domenica 1 giugno 2014

tra thai, lao lao e kampuchei

Cosa ricordo di questo viaggio ? E cosa ricordare ? E cosa raccontare e raccontarsi ?

Le distanze.
Quando fai questi salti ti rendo conto di quanto sia grande e diverso il mondo, di quanti passaggi devi fare per starci sopra e dentro, di quante miglia mentali devi attrezzare l'animo.
Per la prima volta ho attraversato due continenti interi (e mezzo, se considero anche la punta afro-egiziana del Sinai e del Mar Rosso, che ho attraversato in pochi minuti, quasi meglio di Mosè...), osservando dall'alto i deserti arabici di sabbia e i deserti di montagna iraniani, le propaggini dell'Himalaya e l'infinito Mekong.
Un altro mondo, davvero.
Abitato da umani davvero diversi, con ossessioni e usi davvero altri.
E, d'altra parte, sentire quanto cresce l'omologazione strisciante, quanto il denaro e le merci ci uniscono, quanto il turismo faccia strage di culture e differenze, e soprattutto di tempi.
E quanto, su questo, comunichiamo.

L'acqua.
E' stato un viaggio caldissimo, madido di sudore, di liquidi che scorrono e ti riempiono e ti svuotano. Un viaggio di fiumi ed acqua, di docce e centinaia di bottigliette di drinking water, di viaggi su barche lentissime, di cascate e pioggie brevi, torrenziali.
Più ci bagnavamo e più avevamo caldo e più sudavamo.
Loro stanno copertissimi, invece, anche al sole. E bevono poco.
Ed hanno ragione, si vede. Ma noi non riuscivamo a cambiare abitudine, e pagavamo.
Le acque stanno nel terreno, sempre intriso, spesso carico di riso.
Dall'alto le città sono spesso acquitrini, paludi e stagni, di acqua dolce o salmastra.
La stessa Bangkok mi è apparsa al ritorno tutta costellata di canali e specchi d'acqua, una metropoli immensa che poggia su qualcosa di liquido.
E così Angkor, con i suoi fossati magnificenti, le sue opere idrauliche e architettoniche e sacre insieme, i suoi artifici d'acqua e di pietra di cui possiamo oggi solo intuire la complessità e la bellezza...

Il cibo.
Ho provato di tutto, credo. Fuorchè i grilli e gli scarafaggi fritti, non ce l'ho fatta.
Ma per il resto, non mi sono tirato indietro davanti al ghiaccio incerto dei succhi di frutta e all'acquavite di riso (lao lao), alla pasta di pesce fermentato, alle sour soup e ai sour sop, ai chilli di ogni origine, alle spezie e alle erbe, alle alghe e alle pizze, agli amok e ai lak lak, alle insalate di mango e papaya in cui c'è tutto fuorchè il mango e la papaya, ai peperoni spacciati per melanzane, ai brodi e alle zuppe con noodle e ramen, alle salse di cocco e curry, ai pesci gatto e alle cernie di fiume, alla carne di bufalo e di altri animali non identificati.
Qualche piccola diarrea ogni tanto, qualche accenno di cistite, ma niente di più.
Anche questa volta il mio sistema interno ha retto, abbastanza assuefatto ormai, grazie ai viaggi in Africa e America latina.
Ho amato i sapori, in fondo sempre estremi: o piccantissimi o dolcissimi, senza mediazione.
Mi è mancato il sale (ieri mattina, appena tornato, al risveglio, mi sono goduto dei crackers con olive, tonno e formaggini...).

Le immagini.
Ho sognato le apsara, le vedevo continuamente, ne ho comprato icone di varia foggia e materia, e le ho portate con me. Ora danzano sulla mia scrivania.
Spero mi portino fortuna.
Vedo ancora i garuda, con i loro baffoni da falsi cattivi.
E onde, tartarughe, angeli e demoni, serpenti alati, che si muovono sull'Oceano di Latte.
Difficile star dietro a tutta quest'orgia di simbologie e mitologie sconosciute, ambivalenti, contraddittorie, stranianti.
Ma è stato un viaggio di colori: arancioni e rossi e neri, e oro.
Di incensi e fuochi, di gong e tamburi, di milioni di Buddha (sdraiati, con le mani avanti, incrociate sulle gambe o sul petto, in cammino, morti e rinati, mai nati e mai morti, risvegliati e dormienti, santi e profani, ridicoli e grassi, ridenti e sofferenti, vecchi e infanti...).

