Scorro gli altri nomi in lista. Li
conosco quasi tutti; dieci anni passati all'Università, del resto,
qualcosa dovranno pur lasciare. Tolto Giacomo Mattei, che non ha
speranze per definizione, gli altri sono tutti fior di studenti.
Gente che si è laureata in tempo, che ha collezionato trenta e lode,
ha approfondito, letto molto e fatto l'Erasmus alla Sorbona o a
Tubinga.
Gente a cui trent'anni fa avrebbero
tenuto un posto in caldo all'Università prima ancora che
discutessero la tesi di laurea, e oggi invece te li ritrovi a
battersi per le briciole, e tra qualche anno se va bene a insegnare
italiano e storia nella Bassa padana all'Istituto professionale
'Germano Mosconi', dove si parla in dialetto, si intercala a
bestemmie e i professori sono il gradino più basso della gerarchia
sociale e umana. E magari andranno a scuola col kalashnikov il giorno
che scopriranno che anche il preside scrive 'po'' con l'accento...
Mi bastano cinque minuti per capire
che sono tutti e tre di un altro pianeta rispetto a me, e non mi
riferisco soltanto alle nozioni che sciorinano in fatto di
letteratura e critica letteraria, ma anche alla conoscenza
approfondita della geopolitica accademica...
Pier Paolo snocciola con mirabile
competenza trame e sottotrame dell'accademia letteraria italiana: chi
ha studiato con chi, chi non sopporta chi, chi ha rubato la moglie a
chi, chi ha copiato chi, chi non va ai convegni di chi, chi va ai
convegni di chi ma poi ne parla male in privato, chi ha piazzato chi,
chi deve un favore a chi, chi non può vedere chi ma se la deve
mettere via perché è troppo più potente di lui, chi non ha
speranze di avere un posto da chi a meno che non si imponga chi, chi
ha stroncato la carriera a chi, chi è dovuto andare all'estero per
sfuggire ai veti di chi, chi dall'estero sta facendo la guerra a chi,
chi ha riportato il cervello in Italia per farselo maciullare dalle
logiche di palazzo, chi scrive un articolo per la rivista diretta da
chi al fine di far sdebitare chi e aprire una posizione per chi
mettendo i bastoni tra le ruote a chi.
Quando i sistemi di equazioni hanno
raggiunto le cinque incognite, ho smesso di seguirlo...
'Però, quante note...', dico.
'Ne ho tagliate un sacco'.
'Maddai'.
'Bè'. Lui mi soppesa un attimo. Sta
cercando di capire chi ha di fronte:se uno sprovveduto da istruire e
al contempo umiliare o un rivale accademico. Se prima poteva aver
avuto un dubbio, adesso sceglie la prima ipotesi, e mi impartisce una
lezione introduttiva intitolata 'Come si scrive (e soprattutto cos'è
in realtà) un articolo accademico.
'Non si tratta tanto di cultura,
quanto di politica. Diciamo 20 per cento cultura e 80 per cento PR.
Ora, nel migliore degli scenari scrivi un articolo perché hai una
cosa da dire, o comunque vuoi dare un contributo a una discussione su
un tema che conosci.
Ma nella maggior parte dei casi gli
articoli si scrivono per motivi extraculturali, ovvero semplicemente
per fare massa, aggiungere una voce al curriculum, entrare in un
volume in onore di qualcuno, creare una relazione con la cordata che
dirige una rivista, dare un senso a un assegno di ricerca, produrre
un corrispettivo concreto di un lavoro altrimenti inquantificabile,
avere punti per ottenere l'abilitazione nazionale o, in un numero non
irrilevante di casi, per mera vanità.
Ma poniamo pure che il ricercatore
x, o il dottorando y, abbia effettivamente qualcosa da dire: allora
pubblica un articolo. La cosa che ha da dire potrebbe ragionevolmente
essere detta in mezza pagina, ma pure qualcosa meno, diciamo dieci
righe. E allora come si arriva da dieci righe a venticinque pagine?
Una parte delle venticinque pagine serve ad accreditarsi:dire cose
intelligenti, usare parole che indicano che si è studiato, mostrare
che si conosce la dovuta bibliografia, ripercorrere le tappe del
dibattito in cui ci si inserisce: insomma far capire che si è
titolati per parlare. Un'altra parte serve a far spessore, ovvero a
ripetere la cosa che si vuol dire declinandola in svariati modi
diversi: se un'idea non la ripeti almeno trenta volte è come non
averla detta.
E poi c'è la parte decisiva:le
note.
Nelle note si tessono le trame
politiche, ovvero si inserisce il proprio scritto nella complessa
rete della geopolitica accademica.
Tutti ti diranno che è inelegante
citare il proprio mentore:non dargli retta, citalo, citalo sempre,in
ogni circostanza, più del dovuto, e sperticati in lodi e
ringraziamenti...Ricordati: il tuo mentore è l'univa via che hai per
la carriera accademica, e come tale lo devi venerare e riverire.
Dopodichè devi posizionare il tuo
lavoro rispetto a tutti quelli che esso lambisce, ovvero a tutti
coloro, dotati di un minimo di potere, che hanno trattato -anche
tangenzialmente, anche vent'anni fa- il tuo stesso argomento. Ovvero,
anzitutto devi citare con aggettivazione le persone potenti, quelle
che sono molto vicine al tuo prof e quelle che per qualche motivo ti
interessano. Con aggettivazione significa dire cose come 'Mi rifaccio
qui al fondamentale contributo di Tizio', 'Non posso non rimandare
all'imprescindibile definizione di Caio', 'Muovo ovviamente
dall'illuminante saggio di Sempronio'...
