Tutto è
diventato talmente complicato che, per raccapezzarsi, ci vorrebbe uno
spirito eccezionale.
Non basta
più, infatti, giocare bene il gioco. La questione è un'altra e
torna incessantemente a riproporsi: questo gioco, ora, lo possiamo
giocare davvero ? Ed è davvero quello giusto ?
(L.Wittgenstein)
E' inutile negarlo: quel che si respira
nelle nostre società è un'aria da 'fine del gioco'.
Si ha la netta sensazione che qualcosa
di importante sia giunto al termine e, che -al di là dell'agitarsi
convulso delle metropoli e dei mercati (ma forse proprio dentro
e per questo stesso agitarsi)
- una lunga fase storica stia tramontando.
Sembra
di avere davanti un paziente che, pur tenuto in vita dalle macchine,
sappiamo già 'clinicamente morto'. Il
problema è che quel paziente siamo (anche) noi.
Come alla fine
dell'Impero Romano o per la 'finis Austriae', seppure diversi e
ammodernati, i segnali ci sono tutti, e da tempo.
E mai come oggi
tornano di moda nuovi millenarismi, con le consuete parole e
premonizioni, suggestive e potenti: apocalisse, catastrofe, fine del
mondo.
E, come è sempre
accaduto nella storia umana, si diffonde il timore che non ci possano
essere altri modi di vivere e di stare nel mondo, altri futuri,
futuri altri.
Proverò
in questo breve saggio a leggere questa fase a partire da un taglio
inconsueto, proseguendo così sul filo rosso avviato in un mio più
corposo testo del 2007 (1): quello del gioco.
Descriverò,
cioè, la catastrofe in corso a partire da categorie e parametri
tipici di quella che in quella sede ho iniziato a definire ludetica
(un'etica-estetica che trae dal
giocare ed esprime nel giocare le sue visioni ed i suoi ideali
teorico-pratici).
LA FINE
DELL'IL-LUSIONE
Soltanto
chi lascia il labirinto può essere felice.
Ma
soltanto chi è felice può uscirne.
(M.
Ende)
Quel
che un filosofo ludetico riscontra oggi è in primo luogo un forte
calo della motivazione a giocare, una demotivazione preliminare a
'mettersi in gioco', una perdita di fiducia preventiva nel senso e
nel valore del giocare, una fine dell'il-lusione
appunto.
Moltissimi esseri
umani sono oggi esclusi dal gioco stesso: milioni di persone nel
mondo non possono neppure 'entrare allo stadio', altri hanno il pass
ma possono solo fare da spettatori; altri ancora stanno sul terreno
di gioco ma sono relegati (e forse per sempre) in panchina, ad
attendere il loro turno.
E' difficile
chiedere motivazione e vitalità a chi non può neppure provare a
giocare.
Se la trovano, sarà
per dedicarsi ad altri giochi (ad es. drogarsi, studiare da fanatici
religiosi, affiliarsi alla mafia, allenarsi per diventare kamikaze o
quantomeno per distruggere vetrine, incendiare cassonetti o cabine
telefoniche...).
Se invece viene
loro consentito l'accesso al campo le persone iniziano a giocare, ma
come senza crederci: il gioco viene giocato sì, ma automaticamente,
senza voglia, senza interesse, senza prospettive. Depressivamente,
direi.
E' facile vederlo
oggi negli occhi degli studenti, quando vengono a lezione o a
chiedere la tesi: magari sono stati efficienti e rapidi nel
laurearsi, sono interessati a vari argomenti e testi, appaiono
intelligenti e preparati sull'esame specifico, ma....i loro occhi –
se sai vederlo, se hai la forza di vederlo- ci dicono,
disperatamente: 'che senso ha tutto questo, cosa c'entra con la mia
esistenza più profonda, verso dove mi sto muovendo, che ne è delle
mie vocazioni e della mia libertà...?'.
Perchè le loro
espressioni e le loro domande sono, in tempo di catastrofe, e seppur
tacitate, anche le nostre (che, per merito, per sorte, o anche solo
per età, stiamo -almeno per ora- 'dall'altra parte'...).
