giovedì 20 febbraio 2014

nuovi giochi, dopo la guerra

La storia è fatta dalle menzogne dei vincitori- risposi un po' troppo fulmineo.
Sì, temevo che avrebbe detto così. Non dimentichi comunque che è fatta anche delle illusioni dei vinti...

NUOVI GIOCHI, DOPO LA GUERRA

Abstract: L'articolo riassume schematicamente gli assunti-base della cultura dominante, che legittima la violenza e la guerra e che trova in esse uno dei suoi capisaldi centrali.
L'analisi attraversa quattro dimensioni fondamentali (la violenza, la guerra, il conflitto, il potere) e confronta su di esse gli assunti-base con le visioni e le premesse dell'alternativa nonviolenta.
Nell'ultima parte, si conclude con alcune riflessioni preliminari sul rapporto tra nonviolenza e perdono.


Introduzione

Il XX secolo - e ancor più il primo decennio del secolo in corso – rivelano, forse più di ogni altra epoca della storia, la disumanità, distruttività ed inefficacia della guerra.
Questa valutazione non deriva solo dall'utilizzo di parametri estrinseci o condizionati da visioni antitetiche ad essa, ma a partire da valutazioni e critiche interne alle sue stesse premesse ed obiettivi.
Non è possibile ritenere infatti che gli stessi militari possano ritenere oggi riuscite le operazioni condotte contro il terrorismo internazionale, come quelle ancora attualmente in corso in Iraq, in Afghanistan o - più di recente - intraprese in Libia.
L'unica motivazione attualmente addotta per giustificare una tale coazione a ripetere, che continua a perpetuarsi nonostante il suo continuo fallire ed auto-falsificarsi, risiederebbe nella mancanza di alternative.
I suoi fautori, alla luce delle loro interpretazioni della storia passata e recente, infatti, continuano a ritenere che l'uso della violenza e della guerra sia necessario e inevitabile, laddove vengano a mancare le possibilità di una negoziazione pacifica dei conflitti.
Questo scritto tenta, invece, di riprovare a dimostrare che queste premesse siano confutabili e che esistano delle alternative iscritte all'interno di una teoria e pratica, manifestatasi anch'essa in molte delle sue potenzialità nel secolo scorso, che definiamo nonviolenza.
Di seguito proverò ad evidenziare queste novità e potenzialità presenti in essa, mettendole in relazione a quattro dimensioni classiche del pensiero politico-militare.


Di sicuro sono convinto anch'io che tutti subiamo violazioni., in un modo o nell'altro...
Esiste poi la questione, dalla quale così tanto dipende, di come ciascuno di noi reagisce alla violazione subita: se la riconosce o la nega, e come essa influisca sui rapporti con gli altri...
1. Violenza

La nonviolenza non si riconosce nelle premesse fondamentali della cultura occidentale secondo le quali:
a. violenza e aggressività rappresentano caratteristiche innate, istintive e immodificabili della “natura umana”;
b. violenza e aggressività coincidono;
c. violenza e forza coincidono;
d. la violenza è inevitabile nelle relazioni tra viventi e tra specie umana e natura.

La nonviolenza contesta radicalmente tutt'e quattro questi “fondamenti” e insiste a dichiarare che:

a. non esiste alcuna prova che dimostri la naturalità della violenza ed anzi gli studi più recenti ne rivelano la sua matrice fortemente dipendente da condizionamenti appresi all'interno di contesti culturali; (1)
b. che l'aggressività non coincide con la violenza, in quanto la prima può essere interpretata anche in senso di energia non necessariamente distruttiva e/o nel caso in cui fosse distruttiva rappresenterebbe soltanto la dimensione palese della violenza (violenza diretta) e non esaurirebbe in alcun modo quelle dimensioni coperte della violenza (strutturale e culturale) che ne rappresentano il volto più pericoloso e devastante; (2)
c. esiste una modalità della forza che non solo non esercita violenza , ma può essere utilizzata proprio come antidoto alla violenza stessa; (3); peraltro da tempo si teorizza la possibilità di organizzare delle vere e proprie 'forze di intervento non-armate e nonviolente', ma sinora non si voluto procedere su questa strada e non si mai andati oltre sperimentazioni improvvisate e senza adeguate risorse. (4)
d. la violenza non può essere mai del tutto eliminabile, ma può e deve essere ricondotta all'interno di limiti e soglie che permettano la preservazione e la vita dei sistemi più ampi entro cui i singoli viventi si relazionano. (5)


