giovedì 24 ottobre 2024

La nonviolenza messa in gioco

 Introduzione

Le tre dimensioni della violenza (culturale, strutturale, diretta), così come sono state definite dalle teorie della nonviolenza (Galtung, 2000), vivono attualmente un'espansione esponenziale ed apparentemente inarrestabile.

La violenza culturale emerge con evidenza sia nelle relazioni col pianeta ed il vivente (la transizione ecologica risulta ancora sottomessa alle logiche della crescita e del mercato: il greenwashing è pervicacemente in corso e la catastrofe climatica inizia a presentare il conto anche in Occidente), sia nei contesti inter-umani (discriminazioni e razzismi, sino a vere e proprie pseudospeciazioni, che ancora ci si illude di poter contrastare con tiepide e cortesi opposizioni 'liberal'-woke').

La violenza strutturale si esprime tragicamente con l'aumento della diseguaglianza economica e sociale, della polarizzazione tra èlite privilegiate e masse impoverite, precarizzate, se non diseredate e abbandonate; il che non può che generare desolazione, rabbia, risentimento, sia all'interno delle società occidentali (per quanto ancora sedate dal consumismo e dai media ?), sia tra queste e altre aree del mondo che -a ragione- si sentono escluse da uno 'sviluppo' tanto promesso e decantato, ma mai raggiunto, se non per pochi e sempre solo all'interno di cornici neo-coloniali).

In un contesto di violenza così estremo non può stupire che il circuito si rafforzi anche mediante una crescita di azioni apertamente aggressive e direttamente espresse: sia nelle relazioni microsociali (ad es. nelle relazioni familiari e di coppia), sia in quelle meso (scontri tra gruppi e tra questi ed enti-isitituzioni (ad es, nell'ambito delle cure sanitarie o del sistema penale), sia nella dimensione macro (proliferazioni di guerre e riarmo tra gli stati, genocidi e progroms, escalation di conflitti armati e prodromi di guerra civile all'interno degli stati).

La guerra ritorna ad essere la condizione di sopravvivenza degli Stati nazionali, che non smettono di emettere funebri richiami all'unità di patria contro il nemico, per preservare così il controllo politico interno, quanto più la situazione ordinaria di 'pace' si profili sempre più ingovernabile e caduca.

In una situazione già così degenerata, esasperata ed estrema, paiono venire a mancare le condizioni minime di senso per un impegno -educativo, culturale e politico- collettivamente e socialmente orientato alla pace.

Le persone si sentono sole, confuse ed impotenti; in particolare, le giovani generazioni si dibattono tra il vuoto del presente e le angosce di un futuro senza prospettive, quando non minaccioso.

L'esistenza di tutti procede all'interno di un sistema di vita che vuole proseguire a distrarci con luci e paillettes, ma di fatto è impegnato quotidianamente a spegnere i sogni, a mortificare le esperienze di vita, ad alienare ragazzi e giovani nella scuola e gli adulti nel lavoro.

I movimenti sociali stentano a nascere e a manifestarsi, e -soprattutto- a durare e a coordinarsi.

Ognuno sta solo sul cuor della terra; e la 'società' ha come perso colore, pare essersi (e)stinta.

Anche la nonviolenza, intesa come teoria-prassi dell'azione educativa, sociale e politica alternativa alla violenza, inevitabilmente arranca e sembra non poter più rispondere alle istanze politiche ed ai conflitti violenti (culturali, strutturali e diretti) del secolo XXI.

1. Analisi/Sintesi

I motivi sono vari:

  • la neutralizzazione crescente imposta sulla nonviolenza da parte di un pacifismo generico ed imbelle, unicamente votato a cercare di evitare la guerra per noi stessi, ma senza rimettere in discussione i nostri interessi economici (ad es. dell'industria d'armi) ed i nostri stili di vita e di consumo e quindi favorendo i teatri di guerra in un altrove, che però man mano si avvicina sempre più ai nostri confini e alle nostre vite; è inutile ed ipocrita educare alla pace se nella nostra vita concreta continuiamo a preparare alacremente la guerra;

  • la crescente criminalizzazione delle azioni di protesta e di disobbedienza civile, ormai perseguite e penalizzate dagli Stati, anche sedicenti democratici, alla stregua delle azioni violente, quando non equiparate a veri e propri atti terroristici (come nel DDL 1660/24, di recente imposto dal Governo italiano); ma non si può educare nella paura e sotto minaccia, senza favorire la possibilità di una pratica della libertà. Così si alimentano soltanto, per un verso, la paura di agire e protestare da parte di chiunque, minando alla radice in primo luogo le residue possibilità di contestazione da parte delle giovani generazioni; e quindi, per altro verso, si provoca quel ribellismo momentaneo e aggressivo, disorganizzato e senza prospettive che sta attraversando ad ondate improvvise le nostre società, caratterizzato da episodi di guerra civile per bande, distruzioni vandaliche, esplosivi ed apparentemente insensati acting out (atti che, peraltro, alimentano di fatto ulteriori escalation repressive e richieste securitarie per chi ha il solo interesse a proteggere la propria comfort zone ed i propri privilegi, piccoli o grandi che essi siano);

