altra visita ieri all'ospedale marino.
la spalla migliora, ma molto molto lentamente.
l'ortopedico si è lamentato del fatto che il mio corpo non collabora granchè, come se non avesse tutta questa fretta di guarire.
'Non fa il callo...', ha esclamato.
Sì, non so farci il callo, su questo e su altro, lo so.
e non mi impegno.
mentre si celebra l'oscar per 'La grande bellezza', prosegue la grande bruttezza, lo scempio.
i crolli a pompei, la decadenza dei sottogoverni, il sonno delle coscienze, il vuoto del presente, il nulla futuro.
come nel film, la bellezza appartiene solo al passato (e a rarissimi attimi, piccolissime nicchie, del presente).
il resto è abbandonato alla pioggia e ai veleni, buttato al vento, martoriato dal violento incedere del tempo, dalla volgarità barbarica di questa civiltà in declino, che vuole ammazzare tutto mentre muore, perchè muore, e pur di non morire.
ed eccoci di nuovo a jalta, settant'anni dopo.
la seconda guerra era nata da versailles, e si era conclusa con la pace in crimea.
la terza, come sempre, risale da questa, come un rigurgito.
non apprendiamo nulla dalla storia, tutto si ripete.
guerre 'di difesa', annessioni di fatto, ricatti coperti, minacce spuntate, retorica dei proclami e degli appelli alla pace...
è lei, la solita guerra: che ritorna, avanza, e ci invade.
… catastrofi romane.
RispondiElimina"Me ne vado, ti lascio nella sera
che, benché triste, così dolce scende
per noi viventi, con la luce cerea
che al quartiere in penombra si
rapprende.
E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
intorno, e, più lontano, lo riaccende
di una vita smaniosa che del roco
rotolio dei tram, dei gridi umani,
dialettali, fa un concerto fioco
e assoluto. E senti come in quei lontani
esseri che, in vita, gridano, ridono,
in quei loro veicoli, in quei grami
caseggiati dove si consuma l'infido
ed espansivo dono dell'esistenza -
quella vita non è che un brivido;
corporea, collettiva presenza;
senti il mancare di ogni religione
vera; non vita, ma sopravvivenza
- forse più lieta della vita - come
d'un popolo di animali, nel cui arcano
orgasmo non ci sia altra passione
che per l'operare quotidiano:
umile fervore cui dà un senso di festa
l'umile corruzione. Quanto più è vano
- in questo vuoto della storia, in questa
ronzante pausa in cui la vita tace -
ogni ideale, meglio è manifesta
la stupenda, adusta sensualità
quasi alessandrina, che tutto minia
e impuramente accende, quando qua
nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina
il mondo, nella penombra, rientrando
in vuote piazze, in scorate officine...
Già si accendono i lumi, costellando
Via Zabaglia, Via Franklin, l'intero
Testaccio, disadorno tra il suo grande
lurido monte, i lungoteveri, il nero
fondale, oltre il fiume, che Monteverde
ammassa o sfuma invisibile sul cielo.
Diademi di lumi che si perdono,
smaglianti, e freddi di tristezza
quasi marina... Manca poco alla cena;
brillano i rari autobus del quartiere,
con grappoli d'operai agli sportelli,
e gruppi di militari vanno, senza fretta,
verso il monte che cela in mezzo a sterri
fradici e mucchi secchi d'immondizia
nell'ombra, rintanate zoccolette
che aspettano irose sopra la sporcizia
afrodisiaca: e, non lontano, tra casette
abusive ai margini del monte, o in mezzo
a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
leggeri come stracci giocano alla brezza
non più fredda, primaverile; ardenti
di sventatezza giovanile la romanesca
loro sera di maggio scuri adolescenti
fischiano pei marciapiedi, nella festa
vespertina; e scrosciano le
saracinesche
dei garages di schianto, gioiosamente,
se il buio ha resa serena la sera,
e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
il vento che cade in tremiti di bufera,
è ben dolce, benché radendo i capellacci
e i tufi del Macello, vi si imbeva
di sangue marcio, e per ogni dove
agiti rifiuti e odore di miseria.
È un brusio la vita, e questi persi
in essa, la perdono serenamente,
se il cuore ne hanno pieno: a godersi
eccoli, miseri, la sera: e potente
in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce... Ma io, con il cuore cosciente
di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?" (PPP, 1954, Le ceneri di Gramsci)