L'esausto
è molto più dello stanco...Lo stanco ha esaurito solo la messa in
atto, mentre l'esausto esaurisce tutto il possibile. Lo stanco non
può più realizzare, ma l'esausto non può più
possibilizzare...Esaurisce quel che nel possibile non si realizza.
Mette fine al possibile, al di là di ogni stanchezza, 'per
continuare a finire'...
L'esaurimento:
le variabili di una situazione si combinano a condizione di
rinunciare ad ogni tipo di preferenza, a qualsiasi organizzazione di
obiettivi, a ogni forma di significato. Non è più per uscire o per
restare, e non ci si serve più dei giorni e delle notti. Non si
attua più, benchè si compia.
Non
siamo nemmeno passivi: anzi, ci diamo da fare, ma per nulla.
Eravamo
stanchi di qualcosa, siamo esausti di niente.
Durante
il viaggio appena concluso (è bello ora potersi godere la solitudine
e il silenzio della mia casetta, sentire solo il rumore della strada
o il vorticare della lavatrice...), Vivi mi ha fatto conoscere questo
libretto di Deleuze, uno dei suoi ultimi scritti, 'L'esausto',
scritto nel 1992.
Dedicato
a Beckett, ma in cui abbiamo ritrovato assonanze evidenti anche con
Bacon e, seppure forse all'inverso, con Gehry e Gaudì, tre
protagonisti di questo viaggio.
Ma
pure con quel fantastico quadro di Anselm Kiefer, ammirato al
Guggenheim, 'Il rinnovato ordine della notte' del 1997, in cui un
uomo fa il morto, disteso e immobile, sotto l'immenso arco stellato,
buio e vuoto del cielo.
Mi
ricollego ora ad alcune riflessioni emerse poco prima di dormire,
qualche notte fa, sul rapporto tra tecnologia e sacro: quel che in
Gaudì ancora appare connesso e riconnettibile (e questo si realizza
compiutamente nella sempre incompiuta Sagrada Familia), negli altri
appare invece irrimediabilmente e ineluttabilmente, irreversibilmente
scisso, strappato, spappolato, liquefatto.
Il
nesso è perduto per sempre.
Gaudì
appare ancora un uomo dell'Ottocento, nel suo tentativo mistico di
ritrovare un'alleanza architettonica tra le polarità dell'umanesimo
religioso e del razionalismo tecnocratico.
Gehry
appare ancora un uomo del Novecento, nel suo tentativo acrobatico di
riconnettere il titanio con la luce, il cemento e il vetro con
l'enormità del nulla dello spazio terribilmente e magnificamente
aperto.
Magari
sono stanchi, provati, cercano la loro energia nella natura e nel
cosmo, forse non più negli uomini.
Provano
a trasferirla in arte, colori, forme geometriche, numeri, slanci di
pietra e cemento.
Bacon,
Beckett, Kiefer appaiono già oltre, esauriti ed esausti.
Se
vi è ancora mistica è solo del dolore e della disperazione.
Se
vi è colore o linguaggio, è colore e linguaggio impossibile, e
dell'impossibile, ormai.
L'immagine
è un soffio, un fiato, ma spirante, in via d'estinzione. L'immagine
è quel che si spegne, si consuma, è una caduta. E' una pura
intensità che si definisce come tale per la sua altezza, cioè per
il suo livello sopra lo zero, che descrive solo cadendo...E' in
questo senso che l'immagine concentra un'energia potenziale, che
trascina con sé nel processo di autodissolvimento. L'immagine
annuncia che la fine del possibile è vicina, per il personaggio di
'...nuvole..' .come per Winnie che sentiva uno 'zefiro', un 'soffio'
subito prima del buio eterno, la buia notte senza uscita.
Non
c'è più immagine, come non c'è più spazio: al di là del
possibile non c'è che il buio, come nel terzo e ultimo stato di
Murphy, dove il personaggio non si muove più in spirito, ma è
diventato un atomo indistinguibile, abulico, 'nella tenebra della
libertà assoluta'.
E'
la parola della fine, 'nessun modo'...
'In
nessun modo meno. In nessun modo peggio. In nessun modo niente. In
nessun modo ancora.'
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