martedì 4 marzo 2014

piccoli dolori

altra visita ieri all'ospedale marino.
la spalla migliora, ma molto molto lentamente.
l'ortopedico si è lamentato del fatto che il mio corpo non collabora granchè, come se non avesse tutta questa fretta di guarire.
'Non fa il callo...', ha esclamato.
Sì, non so farci il callo, su questo e su altro, lo so.
e non mi impegno.

mentre si celebra l'oscar per 'La grande bellezza', prosegue la grande bruttezza, lo scempio.
i crolli a pompei, la decadenza dei sottogoverni, il sonno delle coscienze, il vuoto del presente, il nulla futuro.
come nel film, la bellezza appartiene solo al passato (e a rarissimi attimi, piccolissime nicchie, del presente).
il resto è abbandonato alla pioggia e ai veleni, buttato al vento, martoriato dal violento incedere del tempo, dalla volgarità barbarica di questa civiltà in declino, che vuole ammazzare tutto mentre muore, perchè muore, e pur di non morire.

ed eccoci di nuovo a jalta, settant'anni dopo.
la seconda guerra era nata da versailles, e si era conclusa con la pace in crimea.
la terza, come sempre, risale da questa, come un rigurgito.
non apprendiamo nulla dalla storia, tutto si ripete.
guerre 'di difesa', annessioni di fatto, ricatti coperti, minacce spuntate, retorica dei proclami e degli appelli alla pace...
è lei,  la solita guerra: che ritorna, avanza, e ci invade.




1 commento:

  1. … catastrofi romane.

    "Me ne vado, ti lascio nella sera
    che, benché triste, così dolce scende
    per noi viventi, con la luce cerea

    che al quartiere in penombra si
    rapprende.
    E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
    intorno, e, più lontano, lo riaccende

    di una vita smaniosa che del roco
    rotolio dei tram, dei gridi umani,
    dialettali, fa un concerto fioco

    e assoluto. E senti come in quei lontani
    esseri che, in vita, gridano, ridono,
    in quei loro veicoli, in quei grami

    caseggiati dove si consuma l'infido
    ed espansivo dono dell'esistenza -
    quella vita non è che un brivido;

    corporea, collettiva presenza;
    senti il mancare di ogni religione
    vera; non vita, ma sopravvivenza

    - forse più lieta della vita - come
    d'un popolo di animali, nel cui arcano
    orgasmo non ci sia altra passione

    che per l'operare quotidiano:
    umile fervore cui dà un senso di festa
    l'umile corruzione. Quanto più è vano

    - in questo vuoto della storia, in questa
    ronzante pausa in cui la vita tace -
    ogni ideale, meglio è manifesta

    la stupenda, adusta sensualità
    quasi alessandrina, che tutto minia
    e impuramente accende, quando qua

    nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina
    il mondo, nella penombra, rientrando
    in vuote piazze, in scorate officine...

    Già si accendono i lumi, costellando
    Via Zabaglia, Via Franklin, l'intero
    Testaccio, disadorno tra il suo grande

    lurido monte, i lungoteveri, il nero
    fondale, oltre il fiume, che Monteverde
    ammassa o sfuma invisibile sul cielo.

    Diademi di lumi che si perdono,
    smaglianti, e freddi di tristezza
    quasi marina... Manca poco alla cena;

    brillano i rari autobus del quartiere,
    con grappoli d'operai agli sportelli,
    e gruppi di militari vanno, senza fretta,

    verso il monte che cela in mezzo a sterri
    fradici e mucchi secchi d'immondizia
    nell'ombra, rintanate zoccolette

    che aspettano irose sopra la sporcizia
    afrodisiaca: e, non lontano, tra casette
    abusive ai margini del monte, o in mezzo

    a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
    leggeri come stracci giocano alla brezza
    non più fredda, primaverile; ardenti

    di sventatezza giovanile la romanesca
    loro sera di maggio scuri adolescenti
    fischiano pei marciapiedi, nella festa

    vespertina; e scrosciano le
    saracinesche
    dei garages di schianto, gioiosamente,
    se il buio ha resa serena la sera,

    e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
    il vento che cade in tremiti di bufera,
    è ben dolce, benché radendo i capellacci

    e i tufi del Macello, vi si imbeva
    di sangue marcio, e per ogni dove
    agiti rifiuti e odore di miseria.

    È un brusio la vita, e questi persi
    in essa, la perdono serenamente,
    se il cuore ne hanno pieno: a godersi

    eccoli, miseri, la sera: e potente
    in essi, inermi, per essi, il mito
    rinasce... Ma io, con il cuore cosciente

    di chi soltanto nella storia ha vita,
    potrò mai più con pura passione operare,
    se so che la nostra storia è finita?" (PPP, 1954, Le ceneri di Gramsci)

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