Notti in cui mi sveglio sudato, stanco come se non dormissi.
Notti placide, ingenue, come quelle di un bambino che non sa ancora
di soffrire.
Mattine in cui non riesco a centrare il water, per quanto vacillo.
Mattine tranquille in cui sorseggio il thè, e respiro prima di
andare a prendere il filobus come tanti.
Pomeriggi in cui mi rannicchio sul divano rosso, a leggere o a
sonnecchiare.
Pomeriggi in cui il petto sembra scoppiare, in preda al panico.
Sere ventose, in cui la pressione sale, e mi vedo guarito.
Sere buie e insensate, in cui capisco che non voglio guarire e che
non so neppure cosa potrebbe più significare...
Così siamo.
Si pensi a che
alterazione va incontro la mia esperienza del mondo quando il mio
corpo è abitato dal dolore. ..Per l'esperienza che ne ho, non è il
mio stomaco che soffre , ma è la mia esistenza che si contrae...Non
è una parte dell'organismo che soffre, ma è il rapporto col mondo
che si è contratto, è la mia distanza dalle cose, la successione
del tempo, l'ordine della presenza...
In questo
arretramento della presenza, in cui il malato si scopre attento al
proprio corpo invece che al mondo e, sempre più incapace di trovare
uno sbocco sulle cose, dimora in sé.
La presenza si
raccoglie nell'ascolto del proprio corpo, un ascolto ansioso,
inquieto, che rattrappisce ogni prospettiva, allontana ogni progetto,
defila il mondo in una distanza sempre più remota, perchè, nel
dolore, il mio corpo diventa per me il mondo, l'unico polo della mia
cura.
Il corpo ha
preso il posto del mondo...
L'esistenza
trasforma la malattia in quella realtà tenebrosa che corrode a tal
punto l'apertura del mio corpo al mondo da circoscriverla nei limiti
di un organismo sempre più bloccato, più immobile, più in-fermo,
sempre più fermato su di sé...
Vivere il
proprio corpo e vivere il mondo non sono che modi di nominare la
stessa esperienza.
Quel che
consente di comprendere tutto il significato di questo rapporto è
soprattutto il conflitto...
La bocca,
l'ano, il fallo non sono solo degli orifizi del corpo, ma le vie del
suo contatto col mondo...
Lo stesso vale
per tutte quelle regioni che assicurano il contatto del nostro corpo
con l'esterno, quindi per gli organi respiratori, digestivi,
sessuali, fino all'epidermide.
Un mal-essere
di questi organi è un'impossibilità a essere, a esteriorizzarsi; è
un disequilibrio dell'esistenza, costretta a vivere nel proprio corpo
la sua impossibilità o incapacità a progettarsi in un mondo.
Una volta che
la presenza non può esprimersi nel mondo come le 'piace', è
costretta a trattenersi e a ripiegarsi su di sé. Non è tanto un
'ingorgo della libido' ciò che si produce, ma una mancata
presenza...Non resta altro modo di vivere se non quello del
progressivo assentarsi.
Il corpo
diventa il teatro dove si vive ciò che non si può vivere nel teatro
del mondo...
Il modo con cui
l'esistenza vive il proprio corpo rivela il modo con cui vive il
mondo.
Per questo non
parliamo di conversioni o trasferimento di conflitti psichici agli
organi fisici, perchè non ci sono due realtà, ma un'unica presenza
che dice nel corpo il proprio modo di essere al mondo.
In presenza di
una malattia dei bronchi, dello stomaco, del cuore è impossibile
circoscrivere un effetto, perchè disturbato è tutto il modo di
essere-nel-mondo, un modo più debole, più apprensivo, più
pauroso...
Non è la
carenza affettiva o l'eccessiva repressione sessuale che 'causa'
disturbi gastrici, ma è la presenza che,impossibilitata a esprimersi
in un mondo che sente troppo ostile o troppo proibitivo, dirige verso
il proprio corpo le sue pulsioni aggressive e sessuali...
Un mondo
inospitale, un mondo che non si lascia abitare non sopprime la
presenza, ma la costringe alle corde, la lascia esistere nelle forme
dell'apprensione, dell'ansietà, della malattia.
Ciò che si
constata non è la 'conversione' di una tensione effettiva in un
sintomo organico, ma il progressivo 'assentarsi di una presenza' che,
incapace di diluire la sua tensione col mondo,' si ammala', cioè
riduce l'intensità dei suoi rapporti con le cose, la propria
partecipazione, se stessa come presenza. Nella malattia essa ha la
possibilità di non occuparsi più del mondo, ma esclusivamente di
sé.
'Quando le vie
diventano troppo difficili o quando non scorgiamo alcuna via, non
possiamo più rimanere in un mondo così pressante e così difficile.
Quando tutte le vie sono sbarrate, eppure bisogna agire, allora
tentiamo di cambiare il mondo, cioè di viverlo come se i rapporti
delle cose con le loro potenzialità non fossero regolati da processi
deterministici, ma dalla magia.' (Sartre).
Quando le gambe
mi vengono meno, il cuore mi batte più debolmente, quando
impallidisco, cado e svengo perchè la minaccia del pericolo mi
toglie ogni possibilità d'azione, niente mi sembra meno adeguato di
questa condotta che mi lascia alla mercè del pericolo. Eppure,
osserva Sartre:
'Questa è una
condotta d'evasione, Lo svenimento è qui un rifugio...Non potendo
evitare il pericolo attraverso le vie normali e le concatenazioni
deterministiche, l'ho negato, attivando una condotta magica
dall'intenzione annichilente...'.
Chi, inesperto,
si tuffa nell'acqua ha paura dell' 'onda' che per un attimo lo
sommerge e, nel tentativo di salvarsi, diventa malsicuro rispetto
alla 'totalità del mare'; perde la testa, e l'angoscia che l'assale
non è più per l'onda, ma per la totalità che gli scompare senza
offrirgli un appiglio a cui agganciarsi. Come scrive Biswanger:
'L'angoscia in
fondo non è un sentimento né un affetto, ma l'espressione del
rattrappirsi dell'umana presenza nel vuoto che si determina con la
progressiva perdita del mondo, cui si correla una perdita di sé'.
(da U.Galimberti, Il corpo)
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