lunedì 25 luglio 2022

vivere a vanvera

 

Non temerai i terrori della notte

né la freccia che vola di giorno,

la peste che vaga nelle tenebre,

lo sterminio che devasta a mezzogiorno.

(Salmo 90)


La parola domani è stata inventata da adulti ignoranti e un po' depravati, oltre che irresponsabili, perchè sappiamo benissimo che in natura il domani non c'è, è solo un espediente pratico, merce dozzinale da vendere a chi ha voglia di cascarci.

Infatti non lo trovi da nessuna parte: trovi molto ieri, in giro, dove si accumula un arretrato pesante, e guardando i tuoi passi per terra c'è sempre un adesso che è meglio non considerare neanche, perché l'adesso è un animale mordace e lunatico.

Bisogna starci lontano, dall'adesso, o mantenere un rapporto prudente, di buon vicinato senza intimità.

Ma, a parte l'adesso, tutti cadono nel tranello del cosiddetto domani, che ci riempie quel serbatoio bucato che sono le speranze...


C'è un progetto avanzato, aveva detto ancora mio babbo, per una produzione che sarà un multiplo di quella attuale...Multiplo di quanto? Aveva chiesto il maggiore. Diciamo cinquanta volte, aveva risposto mio babbo, e sono stato basso.

Avrebbe potuto dire due o tre volte,ma il ragionevole non persuade, sa di arrotondamento ruffiano.

Moltiplicando per cinquanta, nessuno sospetta la fandonia.

Mio babbo Aràd era capace di trovare non solo le parole adatte ai momenti difficili ma anche i numeri e i multipli, secondo le regole della vanvera e dell'esagerazione, che si muovono su piani opposti: l'esagerazione scuote, la vanvera addormenta, ma insieme fanno una bella mescola...


Il vero non merita troppa stima: è una fabbrica di problemi che solo il falso risolve.

L'unico problema del falso è di avere in comune col vero una finitezza fisiologica: cioè, fin dove ci porta? E in fondo, aveva detto, qui è tutto un susseguirsi di falso che guarisce e depura il vero: i programmi del Supremo Cancelliere, densi di verità e di truffa, le parole urlate del vostro ardito, ieratico e inutile condottiero, l'alleanza fra le nazioni, le trecento tonnellate di carbone della miniera, i bollettini di guerra dove si invertono le vittime e i carnefici.

E poi ci siamo noi, cioè io e lei, in questo preciso momento e su questa macchina e il mondo attorno che non si cura di nessuno dei due perché in fondo è d'accordo col sistema.

Resta sempre da capire dove andiamo.

Che è come dire che il vero e il falso sono stati transitori:il falso ci traghetta in un'apparente infinità che arriva fin quasi a terra, ma poi c'è ancora un po' di guazzo, prima della riva...


Nella vita pratica, soprattutto didattica, si confonde il silenzio con il non parlare, cioè quel silenzio finto che pretendono i maestri e le maestre di scuola come se fosse uno stato raggiungibile.

Del resto, l'impostura del silenzio nasce proprio lì, nella scuola, che è a sua volta un'invenzione diabolica. Non c'è un giorno della mia vita che io sia stata contenta di andarci. Ero felice solo di uscirne, ma era un simulacro di felicità che somigliava più a sollievo dalle tribolazioni.

Anche la felicità è merce scolastica falsa come il silenzio, per non parlare della libertà, non presente in natura ma sintetizzabile chimicamente in una specie di surrogato di utopia...

Per questo mi sono sempre tenuta distante da quelli che si stimano liberi e felici per contegno o fede religiosa o infatuazione politica.

Per esempio, la maggior parte delle divise militari che giravano in questo sottomondo si proclamavano libere e felici, anche quando sparavano sui disarmati, anzi in questo caso diventavano veri campioni di libertà e felicità per via della gratificazione che lo sparo su un bersaglio inerme procura anche a livello di sistema endocrino, dicono...


In mezzo a tutte le macchie di memoria che si confondono tra divise, stivali, visiere dei cappelli insieme agli intrecci del destino militante, si muoveva un'intelligenza che, secondo me, ma non garantisco, appartiene solo al folletto della fine, che cominciava a prepararsi.

Volevo che arrivasse il folletto della fine ogni giorno, una fine diciamo provvisoria, non finale.

La fine di un capitolo, non di un libro...

Ma è un ritardatario cronico, il folletto della fine, non ha il senso del tempo.

Arriva, secondo una sua intelligenza naturale non misurabile in quozienti, quando tutte le cose si incastrano. Perchè c'è sempre un punto in cui le cose si incastrano...


(Paolo Colagrande, Salvarsi a vanvera, 2022)




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