Il peggior nemico
del gioco, come si sa, è proprio colui che gioca senza
coinvolgimento.
Chi lo fa smonta il
gusto di giocare e di chi gioca accanto a lui molto più di uno che
si rifiuta di giocare e sta fuori ed anche più di uno che gioca
barando (e che, almeno, è davvero -seppur perversamente- coinvolto).
Ma un filosofo
ludetico a questo punto non può non chiedersi: perchè?
Da
dove deriva questa 'apocalisse del senso'
che ci attanaglia e ci toglie la vita, ci fa perdere il desiderio e
lo slancio, non ci permette più di coltivare l'il-lusione ?
Proviamo
a rispondere: perchè in questo gioco si bara.
E non barano soltanto e soprattutto i giocatori (il che potrebbe 'far
parte del gioco'), ma barano proprio quelli che hanno fatto le
regole, le propongono e le impongono, ergendosi a loro garanti.
Il
banco, insomma.
Non mancano esempi
di stringente attualità e non vale la pena di enumerarli tutti: ma
fatti come la trattativa Stato-Mafia, la corruzione ed il peculato
nei partiti politici, la nauseabonda e vuota retorica della
'meritocrazia' e della 'giustizia uguale per tutti' ci stanno davanti
agli occhi ogni giorno e non rappresentano più 'episodi', ma veri e
propri 'assetti strutturali', regole coperte ma essenziali del gioco
sociale in corso.
Ma come si può
essere motivati a giocare un gioco in cui le regole sono contraffatte
ed infrante da chi dovrebbe garantirle (direttori, mediatori,
arbitri) ?
E come si può
credere che possa esserci fiducia collettiva e condivisa in un
sistema che premia i bari e umilia gli onesti, ed in cui si sa già
all'inizio 'chi vincerà' ?
E come si può
pensare che i bari non crescano, per numero e perfezionamento dei
loro metodi ?
Infatti crescono, e
guadagnano in potere e denaro, e proprio per questo vanno a gestire
il banco e il doppio sistema delle regole (sia quello formale che
quello coperto).
Ma la catastrofe in
corso, valutata da un esperto di ludetica, presenta dei livelli di
degrado ancora più profondi, allarmanti e demotivanti.
Non ci troviamo
soltanto di fronte ad un gioco in cui si bara di volta in volta, nei
singoli giochi.
No, è
il giocare stesso ad essere truccato.
Nel senso che i
giocatori non seguono neppure le regole delle regole, le premesse
costitutive e dichiarate del loro giocare, la loro epistemologia
profonda.
Diciamo di seguirle
(e continuiamo a parlarne diffusamente, a scriverne, a far convegni e
lezioni...), ma facciamo altro, anzi esattamente l'opposto.
Parliamo di
democrazia mentre la trasformiamo in oligarchia; parliamo di pace ma
facciamo la guerra permanente; parliamo di ecologia ma inquiniamo il
pianeta come non mai; continuiamo ad insistere su lavoro e denaro, ma
senza elargirli (una sorta di tossicodipendenza ad astinenza
garantita!); blateriamo di cittadinanza e costruiamo assistenzialismo
e utenza; invitiamo all'autonomia e alla libertà, ma condizioniamo
ed omologhiamo gli immaginari e puniamo le persone che -nonostante
tutto- riescono ad essere critiche ed assertive...
Anche qui si
potrebbe proseguire nell'elenco, purtroppo.
Le cose vanno
avanti così, il gioco procede.
Ma per quanto
ancora, e con quali giocatori, e con quale livello di motivazione ?
Perchè quando si
mangia la foglia, e si scopre che il gioco è truccato, i giocatori
onesti, proprio quelli che amano il gioco ed il giocare, si sentono
traditi, ed escono dal gioco.
E restano sul
campo, a giocare, solo i bari e i barbatrucchi.
Quando questo
accade, quando un sistema non è più credibile in sé e non è più
possibile credere che sia possibile riformarlo o rifondarlo
dall'interno, allora siamo entrati nella fase della sua catastrofe.
