Sto collaborando ad una proposta di PRIN con alcuni colleghi universitari di Cagliari, Foggia e Campobasso.
Il PNRR stanzia fondi per il sud e si cerca di approfittarne per un progetto contro la dispersione nelle scuole secondarie superiori.
Quel che mi ha stupito (e che ho provato a segnalare ancora una volta) è che -come in tanti altri ambiti, con risultati nulli o addirittura nocivi- ci si ponga il problema soltanto a valle e si pensi di risolverlo soltanto con innovazioni tecniche, che sollevino l'audience e l'attrattività della proposta scolastica, come per un qualunque spettacolo televisivo mal riuscito.
E quindi si propone di andare verso realtà aumentate, gamification, utilizzo dei social (compreso Tik Tok!), insegnanti trasformati in animatori, lavagne che si fanno interattive, flipped classroom che si smontano e rimontano a piacimento.
Alcune idee sarebbero anche buone, ma vengono inserite in una cornice che permane indiscussa e non sottoposta ad autocritica.
Ad esempio, non si mette in discussione l'obbligo scolastico e formativo, causa prima invece – a mio parere e non solo- della voglia di evadere e fuggire di una buona parte degli studenti.
L'obbligo non va di pari passo, come è ovvio, con la motivazione a giocare e a mettersi in gioco.
L'altro grande motivo (sommerso) è che la dispersione nasce dall'impossibilità a competere in un gioco che richiede rendimenti alti e sempre crescenti, sottoposti a valutazioni sommative sempre più spietate e feroci: il che non può che generare ansie di prestazione e desideri di sottrarsi al gioco stesso, proprio attraverso il ritiro.
La dispersione scolastica è solo uno degli elementi del ritiro adolescenziale e giovanile, sempre più diffuso e apparentemente senza rimedio ( se non si rimette in discussione un sistema che, per sua natura ed essenzialità e non 'per sbaglio', produce scarti).
Voglio mettere in parallelo -e collegare a questo- un secondo tema attuale di riflessione.
Centinaia di ragazzi, giovani e giovanissimi, stanno iniziando -in tutto il mondo- a compiere azioni dirette nonviolente di protesta per sensibilizzare sulla catastrofe climatica.
Blocchi stradali in strade molto trafficate, oppure performance che generano scandalo nei musei (macchiare vetri di opere famose, attaccarsi alle loro cornici...), sverniciamenti di vetrine e portoni, si ripetono da alcuni mesi con una certa regolarità.
E con una ancora maggior regolarità arrivano come mazzate gravose multe e/o avvii di inchieste e giudizi penali, con conseguenze potenzialmente pesanti sulle vite di questi ragazzi.
La nostra società e la nostra cultura non riescono a fare i loro passi verso una giustizia-ecologia climatica: l'unica cosa che sanno fare è punire -usando l'arma della giustizia- chi lotta per essa.
Anzichè far propria la mobilitazione per un diverso modo di stare sul pianeta, il mondo adulto e le istituzioni procedono ad inquinare, distruggere, e a rimuovere i loro misfatti, anche attraverso una progressiva marginalizzazione e criminalizzazione dei (già fragili e politicamente vergini) movimenti giovanili oggi in azione.
Anche così si producono distacco tra generazioni, sfiducia verso le istituzioni, dispersioni e fughe (anche verso prese di posizione più estreme ed aggressive).
Un consiglio ai giovani in campo, però, mi sento di darlo.
Così come ho già provato a dire durante la formazione agli attivisti di XR qualche mese fa, ritengo che questo tipo di azioni illegali siano spropositate rispetto ai costi umani subiti da chi le fa in rapporto ai risultati che si ottengono.
Non mi paiono azioni ben mirate, se quel che si vuole ottenere è l'allargamento del consenso rispetto ad esse: anzi, rischiano di inimicarsi ulteriormente le potenziali terze forze (automobilisti ed appassionati d'arte, ad esempio).
Sarebbe necessario, invece, individuare dei responsabili primi (ad esempio le compagnie petrolifere, le aziende inquinanti, i politici conniventi e le lobbies colluse...) ed organizzare delle campagne di boicottaggio e di non collaborazione attiva di massa (legali e meno rischiose per i singoli), dentro cui inserire azioni di disobbedienza civile (illegali) agite da chi se la sente,per rafforzare l'impatto mediatico e politico della campagna stessa.
Proseguire, invece, solo sulla strada delle azioni illegali singole e compiute da piccolissimi gruppi, mi sembra energeticamente troppo dispendioso, pericoloso per le conseguenze sulla vita futura di tanti giovanissimi, e -in ogni caso- anche poco redditizio per gli obiettivi che si vorrebbero perseguire.
Tanto di cappello, quindi, verso questi piccoli eroi del nostro tempo.
Ma -chiedo loro- perché non tutelarsi un po' di più, proteggendosi per quel che è possibile all'interno di iniziative più vaste, più condivise e più partecipate (ma non meno radicali ed efficaci)?