Visto che ancora non siamo noi sotto le bombe o in attesa di uno sterminio, quel che più mi colpisce -e mi fa cogliere tutta l'ineluttabile tragicità della situazione- sono le nostre descrizioni, spiegazioni, reazioni.
Servizi televisivi che mostrano madri israeliane in lacrime per le loro figlie in ostaggio: pochi casi singoli trovano lo stesso spazio di migliaia di morti palestinesi senza nome né volto.
Giornalisti quotati esibiscono attentati di lupi solitari che uccidono due svedesi dedicando loro lo stesso spazio proposto al bombardamento di un ospedale intero con centinaia di vittime (malati, dottori, rifugiati...).
Articoli ben documentati ci illustrano il legame tra chi sbarca a Lampedusa e chi ricomincia a fare attentati in Europa, rafforzando l'equazione 'immigrato uguale terrorista'.
Come si costruisce un immaginario razzista.
Come si pratica una vera e propria pseudospeciazione, come se l'altro appartenesse proprio ormai non solo ad un'altra razza, ad un'altra religione, ad un altro continente, ma proprio ad un'altra specie.
Come se non meritasse lutto, direbbe la Butler.
L'ineluttabilità della nostra umana catastrofe sta proprio in questa ineluttabile modo di percepire, sentire, pensare, commentare e giustapporre gli eventi, senza più vederli, ma mistificandoli continuamente solo per proseguire ad avere ragione e a giustificarci da soli.
Perché soltanto noi stessi possiamo (dobbiamo) farlo per noi stessi.
Tutti gli altri non possono fare altro che risentirsi, irritarsi, esasperarsi, e odiarci.
Una trasmissione impegnata del lunedì ha dedicato un'ora a descriverci l'attività di un'associazione ucraina che riporta i bambini in patria, dopo che questi erano stati catturati e affidati ad altre famiglie in Russia.
I russi, come se non si fosse in guerra, hanno accettato di rimandarli in Ucraina, accogliendo le richieste legali dell'associazione. Ma per la trasmissione i russi restavano solo dei mostri rapitori.
Ieri si sono viste in tv le scene di una ragazza israeliana, ostaggio di Hamas, che veniva curata al braccio da sanitari palestinesi e mostrata ai familiari per far loro sapere che era viva, seppur ferita.
Seguivano immagini della madre implorante, senza alcun commento positivo su quel che la scena descriveva. Il nemico restava solo un mostro rapitore.
Ora, so molto bene che in guerra tutto si fa anche per propaganda e che esiste per entrambe le parti la possibilità di catturare e prendersi cura dei nemici a tal fine.
Ma non valorizzare i gesti umani (o anche solo legalitari) dell'altro significa soltanto voler tagliare ogni possibilità di mediazione, far saltare ogni ponte tra un essere umano e un altro.
Così si costruisce un immaginario di guerra.
Così il circuito della violenza si fa ideologia e la guerra diviene unica voce, unica lingua per tutti.
Anche laddove continuino ad esserci pensieri, sentire, voci e lingue diverse: tutto viene tacitato, sommerso, coperto dall'abbacinante frastuono, dagli omertosi silenzi e dalle false parole della guerra.
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