  • le istituzioni che dovrebbero essere orientate all'educazione, alla conoscenza, alla formazione ed alla mediazione nonviolenta dei conflitti (i sistemi politici e dell'istruzione) hanno accentuato invece la loro corsa verso modelli e valori individualistici, ipercompetitivi, tecno-strumentali e funzionalistici, fungendo così da promotori di fatto di una cultura che ispira la violenza sociale, in barba a qualunque retorica della cooperazione e dell'inclusione. Ma una scuola-azienda non potrà mai essere una scuola di democrazia. (Gray, 2015; Euli, 2019; Dewey, 2023)

    Il soluzionismo tecnocratico che da questa cultura si genera vuole imporsi quale strada obbligata per la gestione delle emergenze permanenti nelle quali ci dibattiamo, ma non potrà mai andare oltre le soluzioni-tampone e -alla lunga- aggraverà ulteriormente la situazione.

  • il controllo sociale, attraverso le reti informatiche e la digitalizzazione forzata, permea le nostre vite quotidiane a tutti i livelli e rende pressoché impraticabile qualunque forma di mobilitazione che possa organizzarsi senza subire immediatamente un insieme di processi che ne limitino o inquinino l'azione pubblica e la sua portata trasformativa (manipolazioni mediatiche, infiltrazioni, dossieraggi, sino alla vera e propria repressione preventiva); l'informatizzazione, inizialmente idealizzata quale latrice di libertà ed autonomia, si è trasformata in strumento di controllo e di oppressione verso le opposizioni e verso la stessa libertà di informazione, sotto qualunque regime politico, in ogni parte del mondo; e l'ambito educativo, anziché opporsi alla digitalizzazione, vi si sta adeguando velocemente, assumendolo quale scorciatoia innovativa per attrarre le giovani generazioni (che di tutto avrebbero bisogno, vista la dipendenza di cui già soffrono, tranne che di un ulteriore apporto di questa natura) (Euli, 2020, 2021);

  • la virtualizzazione dei rapporti sociali, soprattutto dopo la pandemia, ha ingenerato infatti ancor più quel processo di isolamento-acquiescenza-passivizzazione-decorporizzazione che da tempo ha reso sempre più evidente il richiamo ad una obbedienza conformistica e sempre più rara l'emersione di movimenti socio-politici organizzati ed attivi, capaci di andare oltre la protesta 'da tastiera' o a nicchie identificative ristrette (quale appare il movimento lgbtq+, ad esempio); ma non può esistere educazione senza azione ed incorpazione dei valori e dei significati, senza che il conflitto si esplichi nella dimensione sociale (e non solo individuale o -ancor meno- intima e privata);

  • la fine delle democrazie politiche e la loro trasformazione, graduale ma inesorabile, in democrature che preservano -almeno al momento- i riti elettorali di regime, ma senza salvaguardare la sostanza di una reale partecipazione dei cittadini alle decisioni collettive;una politica occupata dai politici di professione, che agiscono peraltro su pressione di lobbies economico-finanziarie, non è compatibile con una crescita della coscienza e della passione politica; è questo che genera inevitabilmente un crescente disimpegno pubblico, intriso ormai di rassegnazione, diffidenza, senso di impotenza; da qui fenomeni quali l'astensionismo ed il ritiro sociale, la sclerosi dei movimenti, l'assenza di un vero dibattito politico sulle questioni fondamentali della nostra convivenza civile;

  • l'impossibilità di distinguere tra quel che viene definita guerra (cioè il terrore praticato dagli Stati) ed il terrorismo (cioè la guerra praticata da quel che Stato non è) semplifica e insieme complica la situazione per una chiara prospettiva nonviolenta: da un lato, ci impedisce a proseguire su distinzioni retoriche, di comodo e di parte; dall'altro però le possibilità di lavorare sul piano della mediazione e della sanzione si riducono enormemente (sempre che l'ONU potesse davvero svolgerla sin da principio) e gli Stati -praticando il terrore e accusando chiunque si opponga loro di terrorismo- perdono la loro potenziale apertura 'costituente' verso nuove leggi ed opzioni di scelta (obiettivi tipici di una prospettiva tradizionale della lotta nonviolenta,ma anche di una vera democrazia politica, anche intesa solo in senso meramente liberale).

    L'educazione alla nonviolenza è sempre anche educazione alla divergenza, alla legittimità dell'essere differenti e dell'agire contro e oltre lo status quo, se lo si consideri ingiusto e -seppur legalizzato- illegittimo. Una visione che oggi trova sempre meno spazio per realizzarsi e, addirittura, per poter essere liberamente espressa.



2. Possibilità/ Impossibilità ?

Se tutto questo appare verificato e incontrovertibile, resta da chiedersi quali prospettive restino o si aprano per la nonviolenza oggi e (se ce ne sarà uno) nel prossimo (o -più probabilmente- remoto) futuro.

