Ieri
pomeriggio è scattato l'allarme rosso, l'allerta generale.
Ci
hanno sgomberato dalla facoltà, non ho neppure potuto fare il solito
ricevimento studenti.
Alle
15, tassativamente, dovevamo uscire.
Non si
trattava di un'esercitazione, o di una simulazione.
L'hanno
chiamato ciclone, stavolta.
Lo
stiamo vivendo veramente.
File
di auto per le strade, tutte che tornano a proteggersi dentro casa.
Come
sfollati, agiati e sicuri dentro i loro gusci, ma con un senso di
angoscia.
Io
sfreccio in bici, a Terrapieno, sulla strada e tra i buchi nei quali
sono caduto più di un anno fa.
Diluvio
notturno, fulmini come punizioni divine dal cielo, tuoni come rombi
di guerra.
Stracci
sotto le portefinestra, occhi al soffitto del bagno, orecchie che non
prendono sonno.
Penso
a chi sta per strada, che ha trovato rifugio nei cespugli, sotto i
portici delle banche.
Penso
ai poveri, a chi non ha casa, a chi si bagna insieme ai cani.
Penso
a me, a questa ennesima notte solitaria, al buio fuori, al suono del
vento e del mare in tempesta.
Il
sentimento del sublime non mi assiste.
Mi
sveglio -e mi alzo- tardi.
Fuori
piove ancora, non posso neppure andare al giardinetto o a fare la
spesa, non ha senso agitarsi.
Cagliari
è stata colpita, ma non troppo.
Ovviamente,
Capoterra e Olbia sono di nuovo a galleggiare nell'acqua.
Ovviamente,
poco o niente è stato fatto dalle alluvioni del recente passato.
Piccole,
sopportabili catastrofi quotidiane, in fondo.
Tutto
passa, siamo in buone mani.
Appare
in tv la faccia del capo della Protezione civile sarda: sarà anche
bravo, ma si chiama Nudda.
Siamo
in emergenza, dice, ma ha uno sguardo lento, un parlare calmo,
rassicurante.
Come
sotto anestesia: ci stiamo adattando anche a questo, ci stiamo
abituando a vivere così.
Non ci
si lamenta neppure quasi più. Non si chiede neppure più niente.
Si
vive solo in attesa che passi, in attesa che si dimentichi, in attesa
che torni...
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