La vita, per la maggior parte degli uomini, è una mazzata ricevuta senza che se ne rendano conto, una cosa triste inframezzata da intervalli felici, qualcosa di simile a piccole facezie che colui che veglia sui defunti racconta, per trascorrere la calma della notte e l'obbligo della veglia.
Ho sempre trovato inutile considerare la vita come una valle di lacrime: è sì una valle di lacrime, ma dove raramente si piange.
Ha detto Heine che, dopo le grandi tragedie, finiamo sempre per soffiarci il naso...
La vita sarebbe insopportabile se prendessimo coscienza di essa. Fortunatamente non lo facciamo. Viviamo con la stessa consapevolezza degli animali, nello stesso modo futile ed inutile, e se cerchiamo di prevenire la morte, che presumibilmente, senza averne la certezza, essi non sanno prevenire,la preveniamo attraverso innumerevoli dimenticanze, innumerevoli distrazioni e sotterfugi, che a malapena possiamo dire di pensare ad essa.
Così viviamo, ed è poco per ritenerci superiori agli animali.
La differenza tra noi e loro consiste nel dettaglio puramente esteriore di parlare e scrivere, di avere -noi- un'intelligenza astratta per distrarci dal fatto di averne una concreta, e di immaginare cose impossibili. Tutto questo, però, sono accidenti del nostro organismo fondamentale.
Parlare e scrivere non producono nulla di nuovo nel nostro istinto primordiale di vivere senza sapere come.
La nostra intelligenza astratta serve solo a creare sistemi, o idee semi-sistemiche, di ciò che per gli animali significa semplicemente stare al sole.
La nostra capacità di immaginare l'impossibile forse non è significativa, perché ho già visto dei gatti guardare verso la luna, e non so se l'avrebbero voluta.
Tutto il mondo, tutta la vita, sono un vasto sistema di inconsapevolezza che opera attraverso la consapevolezza individuale...
Felice, dunque, colui che non pensa, poichè realizza per istinto e destino organico ciò che tutti noi dobbiamo realizzare per deviazioni e destino inorganico e sociale.
Felice colui che più somiglia ai selvaggi, perché riesce ad essere, senza sforzo, ciò che noi tutti possiamo essere solo attraverso il lavoro imposto; perché conosce la strada di casa, che tutti gli altri trovano solo grazie a scorciatoie dell'immaginazione e del ritorno; perché, radicato come un albero, è parte del paesaggio, e quindi della bellezza, e non come noi miti passeggeri, figuranti dell'abito vivo dell'inutilità e dell'oblio.
Viviamo di continue ed ossessive rimozioni.
Siamo allevati a temere il dolore ed il morire, e temiamo così di vivere.
Diveniamo passivi per non deprimerci e ci deprimiamo perché non ci sentiamo vivi.
Per evitare l'elaborazione depressiva (la consapevole accettazione del perdersi, del fallire, del lasciare) ci dirigiamo con paranoica dedizione contro l'altro vivente, che sia un umano, un animale, una pianta, o un pianeta intero.
La lettura dei giornali, sempre penosa dal punto di vista estetico, lo è spesso anche dal punto di vista morale, anche per colui che abbia poco interesse per le questioni morali.
Le guerre e le rivoluzioni -ce n'è sempre qualcuna in corso- arrivano, nell'analisi dei loro effetti, a provocare non orrore ma tedio. Non è la crudeltà di tutti quei morti e feriti,il sacrificio di tutti quelli che sono morti combattendo, o sono morti senza battersi, il che pesa enormemente sull'anima; è la stupidità di sacrificare vite ed esistenze a qualcosa di inevitabilmente inutile.
Tutti gli ideali e le ambizioni sono solo un delirio di comari.
Non esiste impero per cui valga la pena per rompere il giocattolo di un bambino. Non c'è ideale che meriti il sacrificio di un treno carico di ferraglia.
Quale impero è utile e quale ideale è proficuo?
Tutto è umanità, e l'umanità è sempre la stessa -variabile ma non perfettibile, oscillante ma statica.
Di fronte al corso irrimediabile delle cose, la vita che abbiamo avuto senza sapere come, e perderemo senza sapere quando, quel gioco di diecimila scacchi che è la vita condivisa con altri e di fronte alla lotta, al tedio di contemplare inutilmente ciò che non si realizzerà mai -il saggio non può far altro che implorare il riposo, il non dover pensare a vivere- perché basta dover vivere - un piccolo posto al sole e all'aperto, e sognare almeno che vi sia pace al di là delle montagne.
A vedere ed ascoltare tv e giornali in questi giorni viene solo voglia di ridere, di piangere, di chiuderli e di spegnerli.
Suona tutto così falso, stupido, ridicolo e terribile.
La morte di parole, persone, ideali, movimenti ci si presenta nella sua più ineffabile evidenza quanto più parole, persone, ideali e movimenti si agitano per fingere ancora di essere vivi.
Che possiamo fare, in questo mondo, che lo disturbi o lo modifichi?
Che cosa può valere un uomo, che un altro uomo non valga?
Valgono gli uomini comuni gli uni per gli altri, gli uomini d'azione per la forza che esprimono, gli uomini di pensiero per ciò che creano.
Ciò che hai creato per l'umanità è in balia del raffreddamento della Terra. Ciò che hai consegnato ai posteri, o è colmo di te, e nessuno lo capirà, oppure della tua epoca, e le altre epoche non lo capiranno, o ancora costituisce un richiamo per tutte le epoche, e l'abisso finale, in cui precipita ogni epoca, non lo capirà...
Avverto il freddo della vita...Sono la cocente sconfitta dell'ultimo esercito a difesa dell'ultimo impero. Sento il gusto della fine di una civiltà antica e dominatrice...
Qualcosa in me chiede eterna compassione -e piange su di sé come su un dio morto, senza altari durante il rituale, quando la bianca discesa dei barbari ha raggiunto il confine e la vita è venuta a chiedere conto all'impero di che cosa avesse fatto della felicità.
Quanto sarà duro vivere in questi ultimi anni dell'Impero che governa -con la sua- la nostra Libertà?
Quanto sarà disumana e orribile questa transizione che ora ci avvolge?
E quale Impero, Impero degli Imperi o Catastrofe degli Imperi, ci attende?
E chi e come chiederà il conto all'Impero di che cosa ne ha fatto della sempre possibile felicità?
L'ordito che si disfa non lascia ancora intravvedere la trama che frattanto si crea.
Non siamo pronti, né potremmo mai esserlo.
Eppure è questo il mondo in cui la nostra vita dovrà -a lungo- provare a vivere.
(I brani sono tratti da F. Pessoa, Il libro dell'inquietudine, 1913-1935)
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