I luoghi più belli.
Il mercato di Chiang Mai, unica tappa in terra Thai.
La bellezza dell'arte e del commercio, della vita vera e per turisti, tutta intrecciata insieme.
I templi e i cartoni animati di vetro nel palazzo reale a Luang Prabang, città davvero elegante e sinuosa, quasi europea e del tutto orientale.
La processione dei suoi monaci all'alba, che ricevono riso e cibo in elemosina sulla strada.
Le Quattromila isole e soprattutto, fra queste, la dolce Don Khon, e la signora della Souksanh che ci accolto coi suoi triclini, in faccia al Mekong e alle sue file di palme perfette.
E -ancor più di Angkor Wat- lo splendore di Angkor Thom e soprattutto le facce surreali e inquietanti del Bayon, mitomani e stupende.
E l'intrico di giungla e pietre, legati da immensi intrichi dei kapok, a Ta Prohm.
E i viaggi fluviali, e i villaggi fluttuanti su zattere, e la vita quasi primitiva di chi ci vive, tra animali e piante, in una relazione ancora quasi intatta, non ancora immunizzata, tra i viventi.

Le fissazioni.
Lasciare le scarpe fuori dai templi, dalle case, dagli hotel. E' un continuo mettersi e togliersi le scarpe: il secondo giorno mi sono comprato dei sandali.
Aprire sezioni del Cambodian People's Party per ogni dove. Un comunismo oscuro, leggero, assillante.
Offrire the verde scipito o riso bianco, più o meno glutinoso.
Ringraziare continuamente con le mani giunte al petto, e inchinarsi leggermente, oscillando.
Sorpassare a sinistra, a destra o al centro, suonando sempre il clacson, con gusto e perfidia.
Arrivare sempre in ritardo o in anticipo agli appuntamenti, per prenderti di sorpresa (ma quando sei tu in ritardo, partire puntualissimi e senza avviso...).
Giocare ad una sorta di volano, ma con i piedi, compiendo tacchettate mirabolanti.
Mettersi le mascherine in faccia, non si sa se contro i colpi d'aria o lo smog.
Sorridere sempre, qualunque cosa accada, e non arrabbiarsi mai, anche davanti a Pol Pot in persona.

Relax.
Farsi massaggiare da uomini, donne anziane, giovinette, con l'olio o senza, i piedi o tutto il corpo.
Passeggiare la sera, quando sale un leggero vento, sui lungofiume.
Navigare lenti sui fiumi, con ore e ore di viaggio davanti e alle spalle, senza orario.
Il ronzio del ventilatore acceso per tutta la notte, su letti comodi e ampi.
Il silenzio delle foreste, i suoni degli uccelli, il buio dei templi.
Il moto eterno e senza onde dell'immenso Mekong.
La vita nelle palafitte, sul legno e sull'acqua.
I fiori bianchi, rossi, gialli, e le farfalle.
Stare sempre scalzi, e quasi nudi.
Non passare per capitali o grandissime città, se non in aeroporto.
Vedersi le finali Uefa e Champions, alle 2 del mattino, spaparanzati sul letto, al buio e senza volume.
Stare in viaggio con uno come Stefano, che sa sempre orientarsi e organizzarsi meglio di me ( ed è cosa rara, e comoda...).

Catastrofi.
La deforestazione crescente di intere colline, praticata da indigeni per costruire case e ottenere energia, ma soprattutto dalle truppe di cinesi che asfaltano e ammobiliano mezza Asia.
L'offerta sessuale continua, soprattutto in alcune città frequentate da occidentali e riccastri, in una situazione simil-cubana.
Mercati di droga capillari, con migliaia di giovani che vivono tutta la vacanza in paradisi artificiali e a basso costo, in luoghi 'happy' che attirano il dolore e il vuoto.
Molta miseria, tanti disabili (anche vittime delle mine inesplose lasciate dalle nostre guerre), divaricazioni insopportabili tra hotel di lusso e baraccopoli, e anche tra i loro tenori di vita (milioni in bici o in motorino, ma chi ha la macchina gira in Suv enormi, come un boss...).
Bambini e ragazzine sempre in giro o già a lavoro, col viso disfatto dalla fatica e da notti troppo brevi.
Un comunismo di facciata, finto, senza senso, vecchio e inutile, con le faccione ridicole dei capi sempre e ovunque, e col mondo che va altrove.

A babbo morto.
Sono tornato, come si dice, a babbo morto.
Quando non c'era più niente da fare o da dire per lui.
Troppo tardi, insomma.
Sapevo che stava per morire, ma ho fatto bene a partire, e a non tornare.
La mia famiglia d'origine è morta da tempo, io non ne sono che un relitto.
Ora, definitivamente, ancora di più.
Ho pensato a lui tra le rovine, l'ho lasciato andare sui fiumi, l'ho salutato all'alba e al tramonto.
Un commiato ad oriente.
Che le sue carni si macerino, si cremino, si sciolgano nel nulla.
E che anche io accetti la verità di questo viaggio...

A casa.
Ora sono a casa, dopo tanti aerei ed attese.
Godo a dormire nel mio letto, a mangiare le solite cose.
A bere l'acqua del rubinetto.
Ieri, mentre arrivavo dall'aeroporto, mi sono venuti incontro sulla strada quattro ragazzini filippini in bicicletta, vocianti e allegri.
Mi sono schizzati a fianco, scattanti e placidi.
Ascolto la loro lingua, non più così straniera.
Vivono nel mio quartiere, ora, ed io nel loro...





















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