Continui a farmi le domande come se avessi già le risposte. O, perlomeno, le risposte che vuoi.
Sei proprio un codardo, eh, Tony ?
Direi piuttosto che sono un tipo...pacifico.
2. Guerra

La nonviolenza non può che opporsi anche alle visioni tradizionali del pensiero politico-militare secondo le quali:
a. sussiste una linea di continuità ineliminabile tra politica e guerra, sulla quale entrambe si muovono e si alimentano, alternandosi e/o mescolandosi reciprocamente;
b. la guerra ha da sempre fatto parte essenziale della storia umana ed è stata la matrice principale dei suoi eventi e dei suoi cambiamenti;
c. la guerra e la lotta coincidono;
d. il pacifismo rappresenta una visione idealistica ed ingenua delle relazioni tra persone, tra gruppi e tra Stati.

La nonviolenza contesta l'assunto a. rivendicando un'autonomia dell'ambito politico rispetto a quello bellico: un'autonomia che si realizza solo se la politica diviene capace di riconnettersi alle dimensioni etiche ed estetiche e a riconsiderare il rapporto tra mezzi e fini sotto una nuova luce. (6)
Studi recenti (7) mettono in dubbio e in discussione l'assunto b. : essi rivelano che la storia umana non è sempre stata “storia di guerre”, ma ha sperimentato delle forme di vita e di convivenza non incorniciate da premesse ed epiche della guerra.
Rispetto al punto c. la nonviolenza evidenzia la radicale differenza tra lotta (struggle) e guerra (fight): nella prima prevalgono aspetti relazionali profondi che escludono – pur nel conflitto aperto – l'eliminazione dell'avversario-concorrente; nella seconda queste caratteristiche si perdono e prevalgono le istanze univocamente competitive del “gioco a somma zero” (mors tua vita mea). (8).
La nonviolenza, infine, non si riconosce nel pacifismo inerme e armonicistico di cui al punto d., ma anzi si pone quale teoria-pratica di una gestione alternativa dei conflitti, i quali non solo non possono essere negati o rimossi, ma devono essere necessariamente attraversati e affrontati (che è esattamente ciò che né la guerra né il pacifismo sono capaci di fare). (9)


Credevamo di aver raggiunto la maturità quando ci eravamo soltanto messi in salvo, al sicuro.
Fantasticavamo sul nostro senso di responsabilità, non riconoscendolo per quello che era, cioè vigliaccheria.
Ciò che abbiamo chiamato realismo si è rivelato un modo per evitare le cose, ben più che affrontarle.
3. Conflitto

Le premesse basilari della nostra cultura sociale e politica, e soprattutto il nostro senso comune, considerano il conflitto come un fattore di disordine che minaccia la stabilità e la quiete dei sistemi e delle istituzioni che con tanta fatica e sofisticazione abbiamo costruito nel tempo, nel tentativo di mettere ordine e di dare una struttura (in una parola, di “civilizzare”) quel che altrimenti sarebbe permanentemente preda del caos e degli eventi.
Da cui deriva il mito della sicurezza e il ricorrente, per quanto fatuo e inane, richiamo alla pacificazione.
Il conflitto, in questa visione, è percepito e si manifesta, quindi, soltanto come “malattia”.
Corollari inevitabili di quest'assunto sono:
a. che un sistema è sano quanto più è esente da conflitti;
b. che un sistema sia tanto più violento quanto più in esso i conflitti si manifestino;
c. che esistano differenze irriducibili e non mediabili se non attraverso l'imposizione di regole stabilite dall'alto o, laddove queste non siano praticabili, attraverso la guerra;
d. che la legittimità delle regole risieda soltanto nella loro legalità e che nel conflitto tra “libera coscienza” e “legge”, la seconda debba sempre prevalere sulla prima.

