lunedì 26 marzo 2018

Beirut, bella e (cor)rotta



Ci troviamo a Zahle, già oltre il Monte Libano, da poche ore.
Abbiamo lasciato Beirut stamattina con un minivan da Cola intersection, dopo tre notti nella capitale.
La valle (che però è anche altopiano, visto che siamo a 1000 metri circa) della Bekaa, si muove tra Monte Libano e Antilibano, a pochi chilometri dal confine siriano, a 50 da Damasco (il che -di questi tempi- fa già una certa impressione).
E' inevitabile pensare a quel che sta succedendo ancora di là, nel vedere qui ancora tutti i segni devastanti di una guerra infinita, ben presente nei palazzi coperti di pallottole, nelle belle ville arabo-francesi abbandonate a se stesse, nel degrado di interi quartieri lasciati a marcire da decenni, in attesa di essere sostituiti da grattacieli faraonici ed enormi viadotti per Maserati e Porsche che circolano a centinaia come non avevo mai visto, forse neppure in America.
Una polarizzazione fortissima ed evidente tra ricchissimi e ricchi da un lato, e poveri e poverissimi dall'altro.
In una città di lounges e casinò, yacht lussuosissimi ed Università private, siamo stati ospitati in una casetta popolare al centro di Hamra in cui l'acqua del rubinetto esce salata ed imbevibile.
E sappiamo che solo a Beirut ci sono 5 campi profughi palestinesi (tra cui la triste presenza di Sabra e Chatila) e che tutto il Libano accoglie almeno 500.000 rifugiati dalla diaspora che è seguita alla Guerra dei sei giorni e da allora in poi.

Una città, Beirut, dai contorni dolcissimi su una costa che digrada su mari agitati ed aperti, che i Fenici hanno solcato, commercianti levantini ed astuti, da sempre, sino alla stessa Sardegna (anche Cagliari è stata fondata da loro, e fu chiamata Karel).
Portarono con sé l'arte della porpora, delle spezie, della seta e dell'oro.
Oggi si aggirano a milioni per le strade sempre molto animate, tantissimi giovani salgono e scendono da taxi e service a buon mercato, appaiono sempre indaffarati in qualcosa e vestiti all'ultima moda.

Ma la guerra, tra i soldi riciclati che girano a frotte e le paillettes strabordanti e straluccicanti, continua a vivere sotto traccia e a bassa intensità, dopo aver fatto quasi un milione di morti, e non solo perchè la città è costellata di militari e posti di blocco, ma perchè è una pace esagerata, che non convince, seppure mascherata da tutti i brand di lusso che circondano con le loro leccate palazzine rifatte una Piazza dei Martiri ancora abbandonata ed attraversata da una Linea Verde in cui ancora si sente la puzza di bruciato.
Le ragazze, anche se arabe e musulmane, sono sempre vestite in modi quasi europei, leziosi e appariscenti, sempre abbellite da un trucco impeccabile, come se fossero bamboline o qualcosa di peggio.
Ieri, dopo una mattinata intera al Museo Nazionale (davvero imperdibile), ci siamo avventurati sulla Corniche, il lunghissimo lungomare, popolato da famiglie in tiro e, all'altezza delle Pigeon's Rock, da una inopinata e animatissima festa di centinaia di profughi curdi (qui abbiamo anche fatto conoscenza con un profugo siriano di Aleppo, Assim, un distinto e solissimo signore che ha regalato a Vivi un profumino delicato).

Nei prossimi giorni ci daremo ai primi giri archeologici, tra Aanjar e la mitica Baalbek.
Qualche foto vi darà l'idea di quanto sia stata ricca e importante questa terra, che oggi appare piccola e quasi sconosciuta (pensate che non siamo riusciti a trovare in italiano nessuna guida turistica sul Libano che sia stata pubblicata dopo il 1996).
Il paese è bello, la gente è ospitale, la situazione appare tranquilla, quasi sedata.
Si può girare senza problemi, ma è meglio star lontani dai confini, sia siriani che israeliani (il Golan, a sud, è ancora terra contesa, e vede sempre presente il contingente dell'Unifil, da vari anni).
Staremo a vedere, ci sono ancora più di dieci giorni per proseguire il viaggio...









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