La
storia è fatta dalle menzogne dei vincitori- risposi un po' troppo
fulmineo.
Sì,
temevo che avrebbe detto così. Non dimentichi comunque che è fatta
anche delle illusioni dei vinti...
NUOVI
GIOCHI, DOPO LA GUERRA
Abstract:
L'articolo
riassume schematicamente gli assunti-base della cultura dominante,
che legittima la violenza e la guerra e che trova in esse uno dei
suoi capisaldi centrali.
L'analisi
attraversa quattro dimensioni fondamentali (la violenza, la guerra,
il conflitto, il potere) e confronta su di esse gli assunti-base con
le visioni e le premesse dell'alternativa nonviolenta.
Nell'ultima
parte, si conclude con alcune riflessioni preliminari sul rapporto
tra nonviolenza e perdono.
Introduzione
Il
XX secolo - e ancor più il primo decennio del secolo in corso –
rivelano, forse più di ogni altra epoca della storia, la disumanità,
distruttività ed inefficacia della guerra.
Questa
valutazione non deriva solo dall'utilizzo di parametri estrinseci o
condizionati da visioni antitetiche ad essa, ma a partire da
valutazioni e critiche interne alle sue stesse premesse ed obiettivi.
Non
è possibile ritenere infatti che gli stessi militari possano
ritenere oggi riuscite le operazioni condotte contro il terrorismo
internazionale, come quelle ancora attualmente in corso in Iraq, in
Afghanistan o - più di recente - intraprese in Libia.
L'unica
motivazione attualmente addotta per giustificare una tale coazione a
ripetere, che continua a perpetuarsi nonostante il suo continuo
fallire ed auto-falsificarsi, risiederebbe nella mancanza
di alternative.
I
suoi fautori, alla luce delle loro interpretazioni della storia
passata e recente, infatti, continuano a ritenere che l'uso della
violenza e della guerra sia necessario e inevitabile, laddove vengano
a mancare le possibilità di una negoziazione pacifica dei conflitti.
Questo
scritto tenta, invece, di riprovare a dimostrare che queste premesse
siano confutabili e che esistano delle alternative iscritte
all'interno di una teoria e pratica, manifestatasi anch'essa in molte
delle sue potenzialità nel secolo scorso, che definiamo nonviolenza.
Di seguito proverò ad
evidenziare queste novità e potenzialità presenti in essa,
mettendole in relazione a quattro dimensioni classiche del pensiero
politico-militare.
Di
sicuro sono convinto anch'io che tutti subiamo violazioni., in un
modo o nell'altro...
Esiste
poi la questione, dalla quale così tanto dipende, di come ciascuno
di noi reagisce alla violazione subita: se la riconosce o la nega, e
come essa influisca sui rapporti con gli altri...
1.
Violenza
La nonviolenza non si riconosce
nelle premesse fondamentali della cultura occidentale secondo le
quali:
a.
violenza
e aggressività rappresentano caratteristiche innate, istintive e
immodificabili della “natura umana”;
b.
violenza
e aggressività coincidono;
c.
violenza
e forza coincidono;
d.
la violenza è inevitabile nelle relazioni tra viventi e tra specie
umana e natura.
La nonviolenza contesta
radicalmente tutt'e quattro questi “fondamenti” e insiste a
dichiarare che:
a.
non
esiste alcuna prova che dimostri la naturalità della violenza ed
anzi gli studi più recenti ne rivelano la sua matrice fortemente
dipendente da condizionamenti appresi all'interno di contesti
culturali; (1)
b.
che
l'aggressività non coincide con la violenza, in quanto la prima può
essere interpretata anche in senso di energia non necessariamente
distruttiva e/o nel caso in cui fosse distruttiva rappresenterebbe
soltanto la dimensione palese della violenza (violenza diretta) e non
esaurirebbe in alcun modo quelle dimensioni coperte della violenza
(strutturale e culturale) che ne rappresentano il volto più
pericoloso e devastante; (2)
c.
esiste
una modalità della forza che non solo non esercita violenza , ma può
essere utilizzata proprio come antidoto alla violenza stessa; (3);
peraltro da tempo si teorizza la possibilità di organizzare delle
vere e proprie 'forze di intervento non-armate e nonviolente', ma
sinora non si voluto procedere su questa strada e non si mai andati
oltre sperimentazioni improvvisate e senza adeguate risorse. (4)
d.
la violenza non può essere mai del tutto eliminabile, ma può e deve
essere ricondotta all'interno di limiti e soglie che permettano la
preservazione e la vita dei sistemi più ampi entro cui i singoli
viventi si relazionano. (5)
Continui a farmi le domande
come se avessi già le risposte. O, perlomeno, le risposte che vuoi.
