Nella prima parte della vita, il
mondo si divide grossolanamente tra chi ha già fatto sesso e chi no.
Più avanti, tra chi ha conosciuto
l'amore e chi no.
Più tardi ancora -se si è
fortunati almeno (o forse sfortunati, in realtà)- si divide tra chi
ha vissuto il dolore e chi no.
Si tratta di differenze assolute; di
tropici che attraversiamo.
E invece, tra un'estate e l'autunno,
passammo dall'ansia all'allarme, alla paura, al terrore.
Trentasette giorni in tutto, dalla
diagnosi alla morte.
Mi sono sforzato di non abbassare lo
sguardo mai, di guardare le cose in faccia: ne è nata una sorta di
assurda lucidità.
Quasi tutte le sere, quando uscivo
dall'ospedale, mi ritrovavo sull'autobus a fissare con risentimento
la gente che tornava a casa a fine giornata.
Come osavano starsene lì seduti con
quell'aria svagata e dimentica, ostentando profili serafici, quando
il mondo era sul punto di cambiare ?
Abbiamo un cattivo rapporto con la
morte, evento al tempo stesso unico e banale; non siamo più in grado
di considerarlo parte di un disegno più vasto...
Di conseguenza, anche il lutto
diventa inimmaginabile: non solo in termini di durata e profondità,
ma anche di consistenza e di tono, nell'inganno delle sue remissioni
apparenti, nelle sue ricadute.
Come pure nel suo trauma iniziale:
all'improvviso precipitiamo nel gelido Mare del Nord equipaggiati
soltanto di un ridicolo giubbotto di sughero che in teoria dovrebbe
salvarci la vita.
Per giunta, niente ci può preparare
alla realtà nuova nella quale coliamo a picco.
Ho conosciuto una persona convinta,
o fiduciosa, di poterlo fare.
Suo marito era da tempo malato di
cancro; essendo una donna pratica, lei si era informata in anticipo
sulle letture adatte e aveva messo insieme una scorta di classici sul
tema della perdita.
Quando venne il momento non fece
alcuna differenza.
Quello che già sapevo era che
funzionano solo le vecchie parole: morte, pena, dolore, tristezza,
crepacuore. Nessuna moderna perifrasi o diagnosi scientifica.
Il dolore è una condizione umana,
non clinica e, sebbene esistano pillole che aiutano a dimenticarlo
-quello e ogni altra cosa- , non esistono farmaci in grado di
guarirlo.
I dolenti non sono depressi, sono
semplicemente, giustamente e matematicamente ('si soffre nell'esatta
misura di quanto vale la perdita') tristi.
'Ho parlato a tavola di mia moglie
morta, mentre si conversava.
Cala un silenzio breve, un comune
spavento, un brivido d'orrore...'
Presi la decisione (ma dato lo
scompiglio che mi regnava in testa forse è più giusto dire che fu
la decisione a prendere me) di parlare di mia moglie ogni volta che
mi pareva o ne sentissi il bisogno...Mi sono reso conto ben presto di
come il dolore selezioni e riposizioni le persone che circondano il
dolente; di come metta alla prova gli amici, di come qualcuno risulti
promosso, e qualcuno bocciato...
Ricordo una conversazione a
tavola...; ero in un ristorante con tre amici sposati più o meno
coetanei...Feci il nome di mia moglie: nessuno raccolse. Lo ripetei:
stessa reazione.
E' possibile che la terza volta
avessi la deliberata intenzione di provocarli, perchè quel
comportamento, che a me era parso più un segno di vigliaccheria che
di buona educazione, mi aveva fatto incazzare.
Spaventati dal contatto con il suo
nome, la rinnegarono tre volte e io li condannai.
Un'altra cosa che non sai è che
impressione gli altri hanno di te. Non è detto che quello che provi
coincida con quello che appare. Vediamo cosa provi.
Ti senti come se fossi precipitato
da un'altezza di qualche centinaio di piedi, senza mai perdere i
sensi, e fossi atterrato in un'aiuola di rose con tale violenza da
ficcarti a terra fino alle ginocchia, mentre lo shock dell'impatto ti
ha spappolato gli organi interni scaraventandoli fuori dal corpo.
Ecco, questo è ciò che provi;
perchè mai dovrebbe apparire qualcosa di diverso ?
Non sorprende dunque che qualcuno
cerchi di deviare la conversazione su un argomento più rassicurante.
Anzi, è possibile che non si tratti
di evitare lei, né la morte, bensì di evitare te.
(Julian Barnes, Livelli di vita,
2013)
Quiqueg nella bara.
Fu in questa circostanza che il mio
povero compagno pagano e stretto amico del cuore, Quiqueg, si prese
una febbre che lo portò a due passi dalla fine infinita...
