'Avere
un mondo' è
qualcosa di più del semplice 'essere al mondo'.
Tutte
le cose 'sono' al mondo , ma il corpo 'è' al mondo come colui che 'ha un mondo', come colui per il quale il mondo non è solo il luogo
che lo ospita, ma anche e soprattutto il termine in cui si proietta.
Al
limite possiamo dire che siamo al mondo solo perchè siamo impegnati
in un mondo.
Il
giorno in cui questo impegno cessa, in cui cessa la nostra presa sul
mondo, il corpo non si riconosce più, non si sente più vivo, e
perciò si congeda dalla terra.
Questo
congedo è preparato da un progressivo disinteresse per il mondo, da
una caduta di significati, da una progressiva cecità,che non
consente più di vedere un senso nelle cose che pur si vedono.
Ci
sono dei ciechi che non perdono il loro contatto col mondo, altri
che lo perdono prima di diventare ciechi; questo perchè il contatto
vitale del nostro corpo col mondo non coincide con quello
sensoriale.
Il
nostro corpo, infatti, è qualcosa di più delle possibilità che
gli concedono i suoi sensi, la sua vita può essere al di sopra o al
di sotto di queste possibilità, perchè a decidere il suo grado di
vitalità non sono i sensi, ma il suo interesse per il mondo.
Nella
domanda c'è un'attesa, e nell'attesa c'è la possibilità che le
cose non
siano
come si attendono. Dalla possibilità negativa nasce per il corpo il
suo
impegno
nel mondo, il suo intervento per modificare la disposizione delle
cose
che, così come sono, non rispondono immediatamente alle sue
aspettative.
Le
cose, infatti, come dice Sartre, sono solo 'promesse', diventano
realtà
quando
il corpo le raggiunge e raggiungendole verifica quello che Bachelard
chiama
'il coefficiente di avversità' degli oggetti, la loro resistenza, la
loro
minaccia,
la loro avversità...
Essere
nel mondo significa allora per il corpo sfuggire all'assedio del
mondo
per
abitare il mondo, fuggire dal proprio essere in mezzo al mondo per averlo
come
luogo di abitazione...
In
questo gettarsi fuori di sé, in questo pro-getto, il corpo è sempre
superato
dalle
cose verso cui si protende, per cui io sono il mio corpo sono non
essendolo,
solo superandomi per essere al mondo.
Per
chi non si supera, per chi si trattiene presso di sé, il corpo
diventa un
impedimento,
quell'impedimento che io divengo a me stesso quando mi nego
come
apertura originaria.
In
un corpo dove sono menomate le normali relazioni col mondo, l'
'anima'
che
è tutta in queste relazioni, non regge l'assalto del mondo.
Un'umanità
sempre meno umana e sempre più vicina a comportamenti
animali
non l'avremo con la riduzione del suo 'spirito',,,, ma attraverso una
contrazione
dell'ambiente, con l'insorgenza di comportamenti sempre più
abitudinari
e sempre più volti all'adattamento che al suo superamento...
(U.
Galimberti, Il corpo, 1983)
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