Sei proprio un codardo, eh,
Tony ?
Direi piuttosto che sono un
tipo...pacifico.
2. Guerra
La nonviolenza non può che
opporsi anche alle visioni tradizionali del pensiero
politico-militare secondo le quali:
a.
sussiste una linea di continuità ineliminabile tra politica e
guerra, sulla quale entrambe si muovono e si alimentano, alternandosi
e/o mescolandosi reciprocamente;
b.
la
guerra ha da sempre fatto parte essenziale della storia umana ed è
stata la matrice principale dei suoi eventi e dei suoi cambiamenti;
c.
la
guerra e la lotta coincidono;
d.
il
pacifismo rappresenta una visione idealistica ed ingenua delle
relazioni tra persone, tra gruppi e tra Stati.
La
nonviolenza contesta l'assunto a.
rivendicando
un'autonomia dell'ambito politico rispetto a quello bellico:
un'autonomia che si realizza solo se la politica diviene capace di
riconnettersi alle dimensioni etiche ed estetiche e a riconsiderare
il rapporto tra mezzi e fini sotto una nuova luce. (6)
Studi
recenti (7) mettono in dubbio e in discussione l'assunto b.
:
essi rivelano che la storia umana non è sempre stata “storia di
guerre”, ma ha sperimentato delle forme di vita e di convivenza
non incorniciate da premesse ed epiche della guerra.
Rispetto
al punto c.
la
nonviolenza evidenzia la radicale differenza tra lotta (struggle) e
guerra (fight): nella prima prevalgono aspetti relazionali profondi
che escludono – pur nel conflitto aperto – l'eliminazione
dell'avversario-concorrente; nella seconda queste caratteristiche si
perdono e prevalgono le istanze univocamente competitive del “gioco
a somma zero” (mors
tua vita mea).
(8).
La
nonviolenza, infine, non si riconosce nel pacifismo inerme e
armonicistico di cui al punto d.,
ma anzi si pone quale teoria-pratica di una gestione alternativa dei
conflitti, i quali non solo non possono essere negati o rimossi, ma
devono essere necessariamente attraversati e affrontati (che è
esattamente ciò che né la guerra né il pacifismo sono capaci di
fare). (9)
Credevamo
di aver raggiunto la maturità quando ci eravamo soltanto messi in
salvo, al sicuro.
Fantasticavamo
sul nostro senso di responsabilità, non riconoscendolo per quello
che era, cioè vigliaccheria.
Ciò
che abbiamo chiamato realismo si è rivelato un modo per evitare le
cose, ben più che affrontarle.
3. Conflitto
Le premesse basilari della
nostra cultura sociale e politica, e soprattutto il nostro senso
comune, considerano il conflitto come un fattore di disordine che
minaccia la stabilità e la quiete dei sistemi e delle istituzioni
che con tanta fatica e sofisticazione abbiamo costruito nel tempo,
nel tentativo di mettere ordine e di dare una struttura (in una
parola, di “civilizzare”) quel che altrimenti sarebbe
permanentemente preda del caos e degli eventi.
Da
cui deriva il mito della sicurezza
e
il ricorrente, per quanto fatuo e inane, richiamo alla pacificazione.
Il conflitto, in questa visione,
è percepito e si manifesta, quindi, soltanto come “malattia”.
Corollari inevitabili di
quest'assunto sono:
a.
che
un sistema è sano quanto più è esente da conflitti;
b.
che
un sistema sia tanto più violento quanto più in esso i conflitti si
manifestino;
c.
che
esistano differenze irriducibili e non mediabili se non attraverso
l'imposizione di regole stabilite dall'alto o, laddove queste non
siano praticabili, attraverso la guerra;
d.
che
la legittimità
delle regole risieda soltanto nella loro legalità
e
che nel conflitto tra “libera coscienza” e “legge”, la
seconda debba sempre prevalere sulla prima.