La prima è quella di puntare ad un'implosione catastrofica del sistema di violenza dentro cui siamo immersi. Questa evenienza appare -infatti- sempre meno improbabile e sempre meno lontana nel tempo.(Euli, 2007) Essendo venute a cadere -come evidenziato nelle parti precedenti del testo- le possibilità di una riforma interna del sistema (le illusioni basate cioè su una sua crescente 'sostenibilità', politicamente pilotata dalle istituzioni statali) ed entrando definitivamente in crisi gli equilibri che erano andati a costituirsi nel post guerra fredda (vedi oggi il declino dell'impero americano, l'emergere di un un neofeudalesimo no-global, l'espansione dell'imperialismo economico asiatico, la costituzione di nuove alleanze militari contrapposte...), la nonviolenza dovrebbe finalmente assumere la catastrofe come necessità storica ed ecologica, abbandonando il 'principio-speranza' e facendo invece del 'principio-disperazione' la cornice dentro cui riprendere a lottare (proprio perché ed in quanto consapevoli che 'non abbiamo più niente da perdere').

Dobbiamo attraversare insieme la depressione, per depotenziare le derive schizo-paranoidi in atto ed imparare a deprimerci con coraggio. (Berardi (Bifo), 2024)


La seconda, al fine di accelerare ed assecondare la catastrofe in corso, è quella di ridurre progressivamente la nostra collaborazione collusiva col sistema circuitale della violenza.

Il capitalismo si è rivelato quale potenza pedagogica potentissima ed insuperabile su scala globale: ma quel a cui ci educa è disumano ed anti-ecologico: ci conduce all'estinzione e alla devastazione totale del pianeta in cui viviamo.

La soluzione non può essere l'adattamento unilaterale, tanto esaltato e propagandato oggi alla voce 'resilienza'.

La non-collaborazione attiva, palese o coperta, nei luoghi di lavoro e nella produzione, il boicottaggio dei consumi e delle merci, l'astensione collettivamente organizzata dai riti elettorali, le obiezioni e le renitenze politiche, la decrescita volontaria appaiono tutti elementi di una possibile strategia nonviolenta tendente ad un ''esodo volontario, pubblico e condiviso' che, in un recente passato, ho già definito come 'fare il morto' (che non è altro che l'atteggiamento esplicativo e proattivo (e quindi nonviolento) del 'deprimersi con coraggio' precedentemente espresso). (Euli, 2016)


La terza possibilità è l'assunzione di una prospettiva radicalmente autogestionaria ed an-archica, che accentui più radicalmente la posizione oltre-statalista della nonviolenza: gli Stati si stanno sempre più rivelando come strutture istituzionali anti-istituenti, ostili ai loro stessi cittadini e ancora una volta forieri di divisioni, se non di conflitti armati, tra i popoli: il fallimento dell'Unione Europea, rimasta ostaggio degli interessi nazionali e incapace di assumere un ruolo autonomo nelle guerre in corso, è senz'altro rivelatore.

Le democrazie che non sono disposte a democratizzarsi, muoiono. E, infatti, quelle in cui viviamo sono come dei bozzoli che trattengono esseri già abortiti da tempo.

In un contesto post-democratico quale è già quello attuale, risulterebbe quindi anacronistico proseguire con una -ormai infondata- fiducia nelle istituzioni esistenti, sia in quelle politiche che in quelle giuridiche: non dobbiamo più badare alle eccezioni positive (che esisteranno sempre in qualunque sistema, anche il più malato ed inguaribile (il buon prete, il buon professore, il buon amministratore, il buon parlamentare, il buon imprenditore, etc...).

Perché, al di là di singoli casi, dobbiamo finalmente convincerci che non esiste più la possibilità di aprire nuove fasi 'costituenti' all'interno di un sistema che, invece, tende e tenderà irreversibilmente a chiudersi sempre più dentro il suo guscio, impermeabile ad ogni critica e favorevole soltanto a cambiamenti e riforme che siano funzionali al mantenere/rafforzare le forme violente del suo dominio.

Non possiamo e non dobbiamo più aspettarci nulla da esso, e non dobbiamo più quindi chiedergli nulla. Non dobbiamo più chiedergli di prendersi cura di noi. Dobbiamo imparare ad uscire dalla cornice dei 'diritti' e iniziare a praticare la nostra vita 'al rovescio'.


L'ultima è quella di iniziare comunque a praticare la nonviolenza laddove si può o riusciamo a costruirla con chi ci già se la sente di provare a farlo.

