venerdì 17 aprile 2015

Venerdì 17: bara a dritta!



Nella prima parte della vita, il mondo si divide grossolanamente tra chi ha già fatto sesso e chi no.
Più avanti, tra chi ha conosciuto l'amore e chi no.
Più tardi ancora -se si è fortunati almeno (o forse sfortunati, in realtà)- si divide tra chi ha vissuto il dolore e chi no.
Si tratta di differenze assolute; di tropici che attraversiamo.

E invece, tra un'estate e l'autunno, passammo dall'ansia all'allarme, alla paura, al terrore.
Trentasette giorni in tutto, dalla diagnosi alla morte.
Mi sono sforzato di non abbassare lo sguardo mai, di guardare le cose in faccia: ne è nata una sorta di assurda lucidità.
Quasi tutte le sere, quando uscivo dall'ospedale, mi ritrovavo sull'autobus a fissare con risentimento la gente che tornava a casa a fine giornata.
Come osavano starsene lì seduti con quell'aria svagata e dimentica, ostentando profili serafici, quando il mondo era sul punto di cambiare ?

Abbiamo un cattivo rapporto con la morte, evento al tempo stesso unico e banale; non siamo più in grado di considerarlo parte di un disegno più vasto...
Di conseguenza, anche il lutto diventa inimmaginabile: non solo in termini di durata e profondità, ma anche di consistenza e di tono, nell'inganno delle sue remissioni apparenti, nelle sue ricadute.
Come pure nel suo trauma iniziale: all'improvviso precipitiamo nel gelido Mare del Nord equipaggiati soltanto di un ridicolo giubbotto di sughero che in teoria dovrebbe salvarci la vita.
Per giunta, niente ci può preparare alla realtà nuova nella quale coliamo a picco.
Ho conosciuto una persona convinta, o fiduciosa, di poterlo fare.
Suo marito era da tempo malato di cancro; essendo una donna pratica, lei si era informata in anticipo sulle letture adatte e aveva messo insieme una scorta di classici sul tema della perdita.
Quando venne il momento non fece alcuna differenza.

Quello che già sapevo era che funzionano solo le vecchie parole: morte, pena, dolore, tristezza, crepacuore. Nessuna moderna perifrasi o diagnosi scientifica.
Il dolore è una condizione umana, non clinica e, sebbene esistano pillole che aiutano a dimenticarlo -quello e ogni altra cosa- , non esistono farmaci in grado di guarirlo.
I dolenti non sono depressi, sono semplicemente, giustamente e matematicamente ('si soffre nell'esatta misura di quanto vale la perdita') tristi.

'Ho parlato a tavola di mia moglie morta, mentre si conversava.
Cala un silenzio breve, un comune spavento, un brivido d'orrore...'
Presi la decisione (ma dato lo scompiglio che mi regnava in testa forse è più giusto dire che fu la decisione a prendere me) di parlare di mia moglie ogni volta che mi pareva o ne sentissi il bisogno...Mi sono reso conto ben presto di come il dolore selezioni e riposizioni le persone che circondano il dolente; di come metta alla prova gli amici, di come qualcuno risulti promosso, e qualcuno bocciato...
Ricordo una conversazione a tavola...; ero in un ristorante con tre amici sposati più o meno coetanei...Feci il nome di mia moglie: nessuno raccolse. Lo ripetei: stessa reazione.
E' possibile che la terza volta avessi la deliberata intenzione di provocarli, perchè quel comportamento, che a me era parso più un segno di vigliaccheria che di buona educazione, mi aveva fatto incazzare.
Spaventati dal contatto con il suo nome, la rinnegarono tre volte e io li condannai.

Un'altra cosa che non sai è che impressione gli altri hanno di te. Non è detto che quello che provi coincida con quello che appare. Vediamo cosa provi.
Ti senti come se fossi precipitato da un'altezza di qualche centinaio di piedi, senza mai perdere i sensi, e fossi atterrato in un'aiuola di rose con tale violenza da ficcarti a terra fino alle ginocchia, mentre lo shock dell'impatto ti ha spappolato gli organi interni scaraventandoli fuori dal corpo.
Ecco, questo è ciò che provi; perchè mai dovrebbe apparire qualcosa di diverso ?
Non sorprende dunque che qualcuno cerchi di deviare la conversazione su un argomento più rassicurante.
Anzi, è possibile che non si tratti di evitare lei, né la morte, bensì di evitare te.

(Julian Barnes, Livelli di vita, 2013)


Quiqueg nella bara.

