Siamo partiti
all'alba con Ceciliu. Mentre iniziamo a dirigerci verso il Pico
Grande, lui si dichiara figlio del vulcano e spiega, indicandola col
dito e sbattendo i piedi, che la parola Chã
vuol dire Terra. E' nato qui nella caldeira e non se n'è mai voluto
andare, se non per poco, neppure dopo le due eruzioni avvenute
durante la sua vita (1995 e 2014). La sua cooperativa vinicola è
chiusa, il vino è rimasto sepolto sotto la lava ma altri continuano
a produrlo nelle vigne superstiti o in quelle che sono state
ripiantate. Man mano che saliamo ci mostra fiero i meleti, i fichi, i
fagioli, i melograni e ci ha fatto odorare cidrella, lavanda
vulcanica e una piccola pianta da cui si ricava il vermuth. Il sole
resta coperto quasi sino all'ultimo, ma l'ascesa è stata comunque
molto dura e lunga per noi, 1.100 metri di dislivello in 3 ore e
mezza. In vari momenti ci siamo affidati più alle braccia che alle
gambe e Ceciliu rallentava dicendo “todo bien?” e ci aspettava.
Ma alla fine stringendo i denti siamo arrivati all'immenso cratere
centrale a 2860 metri ed abbiamo potuto ammirare dall'alto i fiumi di
lava che hanno avvolto i villaggi, Enrico ha subito aperto il suo
pacchetto di patatine rustiche per riprendere sali ed ha offerto
qualche taralluccio (rubato all'aeroporto di Elmas)
all'imperturbabile Ceciliu le cui energie sembravano ancora quelle di
inizio giornata. Ma ci aveva riservato una sorpresa per il ritorno:
siamo discesi dal vulcano sciando e saltellando come bambini su un
piano inclinatissimo e immergendo i nostri piedi nella lava soffice e
leggera per un kilometro almeno. Alla fine Enrico aveva entrambe le
scarpe aperte da vero pagliaccio, mentre Viviana si era trasformato
in uno slittino umano. Non è roba da tutti i giorni ed è stato uno
dei momenti più divertenti ed inaspettati di questo viaggio. Giunti
alle pendici del vulcano ci siamo seduti e abbiamo svuotato le
scarpe, le calze, i risvolti dei calzoni che avevano raccolto
tantissimi frammenti e pietroline che pesavano sul nostro cammino
almeno quanto le pietre che avevano nel frattempo già raccolto negli
zaini come ricordo di questi luoghi così neri e lucenti.
Non
ci sono strade dirette che da Chã
des Caldeiras portano in
auto a Mosteiros, ma pur di raggiungerla paghiamo un po' salato un
aluguer solo per noi, rosso fiammante; lo guida un giovane ragazzo
che alterna velocità folli quando corre sui sampietrini e sugli
sterrati e invece, rallenta inopinatamente prudente nei rari tratti
di asfalto che forse trova infidi e sdrucciolevoli. In alcuni momenti
Viviana non può fare a meno di schizzare sul sedile e chiedere di
andare più piano, soprattutto quando incrociamo altre vetture nel
senso opposto in una strada sempre stretta e senza protezioni, mentre
sotto si succedono abissi di mare e lava. I nostri scheletri arrivano
piuttosto tesi alla accogliente Pensao Christine che ci appare come
un miraggio.
Mosteiros
è apparentemente un villaggio fantasma, poco illuminato e con
pochissima gente per strada. Ci affidiamo ad una signora al
distributore della Shell per capire dove andare a cenare e, come
sempre accade anche nei luoghi più sperduti, riusciamo anche
stavolta a mangiare le nostre patelle in guazzetto, pesce serra
grelhada e bife de atum. Enrico vaneggia per la stanchezza e ci
dirigiamo a letto barcollanti, anche a causa delle locali birrette
tracannate. Sentiamo che Mosteiros può essere il luogo giusto per
concludere questo viaggio in tranquillità. La luna è piena e il
mare mugghiante si fa sentire della nostra finestra con forza e senza
fine.
Ora
che scriviamo, anche la giornata di oggi è trascorsa nel dolce far
nulla; Enri si è dovuto ricomprare delle scarpe nuove dai cinesi e si è cimentato in un ardito confronto in chiesa con un Gesù baffuto.
Ma il momento centrale è stato alle 15.30 quando la dolce
cameriera di Christine ci ha annunciato sorridente che era finalmente
pronta la cachupa fresca, il più importante piatto della cucina
capoverdiana, da noi lungamente atteso e non ancora assaporato. Non
si può dire che sia un piatto leggero ma è veramente gustoso: una
sorta di stufato di carne frollata di capretto, fagioli e mais. La
serata si è conclusa con una lunga passeggiata sul lungomare (le
onde erano sempre più lunghe e scroscianti nella risacca) e
un'ottima vellutata di zucca, carote e patate.
Domani questa pace finirà e ci ritroveremo come star ad attraversare 4 o 5 aeroporti in 24 ore per tornare a casa. Ci volete ancora?
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