Il Paese smemorato che ha bisogno di credere
Sul divertente paese che non ha memoria si potrebbero scrivere libri, volumi e migliaia di aneddoti. Se solo ce li ricordassimo. Invece, come nei migliori libri horror prevale qui “la mente che cancella”, una specie di ipnosi all’incontrario: anziché addormentarsi e ricordare, si resta svegli e si dimentica. Così si può assistere a spettacoli entusiasmanti come la corsa sfrenata ed entusiasta a ricordare Enrico Berlinguer. Il quale Berlinguer parlava, voleva e lavorava per un’Italia socialista, che se oggi anche solo sottovoce, al bar, di nascosto, uno dicesse una cosa simile (“voglio fare il socialismo”) verrebbe lapidato sul posto, accusato di passatismo, nostalgie, conservatorismo e altre amenità, e arriverebbe forse la polizia. Invece, tutti a vedere il film di Veltroni e uscire coi lucciconi agli occhi: “Ah, quando c’era Berlinguer”. Quando c’era Berlinguer, naturalmente mica lo dicevano in così gran numero, e soprattutto non lo dicevano quelli che vanno alla prima con l’auto blu.
Se dalle grandi figure del passato, poi, si passa alle parole, la memoria è ancora più corta. Per dirne una, il recentissimo uso, con accezione sarcastica e offensiva del termine “professoroni o presunti tali”, ricorda assai da vicino un classico italiano di tutti i tempi: l’astio del potere nei confronti degli intellettuali. Specie di quelli non allineati. Uno con un po’ di memoria potrebbe riandare al Bettino Craxi che tuonava contro gli “intellettuali dei miei stivali”, o addirittura andare indietro fino al “cultura-me” di mussoliniana memoria, quando chi “disturbava il manovratore” (altra frase ricorrente qui, nel paese senza memoria) non finiva soltanto deriso e insultato.
Insomma, è una sindrome piuttosto grave: più si argomenta e si sentenzia che “le parole sono importanti” e più si usano quelle vecchie, usurate e anche un po’ lordate dalla storia. Ed eccoci ad altre parole dell’oggi e dell’altroieri: gufo, per esempio. Di derivazione sportiva oggi prestato alla politica. Parola parente di un’altra che riecheggia (ed è pure stata usata recentemente): disfattista. Cioè colui che tifa per la sconfitta, intendendo, naturalmente che chi vince o sta vincendo, o prevede di vincere è il buono, e gli altri, tutti cattivi. Cose già viste, ovviamente, poi archiviate e soavemente dimenticate.
Tra queste, oltre al sempiterno uomo della provvidenza, c’è l’eterna questione della fiducia. La radicata credenza popolare per cui se ci credi ci riuscirai, nonostante alcuni milioni di fatti che l’hanno smentita nei secoli, fa ancora breccia. E si sposa con la ben nota teoria dell’ultima spiaggia: o me o il disastro, ritornello preferito di chi governa il paese. Lo diceva Silvio buonanima, lo si disse per Monti, lo si disse per Letta e lo si dice oggi, misticamente immemori. E poi c’è il divertente testacoda del potere en travesti che si finge opposizione. Silvio fece il politico per vent’anni (prima di dedicarsi all’animalismo militante) convincendo tutti che non era un politico.
Oggi abbiamo un premier circondato dall’establishment che tuona contro l’establishment, seguito in gran parte da un elettorato che si scaglia contro quella Costituzione che fino a ieri definiva la “più bella del mondo”. Ecco: la mente (collettiva) che cancella. Con il corollario del consiglio fremente e reiterato: bisogna crederci, crederci, crederci… e vabbè, uno magari ci crede pure, ma fate il favore, quando si passa a “obbedire” e “combattere”, avvertite dieci minuti prima.
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