Oltrepassare l'antropocentrismo e aprirsi a nuove relazioni con la rete dei viventi a cui tutti noi umani apparteniamo da sempre e per sempre, anche se viviamo come se così non fosse. (Marchesini, 2016; De Waal, 2020)

Assumere quindi una prospettiva di vita evoluzionaria: proseguire a praticare un'educazione aperta e all'aperto, non richiusa in se stessa e non al chiuso di mura, che siano reali, mentali o immaginarie. Nelle relazioni interpersonali, nel lavoro formativo ed educativo, nei luoghi di lavoro, nei movimenti possiamo iniziare a mettere in discussione le 'microfisiche del potere' che ci attorniano, ma che non sono inscalfibili: vedersi come persone e non come ruoli, depotenziare le gerarchie staticamente definite, cercare il senso delle regole e rifiutare una cieca obbedienza ad essa, non accettare di essere colpevolizzati per responsabilità che dovrebbero ricadere sul sistema, limitare l'uso della tecnologia digitale e incontrarsi in presenza, ridarsi tempo, sperimentare nuovi giochi relazionali e sociali.

La prospettiva ludica può infatti venirci a soccorrere in un frangente storico tanto tragico e apparentemente senza uscita: per provare ad imparare ad abitare le distanze ed i conflitti, a convivere con gli irresolubili dilemmi della co-esistenza, ad orientarci verso modalità nonviolente del pensiero e dell'azione, personale e collettiva.(Euli, 2004)

Se la nonviolenza infatti non si diffonderà quale modalità di lotta resteranno solo due possibilità, entrambe funzionali al mantenimento del dominio: la passività generalizzata o la controviolenza della vittima, vera o presunta. Non è un caso che inizino a diffondersi entrambe come non mai.

Le origini e gli sviluppi della guerra in Ucraina e in Medio Oriente lo evidenziano con estrema, tragica chiarezza.

Proseguire a testimoniare l'Aperto diviene -ancor più oggi quindi- un dovere morale fondamentale, indipendentemente dal successo che avranno al momento le nostre scelte. (Capitini, 1967; Melucci, 1994; Ingold, 2016; Guerra 2020).

La rivoluzione è la meta che si prefiggono coloro che credono solo nelle cose di questo mondo e pertanto si occupano delle circostanze e dei tempi della loro possibile realizzazione nel tempo storico secondo i rapporti di causa ed effetto. La rivolta implica invece una sospensione del tempo storico, l’impegno intransigente in un’azione di cui non si sanno né si possono prevedere le conseguenze, ma che, per questo, non scende a patti e compromessi col nemico. Mentre coloro che non vedono al di là di questo mondo badano soltanto ai rapporti di forza in cui si trovano e sono pronti a mettere da parte senza scrupoli le loro convinzioni, gli uomini della rivolta sono gli uomini del ci-non-è, che hanno sospeso una volta per tutte il tempo storico e possono per questo agire in esso incondizionatamente. Proprio perché le cose che ci-non-sono non rappresentano per essi un futuro da realizzare, ma un’esigenza presente di cui sono obbligati in ogni istante a testimoniare, tanto più inesorabilmente la loro azione agirà sull’accadere storico, spezzandolo e annichilendolo.
A coloro che cercano oggi con tutti i mezzi di vincolarci a una pretesa realtà fattuale che non consente alternative, occorre opporre innanzitutto il pensiero, cioè la visione limpida e perentoria delle cose che ci-non-sono. Solo a chi senza farsi illusioni sa che il suo regno non è di questo mondo, ma nondimeno è qui e ora a suo modo irrevocabilmente presente, è data la speranza, che non è altro che la capacità di smentire ogni volta la menzogna brutale dei fatti che gli uomini costruiscono per rendere schiavi i loro simili
. (Agamben, 2024)



Biblio-sitografia


  1. G. Agamben, Sulle cose che ci-non-sono, in Una voce (blog), https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-sulle-cose-che-ci-non-sono, 3 giugno 2024

  2. F. Berardi (Bifo), Come terminare, https://francoberardi.substack.com/p/come-terminare, 3 agosto 2024

  3. A. Capitini (1967), Educazione aperta, La Nuova Italia

    F. De Waal (2020), L'ultimo abbraccio. Cosa dicono di noi le emozioni degli animali, Cortina

  4. J. Dewey (2023), Arte, educazione, creatività, Feltrinelli

  5. E. Euli (2004), I dilemmi (diletti) del gioco, la meridiana

  6. E. Euli (2007), Casca il mondo! Giocare con la catastrofe, la meridiana

  7. E. Euli (2016), Fare il morto. Vecchi e nuovi giochi di renitenza, Sensibili alle foglie

    E.Euli (2019), Prolegomeni ad ogni futura pedagogia che voglia presentarsi come scienza (e come professione), in S. Deiana (a cura di), Pedagogiste e pedagogisti tra formazione e lavoro, Pensa

  8. E. Euli (2020), DEAD: Didattica Estinta A Distanza ?, in Studium educationis, vol.21 (3)

    E. Euli (2021), Homo homini ludus. Fondamenti di illudetica, Sensibili alle foglie

  9. J. Galtung (2000), Pace con mezzi pacifici, Esperia

  10. P. Gray (2015), Lasciateli giocare, Einaudi

  11. M. Guerra (2020), Nel mondo. Pagine per un'educazione aperta e all'aperto, Franco Angeli

  12. T. Ingold (2016), Ecologia della cultura, Meltemi

  13. R. Marchesini (2016), Il bambino e l'animale. Fondamenti per una pedagogia zooantropologica, Anicia

  14. A. Melucci (1994), Passaggio d'epoca, Feltrinelli


giovedì 13 giugno 2024

a chi vuole sperare ancora

 

C'è infinita speranza, ma nessuna per noi (Lettera di Franz Kafka a Max Brod)

Gli amici di Comune.info mi chiedono di aderire alla loro nuova campagna Partire dalla speranza e non dalla paura.