Povero Quiqueg! Quando la nave era
circa a metà sbudellata, avreste dovuto piegarvi sulla boccaporta e
dare un'occhiata laggiù, dove spogliato, tranne delle mutande di
lana, il selvaggio tatuato andava strisciando, tra l'umidità e la
fanghiglia, come un verde ramarro maculato, in fondo a un pozzo. E un
pozzo o piuttosto una ghiacciaia fu in qualche modo per lui, povero
pagano; che, strano a dirsi, con tutto il caldo delle sue sudate, si
prese là un terribile raffreddore che riuscì in una febbre; e alla
fine, dopo qualche giorno di sofferenze, lo distese nella branda
sulla soglia della porta della morte.
Come deperì e deperì in quei pochi
lentissimi giorni, finchè non parve restare di lui molto di più
dello scheletro e dei tatuaggi !
Ma mentre tutto il resto in lui si
assottigliava e le mascelle si affilavano, gli occhi nondimeno
parevano crescere sempre più grandi, acquistavano una strana
morbidezza di splendore e vi guardavano dolci, ma profondi, dal seno
del male...
Non uno dell'equipaggio che non lo
desse per spacciato e, quanto a Quiqueg in persona, quel che pensasse
del suo caso lo dimostrò validamente un curioso favore che chiese.
Chiamò a sé uno e, prendendogli la
mano, gli disse che a Nantucket aveva visto certe piccole canoe di
legno scuro...e domandando aveva saputo che tutti i balenieri che
morivano a Nantucket venivano composti in quelle nere canoe...
Aggiunse che rabbrividiva al
pensiero di venir sepolto nella branda...No: egli desiderava una
canoa come quelle di Nantucket...
Ora, non appena questo strano caso
si seppe a poppa, il maestro d'ascia ricevette ordine di fare il
volere di Quiqueg, qualunque cosa potesse implicare...Non appena
avvertito dell'ordine, dato mano al regolo, si recò senz'altro nel
castello e prese con gran cura le misure di Quiqueg, segnando
regolarmente con il gesso la sua persona tutte le volte che spostava
lo strumento.
'Ah, povero diavolo! Adesso dovrà
morire', esclamò il marinaio di Long Island...
Quiqueg, tra la costernazione di
tutti, comandò che la bara gli venisse immediatamente portata e non
ci fu modo di negarglielo; visto che, di tutti i mortali, certi
moribondi sono i più tirannici...
Sporgendosi dalla branda, Quiqueg
osservò a lungo con occhio attento la bara.
Poi chiese il rampone, ne fece
togliere il legno e mettere il ferro nella bara, insieme a una delle
pale della lancia. Tutto a sua richiesta, ancora, vennero disposte
gallette in giro per i fianchi, e una fiasca d'acqua dolce alla
testa, insieme a un sacchetto di terra legnosa raschiata in fondo
alla stiva. Fattosi arrotolare come cuscino un pezzo di tela da vela,
Quiqueg allora supplicò di deporlo nel suo ultimo letto, per poterne
sperimentare le comodità, se ne aveva...
Giacque là, senza movimento, alcuni
minuti...Poi, incrociando le braccia, chiese che gli mettessero sopra
il coperchio...E lì giacque Quiqueg, nella bara, mostrando poco più
del suo volto pacato.
'Rarmai' ('Andrà'; 'E' comodo'),
mormorò alla fine, e fece segno che lo rimettessero nella branda.
Ma ora che aveva fatto in apparenza
ogni preparativo per la morte, ora che la bara si era dimostrata ben
adatta, Quiqueg si riprese all'improvviso...
E qui, quando qualcuno esprimeva la
sua lieta sorpresa, egli rispondeva in sostanza che...in un momento
critico si era ricordato di un piccolo dovere a terra che lui
lasciava inadempiuto, e perciò aveva cambiato idea intorno alla
morte, non poteva ancora morire, dichiarò...
Così, ben presto il mio Quiqueg
riprese forza e finalmente, dopo essere stato seduto sull'argano,
indolente, per qualche giorno (mangiando, però, con appetito
gagliardo), saltò in piedi d'improvviso, spalancò le braccia e le
gambe, si diede una buona stirata, sbadigliò un istante e poi,
balzando in testa alla sua lancia issata e bilanciando un rampone, si
dichiarò pronto a combattere.
(Hermann Melville, Moby Dick, 1851)
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RispondiElimina"Allora questa è la fine, ma è anche l'inizio di una storia che è la mia vita e di cui mi piacerebbe ancora parlare con te per vedere insieme se, tutto sommato, c'è un senso. È la mia vecchia teoria: se diventi un esperto di formiche capisco il mondo. Se ti dedichi con compassione, con amore, con tanto ‘culo sulla seggiola’ a qualsiasi soggetto, arrivi a capire il mondo. "La verità è una terra senza sentieri". Cammini, trovi. Non c'è chi ti dice "Guarda, il sentiero per la verità è quello". Non sarebbe la verità. Se rimani nel conosciuto non scoprirai niente di nuovo." (Tiziano Terzani, La fine è il mio inizio).