L'uomo non fa quasi mai uso delle
libertà che ha, come la libertà di pensiero; pretende invece, come
compenso, la libertà di parola.
Soren Kierkegaard
Ad Istanbul si
intima il coprifuoco e ci si muove ad accentuare la discrezionalità
da sceriffi.
A Stoccolma si
continua a girare senza obblighi, a sedersi nei bar, a correre nei
parchi.
Noi, tra loro:
magari il modello turco sarà introdotto in futuro anche qui, per
altre emergenze, magari con gradualità impercettibili, per non
generare troppe (peraltro, almeno al momento, improbabili) reazioni.
Ma siamo
sicuramente più distanti (come tutte le sedicenti democrazie
europee) da quello svedese.
La Svezia: quanto
poco se ne parla qui da noi.
Ha un sesto dei
nostri abitanti, una densità molto più bassa, è vero.
Ma con i suoi
metodi non ha ancora raggiunto i 20.000 contagi e non ha superato i
2000 morti, di cui l'87% sopra i 70 anni. Un terzo di contagiati e
morti sta poi tutto nella capitale.
Noi, invece,
abbiamo praticato l'obbligo del distanziamento (che in Svezia è solo
consigliato) ed abbiamo quasi raggiunto i 200.000 contagiati e i
25.000 morti. Di questi l'80% ha contratto il virus all'interno di
luoghi chiusi e protetti (case di cura e di riposo, ospedali,
famiglie, luoghi di lavoro) ed anche da noi ha più di 70 anni.
Bisogna constatare
che, a parità di isolamento individuale praticato con diligenza e
disciplina, alcune regioni continuano ad andare molto peggio di
altre: non mi pare che sia risultato quindi così importante e per
nulla decisivo il distanziamento sociale tra persone, quanto invece
l'isolamento o meno dei territori ed altri probabili fattori di
riduzione del rischio (tempestività, limitazione di errori tecnici,
scarsa densità di popolazione, stato di salute pregresso, grado di
inquinamento e presenza di industrie, intensità e frequenza degli
scambi di traffico, differenze di età e genere...).
Il confronto tra
noi e la Svezia, sinceramente, lascia perplessi: abbiamo sei volte i
loro abitanti, ma abbiamo delle cifre almeno dieci volte superiori
alle loro, pur avendo compiuto un sacrificio personale, sociale ed
economico davvero terribile e ormai insopportabile.
Perchè allora
abbiamo insistito tanto sull'obbligo di detenzione, su questo
prolungato e invariato sequestro di persona sotto ricatto a cui siamo
stati sottoposti ?
Perchè non ci
siamo fidati del senso di responsabilità della cittadinanza, a
differenza degli svedesi ?
Alcune possibili
letture ci rimandano lontano: alla differenza tra luteranesimo e
cattolicesimo, ad esempio. O, per stare leggermente più prossimi,
alla cultura pubblica ma non statalista dei paesi scandinavi messa a
confronto con la nostra, molto statal-familista e sempre poco attenta
a ciò che è pubblico.
Una cultura
sociale, la nostra, fondata su modelli sfiduciari e che alterna
de-responsabilizzazione (premi e punizioni comminati in relazione
all'ottemperanza ad obblighi di controllo eteronomo, in assenza
presunta di una responsabilità sociale diffusa) e
iper-responsabilizzazione (morale del sacrificio quale unica fonte di
virtù personale e salvezza collettiva).
In entrambi gli
estremi siamo al di fuori di una dimensione educativa ed etica: in
essi non vi può essere alcuno sviluppo della responsabilità
sociale, ma soltanto la riproposizione di istanze totalitarie e
sempre 'calate dall'alto', per imposizione e non per consapevole
adesione morale.
Lo stato,
d'altronde, ha avuto tutto il suo guadagno a chiuderci in casa tutti
in blocco e a non doversi impegnare in un ruolo di sottile
discriminazione dei comportamenti punibili da parte di persone
comunque libere di uscire (ad es. il reato di assembramento o di
spostamento in gruppo immotivato).
Le persone sono
state sovraccaricate di responsabilità (con effetti sanitari tutti
da dimostrare) per alleggerire le istituzioni e per coprire le
mancanze di quest'ultime (che si tratti di ospedali, aziende o
questure).
