L'altra sera ho visto un film palestinese.
Una famiglia è stata sterminata dai bombardamenti israeliani e quel che ne resta ora non può ricongiungersi: una parte sta in Germania e l'altra nella striscia di Gaza.
Si parlano e si incontrano ogni tanto online.
Ad un certo punto una ragazza dice: 'E' colpa di Israele se non possiamo incontrarci'.
E lo zio risponde: 'No, non è colpa loro. É colpa del mondo'.
Una frase che mi ha colpito come un missile, lì al buio.
Una frase che colpisce ancor più nel primo anniversario della guerra ucraina.
Cosa abbiamo fatto per i palestinesi, e per la loro guerra infinita?
Indifferenza e ipocrisia, sudditanza ai diktat americani, retorica resistenziale: nient'altro.
Non mandiamo inviati a Nablus o a Gerico, non gli dedichiamo trasmissioni ad ogni ora e ad ogni tg, non interveniamo nel conflitto se non come finti mediatori, ripieni soltanto di sensi di colpa e di interessi di parte.
Li abbiamo abbandonati a se stessi: come in Siria, in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Libano.
Li distruggiamo con le guerre, ci proclamiamo vincitori, deprediamo le loro vite, e poi scappiamo, quando la situazione si rivela disperata e irresolubile anche per gente come noi.
O facciamo loro la morale: è da irresponsabili prendere i barconi e far morire i propri figli in mare.
Come se potessero fare altro, come se glielo permettessimo.
Metto in parallelo questa foto:
Credo sia una buona metafora di quel che siamo, di come viviamo qui e altrove.
Nel mio quartiere hanno iniziato a manifestarsi delle grandi crepe in alcune palazzine antiche.
Case sgomberate, negozi chiusi, strade sbarrate.
Nel giro di un decennio la Marina si è trasformata in un quartiere turistico, gentrificato, invaso da ristoranti, pub, negozietti di gadget, localini da sballo e da spritz.
Molti vecchi locali sono stati trasformati, pesantemente ristrutturati: molte pareti sono state buttate giù e non sempre rimesse su, moltissimi mezzi pesanti caricano e scaricano merci per ore ed ore, un'invasione di gambe, piedi e bocche circola continuamente sulle sue piccole e fragili vie.
Ma tutto questo deve procedere, non si può correggere o ridimensionare, porta tanto denaro.
Poco importa se il quartiere degrada, diventa inabitabile, crolla.
Le soluzioni ci sono: in primo luogo la tecnologia.
Nell'emergenza, piantonare le pareti con impalcature, piloni e pilastri, iniettare cemento liquido, tappare buchi, ricucire crepe, ed altro che avverrà e che non so: una situazione che durerà a lungo, sino a quando non si analizzerà la situazione e non si apporteranno i giusti rimedi per poter proseguire a sfruttare quei luoghi come prima e come se niente fosse accaduto.
Nel frattempo, le persone la risolvono già così, come vedete nella foto: adattandosi alla nuova situazione, come se niente fosse.
Si bevono il loro spritz, serenamente a fianco alle rovine.
Continuano a far la fila, a gustarsi i loro taglieri, a chiacchierare tra amichetti.
Nella nostra comfort zone, sino a quando ci saranno anche solo un briciolo di comfort e un angolo di zone.
Tutti noi -pur circondati, assediati dal disastro- proseguiamo a vivacchiare sino a quando si potrà.
Sino a quando -in un attimo- non ci troveremo asserragliati in casa o in tenda, senza luce e senz'acqua, come sta già accadendo a tanti altri esseri umani, nella nostra indifferenza, in questo freddo inverno.
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