Ho risposto che -da buon catastrofista militante- non posso aderire

Ricordo ancora una volta che la Speranza (che è sempre l'ultima a morire) usciva per ultima dal vaso dei mali. Era un antidoto ad essi, ma perché stava nel vaso con loro?

É il tempo di chiederselo e di risponderci.

Penso che il principio-speranza non possa più esserci d'aiuto, anzi sia un ostacolo -da tempo- per qualsiasi ipotesi di cambiamento. Un male, insomma.

Nuove possibilità potranno emergere infatti-lo sostengo ormai da quasi due decenni- soltanto dall'assunzione della catastrofe come dato di fatto irreversibile ed irrimediabile.

Proseguire a rimuoverla o a rinviarla, fingendo di poter sperare ancora in soluzioni politiche o tecnologiche, è il nostro (vostro) problema.

E' proprio il fatto di non aver assunto la catastrofe da una prospettiva rivoluzionaria che ha generato quel che vediamo oggi: una sua assunzione e gestione a partire da una prospettiva reazionaria.

Proseguire a sperare (nella democrazia, nei partiti, nelle elezioni, in Ilaria Salis o in Michele Santoro, nei movimenti, nelle presunte alternative, negli auspici di progresso...) non ha più senso e ci allontana inevitabilmente da una prospettiva che -come già accade in Occidente- non ci lasci in mano al neofashismo capitalista imperante (ben più pericoloso, attivo e attuale del neofascismo contro cui qualcuno continua ad accanirsi retoricamente e invano...).

Inutile auspicare o sperare altro: il neofashismo non può -né tanto meno potrà- gestire la catastrofe se non in modo ulteriormente catastrofizzante: la sua gestione catastrofica della catastrofe non conosce alternative alle sue eterne e false soluzioni: la crescita, lo sviluppo, il consumo e, se questi non funzionano, la violenza diretta e la guerra.

Ci siamo già, in quasi tutto il mondo, e inizia a toccare anche a noi qui (da qui, la paura).


Nient'altro che la disperazione può salvarci (Theodor W. Adorno)

Se un movimento dovesse nascere ora dovrebbe essere quindi un movimento per la disperazione, come già qualcuno (Tommaso Pellizzari) ha provato saggiamente (e inascoltatamente) a scrivere qualche anno fa.

Quel che possiamo oggi è infatti deprimerci con coraggio, avere il coraggio di ammettere il fallimento e di deprimerci attivamente (fare il morto).

O disperare gioiosamente, insieme, illudeticamente.

Devo constatare invece che si preferisce -anche tra gli amici come voi- continuare a sperare.

Il che assume per me le caratteristiche di un mantra neo-religioso: potrebbe valere per Papa Francesco e una sua omelia e risultare comprensibile solo per chi crede ancora in un Dio (che è morto). Peraltro, anche in quell'ambito, mi pare che le teologie negative o apocalittiche non manchino. Non potremo risorgere mai, se non siamo disposti a morire.

Ma non sono qui per parlare di teologia ecclesiale.

Vorrei dire solo che -se si voleva stare nella dimensione della speranza, della solidarietà filantropica o della fede in altri mondi possibili- avremmo fatto meglio a restare cattolici.

Oppure perché -a quel punto- non aderire agli squallidi e speranzosi green-washing della pubblicità?

Ora tocca a noi. La speranza si diffonde nei mari e negli oceani del nostro pianeta...L'esploratrice e biologa Sylvia Earle, con la sua inestimabile esperienza, contribuisce al raggiungimento di questo obiettivo attraverso la sua organizzazione Mission Blue, con la quale ha creato oltre 130 Hope Spot, ed è solo l'inizio. Quest'iniziativa trasmette un messaggio di speranza alle generazioni future ed è un esempio dell'impegno necessario per garantire al pianeta un avvenire perpetuo. Ora e sempre. Rolex sostiene Mission Blue nel suo impegno a proteggere il 30% degli oceani entro il 2030. #Perpetual Planet Initiative/Oyster Perpetual Sea-Dweller


Lasciamo perdere, almeno noi, per favore, grazie.

Basta con i miraggi. Basta con le false luci che ormai sono solo lumini dei nostri immensi cimiteri.

É giunto il momento di andare oltre la paura della fine, di entrare nell'oscurità, interpretarne i segni,  imparare ad amarla.