La nonviolenza considera il conflitto quale linfa vitale di una società e tende a favorirne l'espressione e la proliferazione al fine di sviluppare i suoi fermenti e di esplicitare le dimensioni coperte della violenza e dell'ingiustizia in essa presenti.
Il conflitto diviene quindi un sintomo del malessere e non più una malattia; un'opportunità per leggere la violenza presente in un sistema; una risorsa per apprendere l'arte di una trasformazione creativa dei conflitti stessi. (10)
Corollari di queste premesse saranno:
a. che una società sarà tanto più sana e vitale – e tanto meno violenta – quanto più sarà capace di esprimere, leggere e gestire i suoi conflitti; e viceversa un sistema che blocca i conflitti ed è incapace di esprimerli non può che definirsi altamente violento; (11)
b. che le differenze non possano e non debbano essere abolite o omologate, ma invece fatte convivere all'interno di sistemi e visioni interculturali plurali, che superino i confini attuali della falsa alternativa tra immunizzazione e tolleranza; (12)
  1. che non sempre ciò che è legale è legittimo e viceversa; e che in presenza di un conflitto radicale tra coscienza e legge non sempre la scelta debba propendere necessariamente per la seconda ma – e la storia lo dimostra ampiamente – ci siano molte situazioni in cui la scelta più ragionevole e giusta non sia quella degli Stati e delle maggioranze obbedienti, ma di singoli e minoranze disobbedienti.(13)


Sono sopravvissuto...
Non è affatto vero che la storia è fatta delle menzogne dei vincitori, come dissi una volta disinvoltamente...
Adesso lo so. E' fatta più dei ricordi dei sopravvissuti, la maggior parte dei quali non appartiene né alla schiera dei vincitori né a quella dei vinti.
  1. Potere

Due sono i capisaldi di una visione violenta del potere:
a. che esso sia concentrato in luoghi, ruoli e/o istituzioni che lo incarnano e lo esercitano in forme assolute (concezione monolitica del potere);
b. che esso sia indissolubilmente organizzato in forma gerarchica e preveda superiori ed inferiori livelli di autorità e di controllo.
Entrambe queste condizioni configurano il potere come coincidente con il dominio.
La visione nonviolenta contrasta fortemente entrambi questi capisaldi. Rispetto al primo insiste sulla caratteristica diffusiva e plurale del potere, che non è mai concentrato del tutto, ma sempre almeno parzialmente distribuito.
Il che ha due conseguenze:
a. che le relazioni di potere siano dipendenti da quanto ogni parte può e/o sceglie di esercitare o meno il quantum di potere a sua disposizione;
b. che le rivoluzioni nelle relazioni di potere non avvengano attaccando al cuore presunti “luoghi centrali”, ma riorganizzando le dinamiche plurali e diffuse e le posizioni di potere interne a un sistema. (14)

Rispetto al secondo assunto, la nonviolenza (in questo avvicinandosi alle teorie politiche anarchiche più evolute) (15) ritiene che esistano forme più complesse ed efficaci di organizzare il potere rispetto a quelle di stampo disciplinare-militare, unicamente votate al mantenimento e rispetto della gerarchia. (16).
La nonviolenza vede, anzi, proprio nella persistenza del “modello Maggiore-minore” l'espressione primaria della violenza e nel suo superamento l'unica possibilità di un'alternativa per un'effettiva negoziazione e per un'organizzazione realisticamente democratica dei poteri (“modello dell'Equivalenza”).(17)


Prima in confidenza consideravo che la caratteristica essenziale del rimorso è che non ci si può fare niente...
E se mi sbagliassi, invece ? E se si potesse, chissà come, sospingere il rimorso controcorrente, ...quindi chiedere scusa e ottenere il perdono ?
  1. Perdono