Riserva invece le citazioni vaghe
tipo 'Confronta il lavoro di de Tizis' o 'Su questo tema si veda
anche de Caiis' a personaggi che non puoi non citare ma a cui non
intendi tributare alcun merito,e che anzi vuoi in qualche modo
sminuire. Assicurati prima che siano professori emeriti, battitori
liberi o outsider, ovvero che non contino un cazzo. Infine, e questo
è decisivo, non citare mai i nemici del tuo prof o della sua
cordata, e fai in modo che l'assenza rifulga, che non passi
inosservata...Non citare è un'arte assai più sottile e delicata che
citare, ma non meno importante.
In questo sistema differenziale tu
dici sì la cosetta che vuoi dire sul sonetto 24 di Petrarca, ma nel
frattempo fai delle dichiarazioni di guerra, stringi alleanze, ti
inserisci nei rapporti di forza.
Quasi nessuno legge gli articoli che
gli mandano, per quello hanno inventato gli abstract, ma quasi sempre
si scorrono le note e si legge la bibliografia: lì c'è tutto quello
che serve a capire. Anzi, ti dirò di più: da lì si può
comodamente dedurre tutto l'articolo. L'articolo è una trascurabile
appendice delle sue note: solo gli sprovveduti credono il
contrario...
'Marcello, non vorrei dirtelo, ma tu
hai appena assistito alla madre di tutte le schermaglie accademiche'
'Ma va''.
'Senza esclusione di colpi,
proprio'.
'Ma scusa: quello gli ha detto che
era colto, quell'altro che era affascinante. Era tutto un 'Sei più
bravo tu', 'No, sei più bravo tu'.'
Lui mi guarda con uno sguardo vacuo,
come se ancora una volta si chiedesse se ci sono o ci faccio...
'Quando tu in una circostanza del
genere dici a qualcuno che è colto
è come dirgli che è insignificante, tutto fumo culturale e niente
arrosto intellettuale. Capisci? Altro che se è un attacco! ...Che
poi, a dirla tutta, Sacrosanti ha fatto di peggio: non gli ha detto
colto, ma dotto, che è
il gradino inferiore...Dotto significa sostanzialmente 'una palla
mortale,per quanto erudita'.
'Allora poteva dirgli erudito',
azzardo.
'Bè, non esageriamo: erudito
è l'ultimo gradino di questa scala dell'abiezione. Se ti dico
erudito significa ' Non solo sei una palla mortale, ma sei pure
gratuitamente saccente'. Certo, saccente
sarebbe peggio,ma in un contesto del genere non puoi dare del
saccente a qualcuno, perchè sarebbe un'offesa esplicita, e qui il
gioco sta tutto nell'usare termini positivi per attaccare. Se uno
insulta direttamente, ha perso. Non sta nemmeno giocando allo stesso
gioco.'
'E affascinante? Morelli gli ha
detto affascinante, no?'
'Bè, affascinante
si capisce da solo. É un commento che puoi fare a una donna, e pure
a una che non è una gran bellezza, che sennò diresti bella. Ma
applicato a una lezione -o a un libro- di un professore universitario
è evidentemente un insulto...Inconsistente, ecco: affascinante sta
per inconsistente. A un certo punto ti sarai accorto che Morelli ha
lasciato scivolare anche un agile,
riferendosi al modo in cui Sacrosanti spaziava da un autore
all'altro. 'Sa spaziare con agilità',ha detto di Sacrosanti. In quel
caso agile significa 'superficiale al limite del risibile'...
'E se io dico interessante?'
'Bè, è un termine piuttosto
neutro...per cui dipende dal contesto'.
'In che senso?'
'Se commento un articolo o una
conferenza di una persona x con una persona y e dico che è
interessante vuol dire che sostanzialmente non l'ho ascoltata, ma non
mi sbilancio a parlarne male...Diverso però se io dico interessante
direttamente all'autore dell'articolo o della conferenza. In quel
caso vuol dire: 'Scusa caro, ma per quanto mi sforzi non riesco a
trovare nessun pregio in quello che hai fatto'...D'altro canto, se
dicessi interessantissimo
lo potremmo tradurre con: 'La conferenza era irrilevante, ma
riconosco che tu che l'hai tenuta sei una persona importante'.
'Ma scusa, se uno vuole dire
qualcosa di positivo, come fa?'...
'Abbastanza positivo potrebbe essere
stimolante. Vuol dire
qualcosa come 'infondato ma gradevole'. Altrimenti uno che io amo
molto è decisivo: di
solito si usa per uno della tua stessa parrocchia, o per uno che dice
qualcosa che ti piace sentir dire. Rivoluzionario
è molto positivo, ma non si usa praticamente mai, se non
per qualcuno che è morto...Illuminante
lo userei solo per il mio padrino accademico, o per qualcuno che
vorrei lo diventasse. Pionieristico
va bene per un professore emerito, a patto che non conti più un
cazzo.'
'E se vuoi parlar bene di qualcun
altro?'
'Intendi di qualcuno che non è dei
tuoi?'
'Sì'.
Lui ci pensa un attimo. 'Non lo so,
se si può fare'.
Dario Ferrari, La ricreazione è
finita, Sellerio, 2023