Abbiamo tutti paura del buio. Costruisci dieci lampioni e avrai fatto un villaggio. Siamo come falene. Quando il buio incombe ci precipitiamo verso la luce. Così la maggior parte di noi si accontenta delle lampadine. Dimentichiamo l'oscurità. Per questo non conosciamo il desiderio. (grazie a Chiara P.)






mercoledì 22 maggio 2024

superflua -necessaria?- spiegazione

Essere stoici nell'era del vittimismo significa passare per scostanti; peggio, per insensibili.

E' strano...come tanti confondano il senso di colpa con l'assoluzione. Delle varie fasi di passaggio fra uno stadio e l'altro sono molto meno consapevoli.

Di recente ho sentito una donna definire se stessa straordinariamente sincera. Patetica stupidaggine. Non esistono livelli di sincerità. Esistono livelli di menzogna, ma quella è un'altra faccenda.

La pietà come modo dell'aggressività. Aveva ragione Zweig, meglio stare alla larga.

La studentessa che mi ha detto, serissima, che non le piaceva Madame Bovary "perchè Emma non era una buona madre". Che il cielo ci assista.

-Ma penso che tu li disprezzi, i politici. -Si può sapere che cosa te lo fa pensare? -Il fatto che sono gente corrotta e opportunista, presuntuosa e incompetente.  -Non sono d'accordo. Credo che perlopiù siano persone in buona fede, o convinte di esserlo. Il che rende la loro una tragedia morale da compatire ancora di più.

J.Barnes, Elizabeth Finch, 2022

 

Alcuni umani (pochi)  mi chiedono perchè non sto più scrivendo.

E' facile rispondere:per stanchezza, e per noia.

Quel che prosegue irrimediabilmente ad accadere -non trovate anche voi ?- appare irrimediabilmente deprimente, soporifero.

Dovrei fingere di scandalizzarmi per i continui, ennesimi episodi di corruzione a tutti i livelli?

Per farlo, dovrei considerarli episodi e non -come credo da sempre e sempre di più - una componente strutturale di qualunque istituzione, pubblica o privata, magistratura inclusa.

Dovrei parlare di elezioni europee o comunali, esaltarmi per Conte o Schlein, rammaricarmi di essere in mano a Meloni o Salvini? Invitare a votare o non votare?

Per farlo, dovrei vivere ancora negli anni 70, sperare in Berlinguer, leggere Il Manifesto e odiare Andreotti. E dovrei ancora sperare che gli esseri umani fossero capaci di trarre le dovute conseguenze dalle loro esperienze politiche trascorse. Non è più così per me.

Dovrei esaltarmi per le accuse della Corte dell'Aja a Netanyhau ed Hamas, e per la richiesta del loro arresto per crimini di guerra?

Per farlo, non dovrei sapere che la guerra stessa è un crimine in quanto tale; e dovrei credere che questa condanna possa fermarli nella loro ansia paranoica di distruzione o, perlomeno, possa davvero farli arrestare uno ad uno. Se la stanno ridendo, invece, e lo sappiamo tutti.

Dovrei rifare di continuo i conti dei morti palestinesi, enumerare i nomi, le qualità e quantità dei missili e dei droni utilizzati di mese in mese e di anno in anno?

Per farlo, dovrebbe piacermi -come pare accada a migliaia di giornalisti e concittadini necrofili- la guerra stessa, ormai intesa soltanto come ultimo infinito spettacolo del nostro tempo (oltre a Sanremo e alla serie A, ovviamente).

Dovrei recriminare per la morte in elicottero di un criminale iraniano, quasi certamente -come altri- fatto fuori impunemente dal Mossad? O dovrei dire che ne sono soddisfatto?

Per arrivare a questo, dovrei lasciar troppo da parte la mia residua parte di umanità.

Dovrei commentare le nuove alluvioni, inondazioni, cataclismi ricorrenti?

Per farlo, dovrei dimenticare la catastrofe globale e irreversibile in corso da tempo e la nostra totale incapacità di smettere di causarla.

Ecco perchè non vale la pena neppure di continuare a parlarne o a scriverne.   

Il paradosso è qui: che debba scrivere per dirvelo.

Ma (e immagino che anche voi lo sappiate, e ve lo diciate, pur se proseguite a far finta di niente): non ci sono più parole possibili, anche le parole finiscono, mentre si precipita.

 



giovedì 25 aprile 2024

alla vera festa della liberazione

Il foruncolo era giunto a maturazione sotto l'effetto del caldo umido del pomeriggio, il pus verdasro premeva sotto la pelle, sottile come un foglio di carta. Accanto alla gamba destra scorsi un pezzo di ferro arrugginito, lo raccolsi con la mano destra e mi servii del bordo affilato per aprire delicatamente la punta dell'ascesso. Sentii un leggero fruscio, come quando si taglia un pezzo di seta. In bocca mi aumentò la salivazione...mi doleva, ma strinsi i denti e continuai a tagliare. Sul bordo della lama si attaccò un pezzo di carne putrida verdastra. L'avevo aperta, ne uscì sangue misto a pus. 

