Io non sono un figlio del mio tempo, anzi, mi riesce difficile non definirmi addirittura suo nemico. Non che io non lo capisca, come tante volte sostengo. Questa è solo una scusa di comodo. Per indolenza, semplicemente, non voglio essere aggressivo o astioso, e perciò dico che una cosa non la capisco quando dovrei dire che la odio o la disprezzo. Ho l'orecchio fine, ma faccio il sordo. Mi pare più elegante fingere un difetto che ammettere di aver sentito rumori volgari.
Dinanzi a me si stendeva l'immensa vita, un prato smaltato di fiori, appena limitato da un orizzonte molto, molto lontano. Frequentavo l'allegra, anzi sfrenata compagnia di giovani aristocratici...Ne condividevo la scettica leggerezza, la malinconica presunzione, la colpevole ignavia, l'arrogante dissipazione, tutti i sintomi della rovina, di cui ancora non intuivamo l'approssimarsi. Sopra i bicchieri dai quali spavaldamente bevevamo, la morte invisibile incrociava già le sue mani ossute... Forse negli strati profondi delle nostre anime erano sopite quelle certezze che la gente chiama presentimenti...Dai nostri cuori grevi nascevano le battute spensierate, dalla sensazione di essere votati alla morte un folle desiderio di qualsiasi affermazione di vita; di balli, feste popolari, ragazze, pranzi, gite, stravaganze di ogni genere, scappatelle assurde, di ironia suicida, di critica feroce, del Prater, della Ruota gigante, del Teatro delle marionette, di mascherate, di balletti, di frivoli giochi amorosi, di manovre militari a cui ci si sottraeva, e finanche di quelle malattie che l'amore talvolta ci largiva.
Pure, per quanto fossi preparato all'ignoto, e anzi a qualcosa di estremamente remoto, il più mi parve consueto e familiare. Solo molto più tardi, molto tempo dopo la grande guerra che giustamente, a mio parere, viene chiamata 'guerra mondiale', e non già perchè l'ha fatta tutto il mondo, ma perchè noi tutti, in seguito ad essa, abbiamo perduto un mondo, il nostro mondo, solo molto più tardi, dicevo, dovevo accorgermi che perfino i paesaggi, i campi, le nazioni, le razze, le capanne e i caffè del genere più diverso e della più diversa origine devono sottostare alla legge del tutto naturale di uno spirito potente che è in grado di accostare ciò che è distante, di rendere affine l'estraneo e di conciliare l'apparentemente divergente.
Ero l'unico fra loro che riconoscesse già i sintomi della morte nelle loro facce inoffensive, perfino liete, in ogni caso per nulla turbate. Era come se si trovassero in quella specie di stato euforico di cui tanto sovente beneficiano i moribondi, un prodromo della morte. E sebbene sedessero a tavola ancora vivi e vegeti e bevessero grappa e birra, e sebbene io fingessi di prender parte ai loro stupidi scherzi, pure avevo l'impressione di essere come un medico o un infermiere che vede morire il suo paziente e si rallegra che il moribondo non sappia ancora nulla della morte imminente. E tuttavia, alla lunga, cominciai a sentire un malessere quale forse devono provare anche tanti medici o infermieri posti di fronte alla morte e all'euforia del moribondo, in quel momento cioè in cui potrebbero chiedersi se non è meglio annunciare al morituro la sua prossima fine piuttosto che accogliere come propizia la circostanza che questi se ne vada senza sospettare nulla.
L'inconsueto divenne per noi tutti la consuetudine. Era un precipitoso assuefarsi. Quasi senza saperlo ci adeguavamo con la più grande sollecitudine, anzi correvamo dietro a fenomeni che odiavamo e aborrivamo. Cominciammo addirittura ad amare la nostra disperazione come si amano dei nemici sinceri. Anzi ci sprofondavamo dentro. Le eravamo grati perchè inghiottiva i nostri piccoli affanni personali, lei, la loro sorella maggiore, la grande disperazione, che invero non cedeva a nessun conforto, ma nemmeno a nessuna delle nostre preoccupazioni quotidiane. Secondo me, si capirebbe e certo si perdonerebbe la spaventosa arrendevolezza delle odierne generazioni di fronte ai loro ancor più spaventevoli asservitori, se si pensasse che è della natura umana preferire la grandiosa sciagura che tutto distrugge all'affanno particolare. L'immane sciagura inghiotte rapidamente la piccola disgrazia, la disdetta insomma. E perciò in quegli anni noi amavamo l'immane disperazione. Oh, non che non fossimo stati in grado di mettere in salvo da essa ancora qualche piccola gioia, di comprargliela, di ottenerla con le lusinghe, di strappargliela con la forza. Spendevamo del denaro che a malapena ci apparteneva ancora, ma che pure a malapena aveva ancora un valore. Si dava a credito e si prendeva a credito, accettavamo doni e ne facevamo, restavamo debitori e pagavamo debiti altrui. Così vivranno gli uomini il giorno prima del giudizio universale, succhiando nettare dai fiori velenosi, lodando il sole che si spegne come dispensatore di vita, baciando la terra che si dissecca come madre della fertilità.
J. Roth, La cripta dei cappuccini, 1938