L’amore non è bello, ma l’amore ama. Non è un dio, ma un daimon. E’ briccone, sfrontato, testardo, chiacchierone e selvaggio. E’ a piedi nudi. L’essenziale per lui non sta nell’abito o nelle comodità, ma nella libertà.
(SMS) di Socrate
Quando conobbi Marcel sapevo che teneva una rubrica tutta sua su una vecchia rivista anarchica, La falena. Dolores mi mandava di tanto in tanto i suoi scritti, leggerlo fu un incontro importante per chi, come me, crede nel potere del racconto. Quello che mi colpì subito fu uno specifico effetto che quelli scritti avevano sulla consapevolezza della mia presenza, sull’ esserci. Anche per Dolores era così, eravamo d’accordo: Marcel scriveva e scrivendo ti richiamava alla vita: come vivi? come viviamo? Marcel giocava sulla costruzione delle verità in ogni suo scritto, sul senso del giusto e del bello. Leggendolo percepivi la tua compartecipazione alla vita che spesso facevi trascorrere annacquandola. Marcel era un uomo tormentato dalle fondate assurdità, normali atrocità, salvifiche ironie, soppresse sorprese, dure tenerezze, sfacciate paure, perenni precarietà, frantumate fragilità. Marcel sapeva sedurti con il sua lingua meticcia e ti portava sempre sull’orlo dei paradossi ad alta velocità, ti faceva sfracellare tra i nostri ossimori. Era divertente e originale, sapeva dove pungerti e pungeva forte. La sua era la scrittura di un spirito speciale, quale era, una scrittura attivante per il lettore che si sentiva riabilitato a persona, capace di movimento. Eppure lui con tutta quell’energia profetica ambiva solo alla lentezza, era un continuo dirci ALT!, un fermogioco, un’ostinata e precisa supplica di sospensione. Difficile accogliere l’idea che il movimento più necessario, allora, fosse lo star fermi attivamente, che l’azione da compiere con tutte le forze consisteva nella più tenace e intenzionale immobilità. Marcel incorporava l’ethos della più profonda disillusione, viveva nel crepuscolo e non ti faceva illudere, stava descrivendo il decadente tramonto umano non il parto complicato dell’alba. Immagine quasi insopportabile da guardare, figurarsi da vivere. L’aspetto più stupefacente e controverso (ma per nulla ambiguo, per come era lui) era un’ironia torrenziale che permeava (quasi) tutto, finivi addirittura per ridere dell’angoscia di morte! Avevo ben chiaro i vari perché, per me, fosse un uomo pericolosissimo. Come fu (fu anche molto altro..).
Nel primo viaggio che facemmo assieme nel Madagascar, ogni tanto lo vedevo tirar fuori il suo computerino da un’improbabile fodera blu, sedersi e fare due, tre circonduzioni vigorose all’indietro con le spalle; Marcel si preparava così per scrivere sulla rivista. Ricordo che in quel primo viaggio era furtivo e deciso quando voleva scrivere il pezzo, tornati in stanza, quando sentiva che voleva farlo, lo faceva a basta.
Mi emozionava vederlo tutto concentrato a scrivere, aveva un’espressione serissima e serena. Sì, era veramente serissima ma forse non era per nulla sereno. Pensava con interesse, con trasporto. Non sapevo dove fosse lui in quei momenti, era assente ma non distante. io mi sentivo in un tempio, il suo tempio dove per un po’ mi era dato permesso stare, compartecipare al rito. Vivevo in quell’interstizio da cui sarebbero uscite le sue preghiere-profezie, quelle miniature che sfioravano il tutto dello sguardo umano, quelle miniature che coglievano l’inguardabile degli umani. Speravo che me le leggesse alla fine con i suoi occhialetti buffi anche per calmare il mio stato d’animo: mentre scriveva mi veniva voglio di fare l’amore nel tempio. Non l’ho mai fatto, sapevo che era importante quello che stava scrivendo, mi trattenevo ed era in qualche modo eccitante. Sarà per questo che quando non ci vedevamo per un po’ e lo andavo a trovare a casa, il primo amore lo volevo fare tra le sue librerie, i mille e bizzarri souvenir polverosi, le foto dei suoi tanti viaggi e doni di altre amanti: un altro tempio?
Il primo amore tra di noi era potente ma non istintivo, era più tortuoso ma ugualmente e assolutamente imprevedibile. Si creava tra i nostri sguardi un glifo giocoso, un sigillo intenzionalmente socchiuso dove prendeva vita una comunicazione fondata su sacramenti peccaminosi, come è giusto che sia. umilmente carnale, contradditoria, come eravamo noi due e le nostre premesse profonde.
Marcel viaggiava molto, il successivo viaggio era l’Argentina, mi disse - starò lì tre mesi - poi con voce veloce e dolce con un so ché di preoccupazione - vorresti venire anche tu, anche solo per un po’?