La nonviolenza considera il
conflitto quale linfa vitale di una società e tende a favorirne
l'espressione e la proliferazione al fine di sviluppare i suoi
fermenti e di esplicitare le dimensioni coperte della violenza e
dell'ingiustizia in essa presenti.
Il conflitto diviene quindi un
sintomo del malessere e non più una malattia; un'opportunità per
leggere la violenza presente in un sistema; una risorsa per
apprendere l'arte di una trasformazione creativa dei conflitti
stessi. (10)
Corollari di queste premesse
saranno:
a.
che
una società sarà tanto più sana e vitale – e tanto meno violenta
– quanto più sarà capace di esprimere, leggere e gestire i suoi
conflitti; e viceversa un sistema che blocca i conflitti ed è
incapace di esprimerli non può che definirsi altamente violento;
(11)
b.
che
le differenze non possano e non debbano essere abolite o omologate,
ma invece fatte convivere all'interno di sistemi e visioni
interculturali plurali, che superino i confini attuali della falsa
alternativa tra immunizzazione e tolleranza; (12)
- che non sempre ciò che è legale è legittimo e viceversa; e che in presenza di un conflitto radicale tra coscienza e legge non sempre la scelta debba propendere necessariamente per la seconda ma – e la storia lo dimostra ampiamente – ci siano molte situazioni in cui la scelta più ragionevole e giusta non sia quella degli Stati e delle maggioranze obbedienti, ma di singoli e minoranze disobbedienti.(13)
Sono sopravvissuto...
Non è affatto vero che la
storia è fatta delle menzogne dei vincitori, come dissi una volta
disinvoltamente...
Adesso lo so. E' fatta più
dei ricordi dei sopravvissuti, la maggior parte dei quali non
appartiene né alla schiera dei vincitori né a quella dei vinti.
- Potere
Due sono i capisaldi di una
visione violenta del potere:
a.
che
esso sia concentrato in luoghi, ruoli e/o istituzioni che lo
incarnano e lo esercitano in forme assolute (concezione monolitica
del potere);
b.
che
esso sia indissolubilmente organizzato in forma gerarchica e preveda
superiori ed inferiori livelli di autorità e di controllo.
Entrambe
queste condizioni configurano il potere come coincidente con il
dominio.
La visione nonviolenta contrasta
fortemente entrambi questi capisaldi. Rispetto al primo insiste sulla
caratteristica diffusiva e plurale del potere, che non è mai
concentrato del tutto, ma sempre almeno parzialmente distribuito.
Il che ha due conseguenze:
a.
che
le relazioni di potere siano dipendenti da quanto ogni parte può e/o
sceglie di esercitare o meno il quantum
di
potere a sua disposizione;
b.
che
le rivoluzioni nelle relazioni di potere non avvengano attaccando al
cuore presunti “luoghi centrali”, ma riorganizzando le dinamiche
plurali e diffuse e le posizioni di potere interne a un sistema. (14)
Rispetto al secondo assunto, la
nonviolenza (in questo avvicinandosi alle teorie politiche anarchiche
più evolute) (15) ritiene che esistano forme più complesse ed
efficaci di organizzare il potere rispetto a quelle di stampo
disciplinare-militare, unicamente votate al mantenimento e rispetto
della gerarchia. (16).
La
nonviolenza vede, anzi, proprio nella persistenza del “modello
Maggiore-minore” l'espressione primaria della violenza e nel suo
superamento l'unica possibilità di un'alternativa per un'effettiva
negoziazione e per un'organizzazione realisticamente democratica
dei poteri (“modello dell'Equivalenza”).(17)
Prima in confidenza
consideravo che la caratteristica essenziale del rimorso è che non
ci si può fare niente...
E se mi sbagliassi, invece ?
E se si potesse, chissà come, sospingere il rimorso controcorrente,
...quindi chiedere scusa e ottenere il perdono ?
- Perdono
Alla
luce delle novità sostanziali che la nonviolenza introduce nella
tradizione socio-politico occidentale possiamo ora provare a fare
alcune considerazioni conclusive sul rapporto tra nonviolenza e
perdono.