Oltre alla mancata
occasione di crescita per l'etica pubblica, quel che sta accadendo
lascerà strascichi pericolosissimi che comporteranno -all'opposto,
purtroppo- una sua ulteriore degradazione:
- da un punto di vista relazionale, il dilemma tra 'proteggere gli altri' e 'proteggerci dagli altri' non potrà che risolversi in un aumento del securitarismo; i muri tra gli stati ed i popoli troveranno il loro equivalente interpersonale in muretti e fossati vari (immunizzazione della vita sociale, tra mascherine e guanti; divaricazioni ulteriori tra chi ha/è e chi non ha/non è; il lavoro socio-culturale-assistenziale, che già era alla canna del gas nella fase di ri-animazione precedente, ora si troverà a tappare ancora più falle e a fornire solo delle terapie palliative ad un corpo sociale relazionalmente moribondo e mortificato;
- da un punto di vista socio-politico, la riduzione ulteriore della vita pubblica, della possibilità di manifestare o anche solo di incontrarsi in gruppo, oltre che il già evidente crescendo del conformismo anti-conflittuale, rappresentano la pietra tombale di qualunque democrazia sostanziale. Forse sorgerà -prima o poi- una nuova resistenza, ma credo che -come già accaduto- dovremo passare necessariamente attraverso le prove dolorose di nuove tirannie (più o meno soft);
- la privatizzazione e mercatizzazione della dimensione pubblica verrà giustificata a partire da necessità sanitarie: le spiagge libere spariranno di fatto, non si sa per quanto; i marciapiedi e le strade saranno occupate più ampiamente ed ulteriormente gentrificate da ristoranti e spazi turistici lottizzati; lo sport e gli spettacoli saranno sempre più sotto controllo, sempre più in mano alle tv a pagamento, sempre meno godibili in presenza ed in luoghi pubblici;
- si entrerà ancor più nella dimensione 'onlife': la vita materiale quotidiana (dalla spesa allo studio, dal lavoro allo svago) è destinata a trasferirsi in forme sempre più totalizzanti sulla rete, riducendo ancor più i pochi barlumi ancora esistenti di conversazione ed esperienza sociale diretta; significativa, a questo proposito, la recente reazione dei vescovi (finalmente!);
- l'esperienza di limitazione creerà un ulteriore corto circuito con la nostra cultura sociale generale che prosegue ad inneggiare al godere e crescere senza limiti; il modello dell'illimite -in presenza di limiti a vivere così evidenti- provocherà ancor più depressione, rabbia, risentimento, frustrazione, senso di impotenza da un lato, e desideri di fuga, evasione, anestesia e/o di vendetta, invidia e desiderio di rivalsa dall'altro.Un bel mix di fattori che andrà a tutto vantaggio di una politica d'invocazione ed insediamento del Capo.
Come già scritto,
ora iniziano le insubordinazioni: conflitti aperti, ognuno ad
esaltare i propri interessi di parte. Altro che comunità, altro che
unità, altro che condivisione.
Il tanto
sbandierato senso di appartenenza si rivela per quel che era: una
mera apparentenza, un'appartenenza solo apparente, gonfiata dalla
paura comune e dai media.
Ora si apre la fase
più critica per il governo, la luna di miele da coronavirus è
finita.
E purtroppo non è
il momento di rilassarsi neppure per noi, anzi si apre il momento più
critico e delicato.
Dinanzi alla
fanatica smania di voler riaprire tutto, non potendo confidare nella
conversione degli esseri umani, possiamo solo sperare nella clemenza
del virus e che solo per questo i contagi non crescano di nuovo.
E, se questo invece
accadesse -come è probabile-, sperare che non si attuino più scelte
totalizzanti e generalizzate, ma che ogni area possa da ora regolarsi
secondo la propria situazione specifica, i propri contagi e le
proprie risorse.
N.B. Nel delirio
che riprende permangono come sempre totalmente nascoste (in quanto
non portatrici di interessi materiali a breve termine) le due
questioni di fondo della catastrofe: la cultura relazionale e sociale
(in primis, scuola, università, servizi), rimandata a settembre
senza dibattito e senza dubbi; e la questione climatica, che continua
a star lì, in mano solo a quattro ragazzetti, gretini e
-evidentemente- anche orfani.
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