martedì 14 febbraio 2023

in un paese di mengoni

 

Superfluo commentare il Festival a partire dalle canzoni.

Non contano più nulla, servono solo a giustificare l'esistenza del baraccone.

Come le partite per il mondo del calcio, i programmi per le elezioni, o gli studenti per l'Università.

Sono solo alibi istituzionali, che tentano di mantenere in piedi il teatro.


Fuorviante anche commentarlo politicamente.

Da Pasolini in poi siamo consapevoli che quel che può appare liberatorio e trasgressivo e (soggettivamente) 'di sinistra', si può rivelare alla fine (oggettivamente) 'di destra' (Achille Lauro o Rosa chemical docent).

E che, viceversa, quel che appare conservatore e (soggettivamente) 'di destra', si può rivelare alla fine (oggettivamente) 'di sinistra'.


Ma non riesco ad esimermi da un commento antropologico: il Festival come specchio di un paese.

Quando ho visto Chiara Ferragni comparire con un armatura dorata, rinnovata frigida Atena, con dei seni finti in rilievo che coprivano i suoi (invisibili, come sempre), ho pensato al trionfo definitivo della donna androgina.

In parallelo, Elodie, pur anch'essa in odor d'androginia, riscatta la donna sensuale e primitiva.

Ma lo può fare soltanto trasformandosi in una afro-noir e facendosi accompagnare da un'altra bianca, Big Mama, che fa la negra e assomiglia ad una dea steatopigica del Neolitico.

E alla fine, coerentemente, si baciano in bocca come due lesbiche al potere.


Il loro trionfo si confermava ancor più nel manifestarsi evidente di un indebolimento progressivo del maschile: cantanti simil-maschi (simulacri femminilizzati e/o infantilizzati) si aggiravano sul palco, sperduti, vergognosi di se stessi, imploranti, come eterni adolescenti, cagnolini bastonati in attesa di conferme, carezze e conforto.

Tananai che parla come un baritono, ma quando canta sembra un castrato dell'opera settecentesca.

Lazza, ripieno di rabbia repressa, che chiede alla partner di essere incenerito e corre dalla madre a regalarle dei fiori.

Colapesce e Di Martino che si credono nuovi filosofi del pensiero debole, riproponendo filastrocche orecchiabili degne di Raffaella e Ambra.

E infine lui, l'inarrivabile Mengoni, il maschio barbuto ma sensibile, con occhi grandi e sempre lucidi, toni e parole sempre dolci e suadenti.

Impossibile non amarlo, e non votarlo (da grandi, donne e piccini, maschi Dolce & Gabbana, trans e fluid...). Ecco perché vince: perché è proprio questo il simulacro di maschio che piace ai maschi e alle femmine.

Un maschietto da portare a bere uno spritz, da tenere per mano sulle dune di Piscinas, da mostrare alle amiche, con le quali vai poi però a baciarti in bagno.

Un maschietto con venature mistiche, ascetiche, tutto sentimento e niente desiderio, opposto al Rosa Chemical (molto meno pericoloso e già visto) del tutto desiderio e niente sentimento.

Sì, stiamo diventando un paese di mengoni.

E non solo perché -come sempre in Italia- non vince quel che amiamo e votiamo, ma votiamo e amiamo chi vince.

Ma soprattutto perché ci piace pensarci così, come lui.

Terribilmente buono, commovente, vincente e compassionevole (come un vero capitalista, ma solidale).


E capace di esserlo sino alla fine: quando ha parlato delle cantanti donne, tutte escluse dal quintetto vincente.

E qui i mengoni possono così chiudere il cerchio.

Le donne potenti e vincenti, androgine ed indipendenti, lesbiche e in carriera, alla fin fine votano in massa un simil-maschio e non votano le loro simili.

Ecco perché, come avviene nella realtà, le donne vincono l'esibizione, ma proseguono a perdere la gara.

Non sarà anche per questo che un'altra Chiara, la Francini, femmina carnale e popputa, bellezza della tradizione fuori tempo, alla fin fine si chiede se non ha sbagliato a non fare figli, a non essere madre? 

E chi la fa sentire in colpa, carente e fallita, se non le altre donne?

E non sarà anche per questo che i giovanetti vincono la gara, ma alla fin fine non fanno altro che ringraziare le loro super -mamme e i loro super-padri (quello vero, intanto, pare non pervenuto) ?

Perchè sono loro (i vari Morandi, Ranieri, Al Bano, Gino Paoli e addirittura un moribondo Peppino di Capri) che li accolgono e danno loro spazio sul palco, paternalisticamente.

E sono sempre loro -quei vegliardi eternamente in voga- che li baciano in fronte, li benedicono, li avviano -esperti e sapienti di una vita che non c'è più- verso un roseo futuro che non c'è, come anziani di un villaggio che non c'è.

E così lo spettacolo finisce, l'imperversare di variazioni e mode si placa, e si torna alla dura realtà quotidiana: un mondo fatto di clichet, stanco ripetersi del già più volte vissuto e consumato, in mano a mistificatori ed imbonitori di fine Impero, disposti a tutto pur di non lasciare lo schermo e il potere, senza lasciarci nulla, se non le illusioni che proseguono a creare per farci sentire vivi.

1 commento:

  1. Un' analisi antropologica impeccabile, una lettura al vetriolo capace di far pensare e di disinnescare la drammaticità del reale, esplorando un patetico scorcio del nostro tempo attraverso un' affilata ed ironica intelligenza .

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