E ci siamo, direi,
oggi.
La catastrofe non è
qualcosa che deve avvenire in futuro, è già qui tra noi, si muove
nelle nostre vite e ci attraversa. Basta solo vederla. Ma...
MOSCA
CIECA
Può
essere, molto semplicemente, che non si voglia credere alla
catastrofe, già ampiamente provata, perché è più comodo
ingannarsi, illudersi. Oggi sembrano tutti sopraffatti dal fascino
dell'autoinganno. E finiscono per voler lucrare anche sul proprio
funerale
(A.
Zanzotto)
Ci
sarebbe, a questo punto, da aspettarsi un'aperta ammissione di
fallimento che ci permettesse di giungere ad un condiviso 'fermo
gioco!'; ci sarebbe da sperare
in una fase di transizione che preveda confronti e conflitti aperti
su 'come cambiare gioco';si
potrebbero ipotizzare scenari alternativi e iniziare a sperimentarli,
magari su scale piccole, ma significative.
Un filosofo
ludetico (ed anche un uomo di scienza tradizionale, coerente con i
suoi dettami sperimentali) proverebbe a fare così.
Ma non
farebbero i conti con il 'gioco dei giochi', con la grande
'col-lusione' che ci
avvolge, e che rende decisamente improbabile una 'via
d'uscita non catastrofica dalla catastrofe'.
Da un
punto di vista ludetico, infatti, ci si viene invece a trovare
davanti ad una evidente e condivisa mistificazione:
sarebbe come immaginarsi un
gioco di nascondino in
cui chi cerca finge di non vedere le persone nascoste e fa come se
niente fosse. O un gioco di acchiappare
in cui chi scappa mette le bende agli occhi di chi rincorre. Tutto
pare trasformarsi in un grande mosca cieca di
massa (ma forse, anche qui, fingendo di non riconoscere chi hai
beccato...!).
Ciao Enrico,
RispondiEliminanon c’è bisogno di dire che leggerò con avidità queste nuove riflessioni ludetiche. Mi vengono già alcune domande e considerazioni e, dato che dopo aver azzeccato il consiglio su Vilas-Mata mi sono molto ringalluzzito, le faccio subito.
Dici che la perdita di fiducia preventiva nel senso e nel valore del giocare è dovuta al fatto che in questo gioco si bara. E barano proprio quelli che hanno fatto le regole e che dovrebbero garantirle, configurando in questo modo un assetto strutturale diverso con delle regole coperte ma essenziali.
Domanda: il concetto di “barare” prevede una volontarietà che a me non pare di riscontrare in questi soggetti, anche loro mi sembrano parte del gioco, pedine non (più?) in grado di definirne le regole. Dico questo perché secondo me c’è il rischio di portare il confronto su un livello sbagliato, focalizzandosi su obiettivi definiti e identificabili (politici corrotti ecc…) e alimentando un antagonismo che non esce dalle premesse di questo gioco truccato.
Ho in mente in particolare una frase, che credo essere di Gandhi, che dice: bisogna combattere l’antagonismo, non l’antagonista. Questo sposterebbe la partita su un terreno di gioco che mi viene da definire “mentale”. Una non collaborazione prima di tutto con un certo sistema di pensiero, che forse potrebbe farci smettere di girare a vuoto dentro il labirinto (se fosse il nostro stesso girarci dentro, il nostro credere nel labirinto, che ce lo fa vedere?).
Mi viene in mente una scena di Matrix: Neo viene portato dall’Oracolo per capire se è veramente l’eletto e via discorrendo. Nella sala d’attesa ci sono tipi stravaganti che hanno lo stesso appuntamento. Neo si ferma a guardare un bambino rasato e in tunica bianca che piega un cucchiaio con il pensiero, lo raddrizza allo stesso modo e poi glielo porge. Lui ci prova a sua volta ma niente, chiaramente. Allora il bambino gli dice:
“non cercare di piegare il cucchiaio, non è possibile. Concentrati piuttosto sulla verità”.
“Quale verità?” chiede Neo perplesso.
“Che non c’è nessun cucchiaio”.