Perchè fare gli schizzinosi! Questa era la vita! E la trovavo molto bella! Era come un viso, che diventa più bello quando è stato pulito dal trucco. In effetti, solo una volta diventato grande che la gente ama i propri foruncoli come ama le proprie pupille. Ma da quel giorno, una vaga sensazione mi disse che la cosa più tragica e terribile di questo mondo è la buona coscienza. Questa cosa a forma di patata dolce, puzzolente come il pesce marcio e color miele è la calamità che mina l'ordine del mondo. Molto tempo dopo, mentre passavo per un ricco centro commerciale, vidi la gente che inchiodava la buona coscienza su una graticola e la arrostiva su un bel fuoco a carbone. Il profumo era inebriante, e allora capii perchè quel mercato era così prospero.

(Mo Yan, La colpa, 1986)

mercoledì 24 aprile 2024

tradito-annoiato

 Mi sento tradito-annoiato:

- dalle guerre e dai genocidi in corso, dalle fosse comuni a Khan Yunis e dal fatto che nessun governo occidentale andrà a fare discorsetti e celebrazioni. Gaza (Palestina) non vale Bucka (Ucraina);

-dalle astensioni italiane sul Patto di stabilità, dopo averlo approvato come Governo e, di fatto, anche come opposizione: il solito trucco delle tre carte pur di farsi votare (non sarebbe l'ennesimo, buon motivo per non votarli mai più, invece?);

-dalle spese e dalle esercitazioni militari in corso ed in aumento vertiginoso (270 miliardi di dollari solo nel 2023);

-dalle censure su Scurati, dall'occupazione partitica permanente del servizio pubblico Rai; ma anche dalle reazioni automatiche di chi contesta la censura e continua a chiedere ai fascisti di dirsi 'antifascisti' (ma a cosa cazzo servirebbe 'dirlo', se lo sono mai chiesti?);

-da chi mi chiama a fare formazione e spera di rendermi parte dei loro silenzi e collusioni;

-da chi si dice interessato a comprarmi una porta-finestra usata (a decine) e poi non mi chiama (a decine);

-da chi mi dice che leggerà il mio libro e mi farà sapere e poi non lo legge mai e non mi fa più sapere nulla (quasi tutti i miei colleghi, cioè, a cui l'ho regalato);

-da quasi tutti quelli che conosco -in varie circostanze- e, molto spesso, anche da me.



martedì 16 aprile 2024

stati uniti del baratro

 

Più avanti negli anni, quando Gregory si interrogava sulla natura della premeditazione, parlava spesso della chiarezza apportata da uno stato di guerra come di un grande sollievo, della tentazione che qualsiasi società ha di risolvere le sue ambiguità e decisioni difficili puntando sulla guerra.

(M.C. Bateson, Con occhi di figlia. Ritratto di Margaret Mead e Gregory Bateson)


Guerra vuol dire difendere noi dagli altri. Pace significa difendere gli altri da noi.

(R.Benson, Il libro della pace)


Differire la restituzione del dono o della vendetta può essere un modo di mantenere il partner-avversario nell'incertezza delle proprie intenzioni...; ciò significa mettere alla prova la sua pazienza tramite una minaccia sempre sospesa e mantenere il vantaggio dell'iniziativa... É noto tutto il vantaggio che il detentore di un potere trasmissibile può trarre dall'arte di differirne la trasmissione e di mantenere l'indeterminazione e l'incertezza sulle sue intenzioni ultime.

(P. Bourdieu, Per una teoria della pratica)


Perchè il segretario dell'ONU continua a piagnucolare ricordandoci che ci muoviamo ormai sull'orlo del baratro? Non sarebbe più onesto se ammettesse, se riconoscessimo, che siamo già da tempo ben oltre l'orlo e che stiamo precipitando in un baratro di cui non possiamo vedere la fine?

Perchè i governanti di tutto il mondo continuano a implorare pause e ravvedimenti al fine di scongiurare ed evitare l'escalation? Non sarebbe più onesto se ammettessero, se riconoscessimo, che siamo già da tempo dentro un'escalation che già ora avanza rapidamente e si rivelerà ancora una volta irreversibile?

'Non abbiamo altra scelta. Dobbiamo rispondere!'

Il gabinetto di guerra israeliano dice così il falso e il vero.

Il falso, perché molte sarebbero state e sarebbero le alternative possibili, sempre.

Il vero, perché questa -e solo questa- è la logica razionale di qualunque escalation in atto.

Quando la si intraprende, non se ne può uscire.

In un escalation non ci si può accontentare del pareggio.

Il gioco è a somma zero: si vuole assolutamente e totalmente vincere, trionfare, abbattere l'avversario, perchè la tua vita è la sua morte.


Soprattutto se, come in Ucraina e in Palestina, hai qualcun altro che ti arma e ti difende dietro le spalle (questo è il significato di 'spalleggiare', giusto?).

Si finge che l'espansione delle guerre in corso dipenda da contendenti autodeterminati (Zelenski o Netanyahu).

