sabato 21 gennaio 2017

indonesiamo

Sì, non sembra vero, ma alla fine siamo arrivati anche qui, in Indonesia...
Viaggio comodo (su un enorme A321 a due piani con le hostess che ti fanno le foto con la polaroid) ma interminabile, con scalo nella strambissima Dubai, misto di burka e petrodollari, integralismo di facciata e postmodernismo cinico-monetario.









Jakarta è una megalopoli terribile e divertente, dieci milioni di abitanti ufficiali, traffico pazzesco, slums infiniti.
Poche cose da vedere, molte da curiosare, lingue e colori, cibi e sapori nuovissimi.
La lotta, ancora in corso, è quella per dormire.
Il jet lag è ferocissimo, ci stiamo risistemando solo ora, dopo 4 notti.
E il caldo, sino a quando non piove (cosa che comunque accada quasi sempre il primo pomeriggio), è asfissiante. Per non parlare del continuo ronzio delle pompe di calore; ci siamo trasferiti dopo la prima notte funestata proprio dal motore dei condizionatori dall' hotel Tator a quello di Margot - entrambi con finestre che non si aprivano.
Quindi primi giorni un pò da zombie, con notti quasi insonni, e momenti di sonno atroce durante il giorno, quando siamo però in giro.
Oppure ci si addormenta alle 4 e ci si sveglia alle 11, e così via.







Da ieri abbiamo lasciato la giungla metropolitana e ci siamo rifugiati ad un'ora e mezza, nell'interno, alla città giardino di Bogor. Arrivati alla stazione, ci siamo imbarcati su due becak (una sorta di bici-riksciò) condotti da smilzi e resistenti ometti, che si sobbarcano salite e pesi, e ti fanno sentire in colpa.
Alla fine gli dai più soldi di quello che hai pattuito, che era già molto di più di quel che guadagnano di solito.
Alla guest house di Malabar park è tutto molto occidentale, ma parlano solo bahasa (la koinè artificiale indonesiana). La timidissima receptionist quattordicenne per comunicarci qualcosa si studia la traduzione inglese da Google translator e viene da noi a recitarcela leggendo un foglietto.
Ci capita che piccoli studenti ci fermino per strada e vogliano fare conversazione in inglese, a fini scolastici, con tanto di foto finale.
Se guardi le persone, soprattutto le donne, anche solo per un attimo, subito ti sorridono e ti salutano, spesso ti chiedono chi sei, da dove vieni, o ti fanno domande sulle collane che porti o ridono per come ti vesti o ti tieni per mano mentre cammini (qui stanno tutti abbastanza separati e non ci sono gesti affettuosi in pubblico, né tra amici, né tra amanti).
La situazione è sempre tranquilla, rassicurante, quasi sedata, pur nella frenesia del traffico e dei vari lavori, più o meno informali. Molta gente dorme in metro mentre viaggia.

Anche poliziotti e militari (ma quanti sono ?) ci sorridono e ci fermano per fare foto con noi e i loro mitra, come se fossimo Brangelina.
Non si corrono rischi, il controllo sociale è elevatissimo, rispondono con anticipo ai tuoi bisogni, ti aiutano con piacere e sollecitudine.
La presenza militare è, però, abbastanza asfissiante.
Si sente che il regime non è tranquillo: la sperequazione tra ricchissimi e poverissimi è lampante ed enorme, i grattacieli sono circondati da semplici palazzine e milioni di baracche, spazzatura e fogne a cielo aperto convivono con altissima tecnologia e migliaia di banche.

Bogor è la città giardino perchè al suo centro, circondato dal solito casino, si situa un grande giardino botanico, lasciato in eredità dai colonizzatori olandesi e britannici.
Ma è anche chiamata la città della pioggia, per ovvi motivi.
Ieri ci siamo trovati dentro il primo forte acquazzone, proprio mentre visitavamo l'orchidarium.
Ci siamo trovati dentro un paradiso vegetale e di acqua, con alberi mastodontici e altissimi (ceiba e kapok), mitologici (le sigizie, che crescono sempre doppie), e i fiori di loto con i cerchi verdi idrofili che sembrano grandi piatti da portata.
E tutti i tipi di palma, dalle chicas alla datterine, dalle washingtonia alle canariensis, sino a quelle bellissime che sembrano ventagli al vento o code di pavone o lingue di rettile o danzatrici di wayang.
E le foreste di bambù giganti, le foglie di tutte le forme e geometrie, le liane e gli intrecci innumerevoli.

Al mercatino abbiamo assaporato i primi litchi e, ieri a pranzo, mi sono gustato una coppa gelato al durian, un grande frutto dolce e talmente puzzolente che è vietato portarselo dietro in treno o in luoghi pubblici, con tanto di segnale di divieto.
Vivi non lo sopporta, le da la nausea, e fa strane smorfie mentre me lo pappo.
Qui le cose non costano nulla e ci sentiamo dei ricchi capitalisti in vacanza.
Stiamo spendendo non più di 35 euro al giorno a testa, tutto incluso, più o meno la metà di quel che si spende -con i nostri standard di viaggio- in Europa.









































Ora stiamo attraversando in treno il lungo percorso (600 km) che va da Jakarta-Gambir (una stazione centrale misteriosa nominata da tutti, ma nella quale non fermano i treni di passaggio) a Yogyakarta. Ci siamo svegliati alle 5, saltati su un bemo, poi sul trenino da Bogor, poi su un tuk tuk, ed ora su un bel treno di prima classe, con vagone ristorante, in cui ci siamo subito gettati affamatissimi sul solito nasi goreng (riso fritto) e thè o caffè nero turco.
Sui treni ci sono alcuni vagoni solo per donne, mentre gli altri sono misti.
Per sbaglio ci siamo seduti in uno dei primi, e siamo stati subito avvisati.
La parte nord dell'isola di Giava, quella pianeggiante, è tutta verde di risaie.
Aggireremo i monti e  i vulcani, dovremmo raggiungere la nostra meta verso le quattro.
C'è un bel tempo fuori, in attesa della solita pioggia pomeridiana.
Il verde è scintillante, le mondine e i contadini sono al lavoro, i villaggi si succedono con le loro casette autoprodotte, lamiere ed eternit, i banani e i manghi, le palme e le papaye.


In giro anche tanti gatti, tutti magrissimi, e mai un cane. Tante zanzare, contro qualsiasi Autan...










Ed eccoci a Yogyakarta dove staremo la bellezza di quattro notti...







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