I tempi del rinvio si riducono, e volgono al termine.
Abbiamo rinviato a lungo la catastrofe climatica, ma è ora tra noi.
Abbiamo pensato che le guerre non sarebbero più tornate a trovarci, ma anch'esse si sono nuovamente approssimate.
Ci pensavamo al sicuro nelle nostre città, mentre le campagne venivano abbandonate e le montagne disboscate, ma ora scopriamo che i nostri palazzi e le nostre vie in cui abbiamo concentrato le nostre vite ci mettono a rischio: pullulano di virus, grondano risentimenti e violenze.
Questo è il contesto in cui siamo chiamati a votare.
In una campagna elettorale che parla d'altro.
Ma che, sotto i discorsi e le polemiche apparenti, ci rivela l'emergenza di un'ulteriore improrogabilità.
Quel che non possiamo più rinviare, infatti, è anche l'ascesa politica delle destre.
I tanto bastonati Cinque stelle ci hanno permesso di spostare ancora una volta questo appuntamento, prendendo su di sé i voti del disinganno e della nuova politica.
E' passata un'altra legislatura, che ha prodotto ulteriore degrado, attendismo, disperazione.
Viviamo ancor più oggi -dopo questi cinque anni- una vita di destra, tutti, e a tutti i livelli.
Una vita caratterizzata da sopruso, ingiustizia, consumismo e diseguaglianza, rabbia e disprezzo verso l'umano e il vivente.
E' giunto il tempo che, a questa vita, corrisponda una sua manifestazione politica diretta, coerente e francamente espressa: un governo di destra.
L'alternativa è solo un flatus vocis che non ha nulla a che vedere con la vita materiale e relazionale che di fatto conduciamo.
Perchè dovremmo vivere quotidianamente, sfacciatamente a destra e non essere governati dalla destra?
Capisco che molti di voi preferiscano essere gestiti da persone di destra più paludate e cortesi, come è stato finora.
Ma questo tipo di regimi si limitano solo a rinviare quel che non può non accadere, perchè già accade, perchè è già la vita che facciamo.
E, se attendiamo ancora, quando il futuro arriverà sarà ancora più terribile, spietato ed insensato di quanto non sarebbe oggi.
Dobbiamo dare per persa la guerra ed iniziare ad organizzare la resistenza.
Non proseguire ad insistere con un'ostinata ed illusoria resilienza, con una difesa obsoleta delle carte e dei diritti, con un nostalgico richiamo a storie e valori che non costa nulla proseguire a raccontarci, ma che non incarniamo più nella nostra real vita.
Giunsi sotto alla fontana, nella conca di erbe grasse e fangose. Tra le piante apparivano buchi di cielo e aerei versanti. C'era in quel fresco un odore schiumoso, quasi salmastro.
'Cos'importa la guerra, cos' importa il sangue -pensavo- con questo cielo tra le piante?'.
Si poteva arrivare correndo, buttarsi nell'erba, giocare alla caccia e agli agguati. Così vivevano le bisce, le lepri, i ragazzi. La guerra finiva domani. Tutto tornava come prima. Tornavano la pace, i vecchi giochi, i rancori. Il sangue sparso era assorbito dalla terra. Le città respiravano. Soltanto nei boschi nulla mutava, e dove un corpo era caduto riaffioravano radici...
Poi venne sera e, non so come, quella sera stetti a guardare il cielo nero. Ripensavo alla notte e al mattino, al passato, a tante cose. Alla mia strana immunità in mezzo alle cose.
Dalla ditta di Fonso veniva il cigolio e il cupo tonfo delle macchine.
'Dunque lavorano -mi dissi- non è cambiato proprio niente'.
In quelle strade dove si era più penato e sperato, dove al tempo in cui noi eravamo ragazzi s'era sparso tanto sangue, la giornata passava tranquilla. Gli operai, gli schiacciati, lavoravano come ieri, come sempre. Chi sa, credevano tutto finito...
Attesi un pezzo con tremore e ansia il ronzio dei motori. L'angoscia dei giorni, insopportabile in quell'ora, solamente un fatto grosso, irreparabile, poteva cacciarla.
Ma non era questo il mio solito gioco, il mio vizio?...
Qualcuno scherzava, qualcuno rideva. 'La pasta viene lunga', dicevano.
Sangue e ferocia, sottosuolo, la boscaglia: queste cose non erano un gioco?
'Cosa dici? Tu hai una laurea, sei professore. Vorrei sapere io le cose che sai.'