Non è così. Se gli Stati Uniti e l'Europa (ed ora anche i governi sunniti, sauditi e giordani) non li foraggiassero e non volessero fare guerra ai loro attuali nemici (Russia e Iran), queste guerre non sarebbero durate e non si sarebbero allargate a macchia d'olio come invece sta accadendo.

Se gli Stati Uniti e l'Europa non avessero le loro esigenze di controllo su quei territori, su quei politici, su quelle risorse energetiche ed economiche, queste guerre non sarebbero neppure iniziate.

Sono i nostri interessi coloniali a determinarle in questa forma (così come già accaduto in Libia, in Iraq e in Afghanistan).

Senza di noi, -sempre che fossero sorte- sarebbero rimaste delle guerre locali e avremmo dovuto-potuto facilitare degli armistizi, imporre delle negoziazioni, proporre dei mediatori.

Non è stato e non sarà così: da tempo abbiamo scelto un'altra strada.

Essa porta -di necessità- dentro il baratro e dentro l'escalation.

Non era un destino. Lo è diventato.




venerdì 12 aprile 2024

bonus malus

 

La genialata dei bonus a raffica e dei superbonus a pioggia si rivela per quel che è: un rimedio che è peggio del male, l'ennesima (parziale e temporanea) soluzione che si rivela un (grande e prolungato) problema. Il sistema economico va a picco e i governi provano a salvare la faccia dopo aver salvato le facciate. Ma non riescono a convincere nessuno che minimamente osservi e ragioni.

Peraltro, attaccarsi ai bonus per giustificare le ristrettezze e la decrescita forzata in atto, non convince ugualmente.

Si cerca solo di galleggiare sino al dopo-elezioni: in autunno ci sarà sempre tempo per piombare nel disastro totale, irreparabile e irreversibile, a cui ci sta conducendo l'economia di guerra.

Questa, si sa, favorisce solo la guerra stessa (chi la fa, chi la prepara, chi la conduce) e sfavorisce tutto il resto.

E' incompatibile con il soddisfacimento dei bisogni primari di gran parte della popolazione (mangiare, istruirsi, curarsi, proteggersi dal freddo, avere un tetto...).

Ancor prima di avvolgerci direttamente nelle sue spire, ci impoverisce e ci angoscia, anche se apparentemente tocca altri (con le nostre armi) e appare ancora un vantaggio (per le nostre armi).


Il quadro geopolitico, nel frattempo, si aggrava e diveniamo sempre più consapevoli che basterebbe un nonnulla per farci precipitare nell'abisso.

Da vari lati si fingono dialoghi, negoziati, trattative, accordi: ma in Qatar si attende un accordo di tregua da mesi senza alcun risultato e nel frattempo gli ostaggi saranno già tutti morti e tutta la Striscia ( Rafah compresa) sarà invasa e distrutta; a Lucerna si inaugura una conferenza di pace sull'Ucraina, ma senza invitare i russi; i paesi arabi cercano di convincere l'Iran a non attaccare Israele, ma intanto finanziano attentati e confidano in azioni paramilitari coperte, tali da punire gli ebrei senza pagare (e farci pagare) i costi di una ritorsione globale su più vasta scala.

Ma l'Iran non è Hamas: attaccarlo -come già si sta facendo- è un azzardo senza senso e dagli effetti imprevedibili.

Ancora una volta, anziché alle nostre facoltà di mediazione, ci affidiamo alla ragionevolezza del potenziale nemico: sembra meno oneroso, ma ad un certo punto si potrebbe rivelare fatale.


In tutto questo, l'Unione europea va verso le elezioni.

Un'Europa totalmente in mano agli apparati di partito, a loro volta totalmente in mano alle lobbies.

Se avete visto 'Food for profit', dedicato ai potentati che controllano le politiche agricole, alimentari e d'allevamento del nostro continente, sapete di cosa parlo.

Quel documentario ci svela ancora una volta che le possibilità di un potere democratico non sussistono più, neppure in un sistema di recente formazione come la UE.

Il livello di corruzione, di collusione è tale da non permetterci più di considerarlo un elemento di degrado parziale (le cosiddette 'mele marce'), ma siamo costretti ad evidenziarne il carattere strutturale e irreformabile.

Gli appelli finali del film stesso appaiono, quindi, obsoleti e non conseguenti rispetto a quel che il film stesso rivela, come troppo spesso capita anche a chi ancora ritiene di fare una politica di opposizione e di proporre altri mondi possibili.

La solfa finale appare purtroppo sempre la stessa: votare gli onesti, i bravi e buoni, quelli che non si faranno corrompere, che hanno dei buoni programmi elettorali, che sono dei 'sinceri democratici'.

Non si vuole capire: si prosegue a 'sperare' e a 'collaborare', a negare l'evidenza della catastrofe sistemica in cui le le nostre vite ( e soprattutto le nostre senili istituzioni) sono ormai avviluppate irrimediabilmente.

Da qui si dovrebbe ripartire. Daccapo.