È evidente la connessione tra
le visioni nonviolente suesposte e tutte le tendenze rivolte a
privilegiare l'ascolto, l'empatia, la mediazione, il compromesso
creativo rispetto alle teorie-pratiche della violenza e della guerra.
Così
come sono oggi storicamente accertate le possibilità di giungere ad
una giustizia
di
tipo riconciliativo-restorativo quale alternativa plausibile alla
giustizia
penale
e unilateralmente sanzionatoria.
Nella nonviolenza non trovano
spazio atteggiamenti quali la rivalsa, la vendetta, l'umiliazione
anche se praticate in “punta di diritto” dal vincitore di turno.
La
parola perdono
potrebbe
quindi in prima istanza presentarsi in modo coerente e accettabile
all'interno di una stessa costellazione di orientamenti.
D'altro
lato, però, la scelta del perdono rischia di preservare alcuni
presupposti del modello violento, in primo luogo quello gerarchico,
in quanto il perdono sembrerebbe implicare necessariamente la
persistenza di una superiorità del perdonante rispetto al perdonato,
in una dinamica molto simile a quella che possiamo riscontrare nella
stessa tolleranza.
Inoltre, quello del perdono è
un concetto ancora intriso, purtroppo, di connotazioni conciliative
che, anziché attraversare e affrontare il conflitto, paiono
aggirarlo ed evitarlo, in una sorta di pietismo compassionevole che
invita all'oblio delle responsabilità e delle colpe.
La
proposta del perdono, quindi, rischia di avvilupparsi all'interno di
quelle tradizioni, in primo luogo cattoliche e liberali, dalle quali
la nonviolenza invece rappresenta, a mio parere, un tentativo di
liberazione ed oltrepassamento, attraverso la modalità
dell'aggiunta.
(18)
NOTE
- Giorgi. P., La violenza inevitabile. Una menzogna moderna, Jaca Book, Milano, 2008
Dichiarazione
di Siviglia sulla Violenza,, Conferenza Generale Unesco, 16.11.1989
- Galtung J., Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano, 2000
Patfoort
P., Costruire la nonviolenza, ed.la meridiana, Molfetta, 2000
- Gandhi M.K., Antiche come le montagne, Ed.di Comunità, Milano, 1983
Manara
F.C., Una forza che dà vita, Unicopli, Milano, 2006
- Tullio F. (a cura di), La difesa civile e il progetto Caschi bianchi, F.Angeli, Milano, 2000
- Bateson G., Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano, 2000
- Gandhi M.K., Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino, 2006
Arendt
H., Sulla violenza, Guanda, Parma, 2008
- Eisler R., Il calice e la spada, Forum, Udine, 2011
- Axelrod R., Giochi di reciprocità, Feltrinelli, Milano, 1985
- Hillman J., Un terribile amore per la guerra, Adelphi, Milano, 2005
- Sclavi M., Arte di ascoltare e mondi possibili, B.Mondadori,.....
- Benasayag M.- Del Rey A., Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano, 2008
Galtung
J., Gandhi oggi, EGA, Torino, 1987
- Esposito R., Immunitas, Einaudi, Torino, 2002
Han
B-C., La società della stanchezza, Nottetempo, Roma, 2012
- Arendt H., Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino, 2004
- Sharp G., Politica dell'azione nonviolenta (3 voll.), EGA, Torino, 1985
L'Abate
A., Per un futuro senza guerre, Liguori, Napoli, 2008
- Krippendorf. E., L'arte di non essere governati, Fazi, Roma, 2005
Ward
C., Anarchia come organizzazione, Elèuthera, Milano, 2010
- Weick K., Senso e significato nell'organizzazione, R.Cortina, Milano, 1997
A.-L.Barabasi,
Link, Einaudi, Torino, 2004.
- Patfoort P., Difendersi senza aggredire, Pisa University Press, Pisa, 2012
Salio
G., Il potere della nonviolenza, EGA, Torino, 1995
- Capitini A., Il potere di tutti, Guerra ed., Perugia, 1999
Tutte le epigrafi sono tratte
dal romanzo di J. Barnes, Il senso di una fine, Einaudi, Torino,
2012.
Ringrazio per la
collaborazione il dott. Cristiano D'Agostino.
L'articolo uscirà sulla rivista 'Psicologia & Lavoro', diretta da Enzo Spaltro.
Nessun commento:
Posta un commento