamentava nella scuola, era la
riduzione della sua missione al veicolo di circoscritte nozioni e
competenze disciplinari. 'Ma l'istruzione non basta -osservava- ci
vuole l'educazione ancora; ossia, l'istruzione dev'essere
educativa'...
Di
qui, la chiosa della celebre frase di Victor Hugo...'Ogni scuola che
s'apre, è un carcere che si chiude'. Ma perchè dunque,
moltiplicandosi le scuole, si moltiplicano delitti e prigioni...? La
risposta viene da sé: non basta una scuola, conviene che la scuola
sia buona.
Guibert
definì il carattere come l ' interna costituzione morale dell'uomo'
e dunque la forza con la quale la persona diveniva capace di
determinare le proprie azioni. Riprendendo una citazione di
Lacordaire sosteneva che il carattere fosse 'l'energia sorda e
costante della volontà, un non so che di irremovibile nelle
decisioni, e più ancora nella fedeltà a se stesso, alle proprie
condizioni, alle proprie amicizie, alle proprie virtù, una forza
intima che esce dalla persona ed ispira a tutti quella fiducia che
chiamano sicurezza'.
Si
tratta di una capacità che supera la mera intelligenza. Infatti, se
'l'ingegno può molto, il carattere può assai di più, perchè nel
medesimo tempo che sa guadagnare gli uomini, sa anche dominare le
circostanze'. Il carattere rappresentava così la vera 'misura della
vita', in quanto 'strumento' che principalmente 'la forma'.
Gillet
era convinto che 'l'assenza totale o parziale di educazione morale'
dipendesse dalla confusione riguardo il significato del cammino
formativo.
Crollate
le certezze su quel dovesse essere l'orizzonte perfettivo da
perseguire, secondo Gillet regnava ormai il più totale scetticismo
su cosa fosse il bene o il male per la persona. Su queste tematiche
aleggiava una preoccupante 'epidemia di dubbio', che giocava a
favore di un sempre più diffuso lassismo della ragione...Al riguardo
Gillet citò un'inchiesta relativa agli orientamenti ideologici dei
professori di filosofia dei licei francesi..i cui
risultati...attestavano una totale 'anarchia' rispetto alle
convinzioni valoriali di fondo.
Questo
smarrimento...scaturiva dal fallimento delle filosofie moderne che,
dopo aver screditato l'etica metafisica classica, non erano riuscite
a sostituirla con una valida alternativa, lasciando in eredità
soltanto una soffocante aria scettica...
Nella
formazione intellettuale coeva, Gillet lamentava un 'difetto di
metodo' riguardante l'eccessiva attenzione prestata alla memoria, e
dunque alla ripetizione di concetti e norme, a discapito di in vero
'sforzo personale' di giudizio, necessario per 'l'assimilazione
intellettuale'. Si cadeva così in una 'educazione alla rovescia'
impartita circoscrivendo 'l'iniziativa personale e lo sforzo
volontario a profitto della 'passività' sensibile'.
Secondo
Gillet, invece, l'educazione doveva soprattutto aiutare a capire,
anche confrontandosi, per esempio, con le teorie che sembravano
allontanare i giovani da una vita morale sana. Tenere gli studenti
all'oscuro degli 'errori' del mondo, sperando di evitarne
l'influenza, gli appariva non solo debilitante, , ma anche di 'una
ingenuità o d'una temerarietà inqualificabile'. Presto, infatti,
gli stessi giovani sarebbero stati immersi nel mondo subendo
l'inevitabile influenza di queste visioni: era dunque necessario
prepararli adeguatamente, dotandoli dei necessari anticorpi.
(da
Andrea Marrone, La pedagogia cattolica nel secondo Ottocento,
Studium, 2016)
Nessun commento:
Posta un commento