'Esser qualcuno è un'altra cosa', dissi piano. 'Non te lo immagini nemmeno. Ci vuol fortuna, coraggio, volontà. Soprattutto coraggio. Il coraggio di starsene soli come se gli altri non ci fossero e pensare solo alle cose che fai. Non spaventarsi se la gente se ne infischia. Bisogna aspettare degli anni, bisogna morire. Poi dopo morto, se hai fortuna, diventi qualcuno...
Per molti giorni non discesi a Torino; mi accontentavo dei giornali e della nuova libertà di ascoltare ed inveire. Da ogni parte fiorivano voci, pettegolezzi, speranze. Lassù nelle ville nessuno pensava a una cosa: il vecchio mondo non l'avevano schiacciato gli avversari, s'era ucciso da sé.
Ma c'è qualcuno che si uccida per sparire davvero?
Ogni volta giuravo di tacere e ascoltare, di scuotere il capo e ascoltare. Ma quel cauto equilibrio d'ansie, di attese e di futili speranze in cui adesso trascorrevo i giorni, era fatto per me, mi piaceva: avrei voluto che durasse eterno. L'impazienza degli altri poteva distruggerlo. Da tempo ero avvezzo a non muovermi, a lasciare che il mondo impazzisse...
E Fonso subito: 'Momento. Ma non dici perchè tocca sempre alla classe operaia difendersi. I padroni mantengono il dominio con le guerre e il terrore. Schiacciandoci, tirano avanti. E tu ti illudi che capiscano. Han capito benissimo. Per questo continuano.'
Allora rientrai nel discorso: 'Non parlo di questo. Non parlo di classi. Fonso ha ragione, si capisce. Ma noialtri italiani siamo fatti così: ubbidiamo soltanto alla forza. Poi, con la scusa che era forza, ci ridiamo. Nessuno la prende sul serio'...
Le notizie le seppi sulla porta del bar. I tedeschi occupavano le città.
'E a Torino?'.
'Verranno, disse un altro ghignando, a suo tempo. Fanno tutto con metodo. Non vogliono disordini inutili. I massacri li faranno con calma.'
'Ma nessuno resiste?', dissi.
Sotto il portico crebbero gli urli e il tumulto. Uscimmo fuori.
'Nessuno si muove. Nemmeno un soldato. Che schifo.'
'Noi siamo solo un campo di battaglia. Non illuderti.'...
'Te lo diceva anche la nonna. Voialtri non potete capire'.
''Voialtri non posso essere io, tagliai. 'Io sono solo. Cerco di essere il più solo possibile. Sono tempi che soltanto chi è solo non perde la testa'.
Alzai le spalle anche stavolta. Le alzavo sovente in quei giorni. Il finimondo sempre atteso era arrivato. Era chiaro che Torino tranquilla in distanza, la solitudine nei boschi, il frutteto, non avevano più senso. Eppure tutto continuava. Sorgeva il mattino, calava la sera, maturava la frutta.
M'aveva preso una speranza, una curiosità affannosa: sopravvivere al crollo, fare in tempo a conoscere il mondo di dopo.
Quel disordine ormai familiare, quel tacito dibattersi e franare di gente, era come uno sfogo, una brutta rivalsa alle notizie intollerabili delle radio e dei giornali.
La guerra infuriava lontano, metodica e inutile. Noi eravamo ricaduti, e questa volta senza scampo, nelle mani di prima, fatte adesso più esperte e più sporche di sangue.
Gli allegri padroni di ieri inferocivano, difendevano la pelle e le ultime speranze.
Per noi lo scampo era soltanto nel disordine, nel crollo stesso di ogni legge...
'Era meglio la guerra', dicevano.
Ma tutti sapevamo che la guerra era questa.
Ma il discorso e l'affanno cui siamo ormai incalliti, rinascevano allora dappertutto, stimolati da un'ansia d'incredulità, da una residua speranza, da un egoismo ancora lecito. Ora che anche quei giorni sembrano un sogno e salvarsi non ha quasi più senso, c'è in fondo a tutti gli incontri e i risvegli una pace disperata, uno stupore di essere vivi ancora un giorno, ancora un'ora, che mette allegria. Non si hanno più molti riguardi, né per sé né per gli altri. Si ascolta, impassibili.
'Siamo tutti malati -le dissi- che vorremmo guarire.'...
Allora Cate mi guardò sorpresa. Mi aspettavo un sorriso che non venne.
Disse:' I veri malati bisogna curarli, guarirli. Pregare non serve. E' così in tutto. Lo dice anche Fonso: 'Conta quel che si fa, non che si dice'.'.
(Cesare Pavese, La casa in collina, 1949)