Fu in questa circostanza che il mio povero compagno pagano e stretto amico del cuore, Quiqueg, si prese una febbre che lo portò a due passi dalla fine infinita...
Povero Quiqueg! Quando la nave era circa a metà sbudellata, avreste dovuto piegarvi sulla boccaporta e dare un'occhiata laggiù, dove spogliato, tranne delle mutande di lana, il selvaggio tatuato andava strisciando, tra l'umidità e la fanghiglia, come un verde ramarro maculato, in fondo a un pozzo. E un pozzo o piuttosto una ghiacciaia fu in qualche modo per lui, povero pagano; che, strano a dirsi, con tutto il caldo delle sue sudate, si prese là un terribile raffreddore che riuscì in una febbre; e alla fine, dopo qualche giorno di sofferenze, lo distese nella branda sulla soglia della porta della morte.
Come deperì e deperì in quei pochi lentissimi giorni, finchè non parve restare di lui molto di più dello scheletro e dei tatuaggi !
Ma mentre tutto il resto in lui si assottigliava e le mascelle si affilavano, gli occhi nondimeno parevano crescere sempre più grandi, acquistavano una strana morbidezza di splendore e vi guardavano dolci, ma profondi, dal seno del male...
Non uno dell'equipaggio che non lo desse per spacciato e, quanto a Quiqueg in persona, quel che pensasse del suo caso lo dimostrò validamente un curioso favore che chiese.
Chiamò a sé uno e, prendendogli la mano, gli disse che a Nantucket aveva visto certe piccole canoe di legno scuro...e domandando aveva saputo che tutti i balenieri che morivano a Nantucket venivano composti in quelle nere canoe...
Aggiunse che rabbrividiva al pensiero di venir sepolto nella branda...No: egli desiderava una canoa come quelle di Nantucket...
Ora, non appena questo strano caso si seppe a poppa, il maestro d'ascia ricevette ordine di fare il volere di Quiqueg, qualunque cosa potesse implicare...Non appena avvertito dell'ordine, dato mano al regolo, si recò senz'altro nel castello e prese con gran cura le misure di Quiqueg, segnando regolarmente con il gesso la sua persona tutte le volte che spostava lo strumento.
'Ah, povero diavolo! Adesso dovrà morire', esclamò il marinaio di Long Island...

Quiqueg, tra la costernazione di tutti, comandò che la bara gli venisse immediatamente portata e non ci fu modo di negarglielo; visto che, di tutti i mortali, certi moribondi sono i più tirannici...
Sporgendosi dalla branda, Quiqueg osservò a lungo con occhio attento la bara.
Poi chiese il rampone, ne fece togliere il legno e mettere il ferro nella bara, insieme a una delle pale della lancia. Tutto a sua richiesta, ancora, vennero disposte gallette in giro per i fianchi, e una fiasca d'acqua dolce alla testa, insieme a un sacchetto di terra legnosa raschiata in fondo alla stiva. Fattosi arrotolare come cuscino un pezzo di tela da vela, Quiqueg allora supplicò di deporlo nel suo ultimo letto, per poterne sperimentare le comodità, se ne aveva...
Giacque là, senza movimento, alcuni minuti...Poi, incrociando le braccia, chiese che gli mettessero sopra il coperchio...E lì giacque Quiqueg, nella bara, mostrando poco più del suo volto pacato.
'Rarmai' ('Andrà'; 'E' comodo'), mormorò alla fine, e fece segno che lo rimettessero nella branda.

Ma ora che aveva fatto in apparenza ogni preparativo per la morte, ora che la bara si era dimostrata ben adatta, Quiqueg si riprese all'improvviso...
E qui, quando qualcuno esprimeva la sua lieta sorpresa, egli rispondeva in sostanza che...in un momento critico si era ricordato di un piccolo dovere a terra che lui lasciava inadempiuto, e perciò aveva cambiato idea intorno alla morte, non poteva ancora morire, dichiarò...
Così, ben presto il mio Quiqueg riprese forza e finalmente, dopo essere stato seduto sull'argano, indolente, per qualche giorno (mangiando, però, con appetito gagliardo), saltò in piedi d'improvviso, spalancò le braccia e le gambe, si diede una buona stirata, sbadigliò un istante e poi, balzando in testa alla sua lancia issata e bilanciando un rampone, si dichiarò pronto a combattere.

(Hermann Melville, Moby Dick, 1851)






























2 commenti:

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  2. "Allora questa è la fine, ma è anche l'inizio di una storia che è la mia vita e di cui mi piacerebbe ancora parlare con te per vedere insieme se, tutto sommato, c'è un senso. È la mia vecchia teoria: se diventi un esperto di formiche capisco il mondo. Se ti dedichi con compassione, con amore, con tanto ‘culo sulla seggiola’ a qualsiasi soggetto, arrivi a capire il mondo. "La verità è una terra senza sentieri". Cammini, trovi. Non c'è chi ti dice "Guarda, il sentiero per la verità è quello". Non sarebbe la verità. Se rimani nel conosciuto non scoprirai niente di nuovo." (Tiziano Terzani, La fine è il mio inizio).

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