Superfluo commentare il Festival a
partire dalle canzoni.
Non contano più nulla, servono solo a
giustificare l'esistenza del baraccone.
Come le partite per il mondo del
calcio, i programmi per le elezioni, o gli studenti per l'Università.
Sono solo alibi istituzionali, che
tentano di mantenere in piedi il teatro.
Fuorviante anche commentarlo
politicamente.
Da Pasolini in poi siamo consapevoli
che quel che può appare liberatorio e trasgressivo e
(soggettivamente) 'di sinistra', si può rivelare alla fine
(oggettivamente) 'di destra' (Achille Lauro o Rosa chemical docent).
E che, viceversa, quel che appare
conservatore e (soggettivamente) 'di destra', si può rivelare alla
fine (oggettivamente) 'di sinistra'.
Ma non riesco ad esimermi da un
commento antropologico: il Festival come specchio di un paese.
Quando ho visto Chiara Ferragni
comparire con un armatura dorata, rinnovata frigida Atena, con dei
seni finti in rilievo che coprivano i suoi (invisibili, come sempre),
ho pensato al trionfo definitivo della donna androgina.
In parallelo, Elodie, pur anch'essa in
odor d'androginia, riscatta la donna sensuale e primitiva.
Ma lo può fare soltanto trasformandosi
in una afro-noir e facendosi accompagnare da un'altra bianca, Big
Mama, che fa la negra e assomiglia ad una dea steatopigica del
Neolitico.
E alla fine, coerentemente, si baciano
in bocca come due lesbiche al potere.
Il loro trionfo si confermava ancor più
nel manifestarsi evidente di un indebolimento progressivo del
maschile: cantanti simil-maschi (simulacri femminilizzati e/o infantilizzati)
si aggiravano sul palco, sperduti, vergognosi di se stessi,
imploranti, come eterni adolescenti, cagnolini bastonati in attesa di conferme, carezze e
conforto.
Tananai che parla come un baritono, ma
quando canta sembra un castrato dell'opera settecentesca.
Lazza, ripieno di rabbia repressa, che
chiede alla partner di essere incenerito e corre dalla madre a
regalarle dei fiori.
Colapesce e Di Martino che si credono
nuovi filosofi del pensiero debole, riproponendo filastrocche
orecchiabili degne di Raffaella e Ambra.
E infine lui, l'inarrivabile Mengoni,
il maschio barbuto ma sensibile, con occhi grandi e sempre lucidi,
toni e parole sempre dolci e suadenti.
Impossibile non amarlo, e non votarlo
(da grandi, donne e piccini, maschi Dolce & Gabbana, trans e
fluid...). Ecco perché vince: perché è proprio questo il simulacro
di maschio che piace ai maschi e alle femmine.
Un maschietto da portare a bere uno
spritz, da tenere per mano sulle dune di Piscinas, da mostrare alle
amiche, con le quali vai poi però a baciarti in bagno.
Un maschietto con venature mistiche,
ascetiche, tutto sentimento e niente desiderio, opposto al Rosa
Chemical (molto meno pericoloso e già visto) del tutto desiderio e
niente sentimento.
Sì, stiamo diventando un paese di
mengoni.
E non solo perché -come sempre in
Italia- non vince quel che amiamo e votiamo, ma votiamo e amiamo chi
vince.
Ma soprattutto perché ci piace
pensarci così, come lui.
Terribilmente buono, commovente,
vincente e compassionevole (come un vero capitalista, ma solidale).
E capace di esserlo sino alla fine:
quando ha parlato delle cantanti donne, tutte escluse dal quintetto
vincente.
E qui i mengoni possono così chiudere
il cerchio.
Le donne potenti e vincenti, androgine
ed indipendenti, lesbiche e in carriera, alla fin fine votano in
massa un simil-maschio e non votano le loro simili.
Ecco perché, come avviene nella
realtà, le donne vincono l'esibizione, ma proseguono a perdere la gara.
Non sarà anche per questo che un'altra
Chiara, la Francini, femmina carnale e popputa, bellezza della
tradizione fuori tempo, alla fin fine si chiede se non ha sbagliato a
non fare figli, a non essere madre?
E chi la fa sentire in colpa, carente e fallita, se non le altre donne?
E non sarà anche per questo che i
giovanetti vincono la gara, ma alla fin fine non fanno altro che
ringraziare le loro super -mamme e i loro super-padri (quello vero,
intanto, pare non pervenuto) ?
Perchè sono loro (i vari Morandi, Ranieri, Al
Bano, Gino Paoli e addirittura un moribondo Peppino di Capri) che li
accolgono e danno loro spazio sul palco, paternalisticamente.
E sono sempre loro -quei vegliardi eternamente in voga- che li baciano in fronte,
li benedicono, li avviano -esperti e sapienti di una vita che non c'è
più- verso un roseo futuro che non c'è, come anziani di un
villaggio che non c'è.
E così lo spettacolo finisce,
l'imperversare di variazioni e mode si placa, e si torna alla dura
realtà quotidiana: un mondo fatto di clichet, stanco ripetersi del
già più volte vissuto e consumato, in mano a mistificatori ed
imbonitori di fine Impero, disposti a tutto pur di non lasciare lo
schermo e il potere, senza lasciarci nulla, se non le illusioni che
proseguono a creare per farci sentire vivi.