Posso affermare che l’espressione mi sento bene prese tutta un’altra tonalità dopo quel viaggio. Non mi ero mai sentita così bene, non tremavo più, mi offrivo così, era disposta a quello che accadeva (per come accadeva) e il cinismo ai minimi storici. Quando mi chiese se volevo scrivere anch’io un piccolo pezzo sulla rivista su quello che avevamo visto in quel viaggio, dissi semplicemente di sì ed ero contenta, tenni degli appunti. Tornata in Spagna mi vennero diverse idee per il pezzo, le articolai ma non erano mai del tutto convincenti. In una mattinata di rabbia con me stessa le cancellai quasi tutte, compreso un file praticamente completo. Non mi sentivo all’altezza? Ero distratta o attratta da altro? Viaggiavo troppo in quel periodo per soffermarmi sui ricordi, tesserli di nuovi significati e riflessioni come eppure,avrei desiderato? La perfezionista che viveva in me tornava a rompermi dopo anni in cui l’avevo sfrattata? Non era tempo di capriole all’indietro ma solo in avanti?
Il pezzo mai scritto si sarebbe chiamato Aria di sbordo, volevo descrivere l’atmosfera dei luoghi del nostro viaggio, l’aria che tirava e il nostro sbordare, eccedere, essere stranieri (anche tra noi). Insomma un diario di bordo, mio-nostro, un mostro dalla lingua aliena. Il punto centrale della mia insoddisfazione era il linguaggio scritto, volevo che fosse poetico ma mi sembrava al massimo patetico.
Per settimane nella mia mente coniavo involontariamente nuove parole per descrivere i gusti percepiti tra le culture (e le sue plurali rappresentazioni) attraversate in quel viaggio con Marcel (che poi era la prima alterità per me, giammai la più banale da raccontare).
Poi ebbi un’intuizione visitando una signora con un sintomo insolito, non sentiva più i gusti da qualche mese. Non sapeva riconoscerli, nessun gusto: salato, dolce, amaro o acido. Era terribile aveva perso i tutti i gusti: ageusia totale. Le chiesi di spalancare la bocca e mostrami la lingua... In quell’istante capii quellaa frenesia della mia lingua di volersi spingere altrove, di voler esplorare altri luoghi nel suo pur piccolo abitacolo: voleva dirigersi in altri meandri del palato - sconosciuti in primis a lei - per descrivere l’inconsueto.
La lingua mi stava dicendo che per narrare l’altro, i suoi gusti assaggiati da me, dovevo sentire i miei limiti di movimento (il palato, il frenulo, lo ioide) e i miei limiti percettivi (la mucosa, le papille)?
In sostanza l’altro per me era davvero dicibile? In quanti libri e poesie mi ero sentita perfettamente descritta dalle parole di altri? Eppure quante parole, espressioni di altre lingue sono assolutamente intraducibili nella nostra e viceversa?
Allora mi interessava di più conoscere attraverso l’incomprensibilità dell’altro, fondare il nostro riconoscimento sull’incomprensibilità. Lo avevo appreso dalla malattia, la malattia è sempre così, la malattia è esattamente una rottura biografica indesiderata e nella sua essenza incomprensibile. La signora aveva perso il senso più antico dell’umano (insieme all’olfatto), non aveva più gusto. L’ageusia totale è una malattia inesorabile, non si muore, ma chiediamoci com’è vivere senza alcun gusto? Marcel avrebbe saputo scriverci facendo delle analogie con l’ageusia sociale della contemporaneità.
Quell’episodio, come molti altri, mi parlavano anche di noi: io con lui vivevo la reciprocità piena, che si fonda proprio sull’incompletezza, continuamente fra inframezzi e crocevia.
Con lui ho intuito quello che per me voleva dire l’incomprendere (che come verbo non esiste) e che per me era alla base della reciprocità umana. Che reciprocità e curiosità sono in profonda relazione, e anzi proprio il massimo slancio della reciprocità è la curiosità. La curiosità che alterna nella vastità dell’altro. Come quando si balla.
Comunque io, a contrario di Marcel, non avevo il dono conoscitivo delle parole e anzi avevo spesso il timore di ridurre la ricchezza del vissuto con il linguaggio nero su bianco. Forse per questo preferivo disegnare, mi sentivo più autentica, più me.
Di quel pezzo, scritto e cancellato più volte, si salvarono solo questi appunti sconclusionati:
· Marcel non usa la mappa, non si porta mai nulla appresso tranne una scatolina di stecchini (e tutti ci fanno caso). Beve sorsetti d’acqua come i passeri. Dice che donne esistono per essere guardate. Indossa calzette di spugna discutibili. Dice che quando mi addormento faccio i brividini. Ci guardiamo allo specchio quando ci laviamo i denti (cos’è l’intimità?). Nodo. Influenze arabe. ecomostri. Treni. St(r)etti per 21 giorni.
· (Il lusso della) Metropolis - Calle Baejelle ( ovvero il navigatore ci ha fatto perdere la bussola)
· (Vento di) Maestrale - Calle Romero (come un uomo di 70 anni prepara panini al salame e formaggio, sangue in bici)
· (Sempre in) Itinere
· Sonni Royal con dentifricio e sesso.
· Esteponera (vedo l’Africa, macachi, Marcel mi parla a lungo di Cristiano e ha gli occhi belli nel mentre)
· Truffaut e l’uovo alla (Hit)cock: Madre de Dios questa ci mancava!
· Ti sistemo io (mai litigare con un sistemico a Buenos Aires)
· Quali simbologie possibili in una casetta di vetro? Ovvero Lodi ai vapori e alle nostre umidità.
· Lacrime e mandorle.
Giunse poi un altro viaggio in Grecia, nell’isola sardonica Poros. Poros significa passaggio, apertura, accesso, uscita...
Tratta dal racconto, Strong Life, Lucia Andas.
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