Alla luce delle novità sostanziali che la nonviolenza introduce nella tradizione socio-politico occidentale possiamo ora provare a fare alcune considerazioni conclusive sul rapporto tra nonviolenza e perdono.
È evidente la connessione tra le visioni nonviolente suesposte e tutte le tendenze rivolte a privilegiare l'ascolto, l'empatia, la mediazione, il compromesso creativo rispetto alle teorie-pratiche della violenza e della guerra.
Così come sono oggi storicamente accertate le possibilità di giungere ad una giustizia di tipo riconciliativo-restorativo quale alternativa plausibile alla giustizia penale e unilateralmente sanzionatoria.
Nella nonviolenza non trovano spazio atteggiamenti quali la rivalsa, la vendetta, l'umiliazione anche se praticate in “punta di diritto” dal vincitore di turno.
La parola perdono potrebbe quindi in prima istanza presentarsi in modo coerente e accettabile all'interno di una stessa costellazione di orientamenti.
D'altro lato, però, la scelta del perdono rischia di preservare alcuni presupposti del modello violento, in primo luogo quello gerarchico, in quanto il perdono sembrerebbe implicare necessariamente la persistenza di una superiorità del perdonante rispetto al perdonato, in una dinamica molto simile a quella che possiamo riscontrare nella stessa tolleranza.
Inoltre, quello del perdono è un concetto ancora intriso, purtroppo, di connotazioni conciliative che, anziché attraversare e affrontare il conflitto, paiono aggirarlo ed evitarlo, in una sorta di pietismo compassionevole che invita all'oblio delle responsabilità e delle colpe.
La proposta del perdono, quindi, rischia di avvilupparsi all'interno di quelle tradizioni, in primo luogo cattoliche e liberali, dalle quali la nonviolenza invece rappresenta, a mio parere, un tentativo di liberazione ed oltrepassamento, attraverso la modalità dell'aggiunta. (18)


NOTE
  1. Giorgi. P., La violenza inevitabile. Una menzogna moderna, Jaca Book, Milano, 2008
Dichiarazione di Siviglia sulla Violenza,, Conferenza Generale Unesco, 16.11.1989
  1. Galtung J., Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano, 2000
Patfoort P., Costruire la nonviolenza, ed.la meridiana, Molfetta, 2000
  1. Gandhi M.K., Antiche come le montagne, Ed.di Comunità, Milano, 1983
Manara F.C., Una forza che dà vita, Unicopli, Milano, 2006
  1. Tullio F. (a cura di), La difesa civile e il progetto Caschi bianchi, F.Angeli, Milano, 2000
  2. Bateson G., Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano, 2000
  3. Gandhi M.K., Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino, 2006
Arendt H., Sulla violenza, Guanda, Parma, 2008
  1. Eisler R., Il calice e la spada, Forum, Udine, 2011
  2. Axelrod R., Giochi di reciprocità, Feltrinelli, Milano, 1985
  3. Hillman J., Un terribile amore per la guerra, Adelphi, Milano, 2005
  4. Sclavi M., Arte di ascoltare e mondi possibili, B.Mondadori,.....
  5. Benasayag M.- Del Rey A., Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano, 2008
Galtung J., Gandhi oggi, EGA, Torino, 1987
  1. Esposito R., Immunitas, Einaudi, Torino, 2002
Han B-C., La società della stanchezza, Nottetempo, Roma, 2012
  1. Arendt H., Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino, 2004
  2. Sharp G., Politica dell'azione nonviolenta (3 voll.), EGA, Torino, 1985
L'Abate A., Per un futuro senza guerre, Liguori, Napoli, 2008
  1. Krippendorf. E., L'arte di non essere governati, Fazi, Roma, 2005
Ward C., Anarchia come organizzazione, Elèuthera, Milano, 2010
  1. Weick K., Senso e significato nell'organizzazione, R.Cortina, Milano, 1997
A.-L.Barabasi, Link, Einaudi, Torino, 2004.
  1. Patfoort P., Difendersi senza aggredire, Pisa University Press, Pisa, 2012
Salio G., Il potere della nonviolenza, EGA, Torino, 1995
  1. Capitini A., Il potere di tutti, Guerra ed., Perugia, 1999

Tutte le epigrafi sono tratte dal romanzo di J. Barnes, Il senso di una fine, Einaudi, Torino, 2012.
Ringrazio per la collaborazione il dott. Cristiano D'Agostino.
L'articolo uscirà sulla rivista 'Psicologia & Lavoro', diretta da Enzo Spaltro.

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