Lo psicoterapeuta italo-americano
Luciano L'Abate, nel suo ' Il sé nelle relazioni familiari'
(2000), ha proposto uno schema di base che raffigura quattro
polarità del Sé su un rombo: il triangolo basso si muove tra
l'assenza del sé (no self), l'eccesso e la carenza del sé
(selfishness e selflessness). Il triangolo alto si muove invece tra
questi ultimi due angoli ed un terzo, quello che tende alla pienezza
del sé (selffullness).
A partire da essa, nei 'Dilemmi
(diletti) del gioco' (2004), ho proposto un suo arricchimento
completandone i lati: la violenza appare qui caratterizzata da
aggressività e passività, tra loro ricorsivamente intrecciate e
reciprocamente autocatalitiche; un sistema è massimamente votato
alla violenza quando convivono e si rafforzano tra loro una minoranza
aggressiva (strapotente e dominante, spesso in forme mistificate ed a
conflitto latente) ed una maggioranza passiva (impotente e ridotta in
stato di minorità, spesso rassegnata e collusa).
La nonviolenza è presentata invece ,
sui lati del triangolo alto, come l'insieme di assertività ed
empatia: mai l'una senza l'altra per evitare gli eccessi, sia di
auto- sia di etero-centrazione.
In 'Casca il mondo!' (2007) ho
ulteriormente sviluppato le riflessioni sul 'rombo-aquilone',
mettendo in evidenza i passaggi avvenuti a mio parere nel corso degli
anni tra la fine del secolo XX e i primi anni del XXI.
Ho rivolto l'attenzione alle
diagonali: quella tra aggressività ed empatia, nella
quale andavano a svilupparsi le nuove forme della violenza, quelle
tipiche del conservatorismo compassionevole, del consumismo e delle
guerre umanitarie: un coacervo pericolosissimo e coperto di dominio e
cura, ammantato di principi democratici e solidaristici, ma capace
-perlomeno quanto i moventi degli schemi precedenti (peraltro sempre
sussistenti e coesistenti a questo)- di devastare e distruggere
popoli, culture, persone.
Già allora quindi cercavo di
rispondere invitando il mondo dell'educazione e della politica a
reagire sviluppando al massimo livello la diagonale opposta, quella
che si muove tra assertività e passività: da un lato
accrescendo la nostra capacità proattiva (quella di proporre,
intraprendere, creare, dire sì) e dall'altro arrischiando
sempre più la nostra messa in gioco attraverso un potenziamento
della non collaborazione attiva, della resistenza passiva, del
dire no.
'Fare il morto' (2016) completa
al momento l'esplorazione della figura.
Sono giunto e si parte da una visione
più pessimistica della situazione-mondo, caratterizzata da
un'evidente sconfitta dell'educazione e della politica, ormai
divorate dal mercato, dalla finanza e dalla guerra. La violenza
strutturale e culturale dell'attuale dominio sembra aver occupato
la massima parte di tutti i lati dell'aquilone: l'aggressione
si è fatta permanente e senza regole, la cura è trasfigurata in
ansia di sicurezza, la passività dei molti si rivela in tutta la sua
potenza depressiva.
Ed anche l'assertività trova ormai
spazio quasi soltanto nella dimensione virtuale dei social,
propagandate come attività e libertà assoluta delle e nelle
relazioni di rete, promosse dal libertarismo anarco-capitalista.
Le possibilità e le potenzialità di
'fare il morto' si muovono sul lato della passività, o
almeno su una sua parte che resta ancora libera dalla violenza e dal
dominio: per restare vivi, e per provare a sentirsi ancora vivi,
orientati a 'liberarsi della libertà'.
Una visione controparadossale che
invita a ridurre l'attivismo senza requie della prestazione per
ritrovare il senso dell'agire, del giocare, del godere e del patire.
Da qui si apre -al momento, e per i
tempi che vengono- gli impervi e inesplorati sentieri
dell'il-lud-etica.
Visione terribile e magnifica
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