Introduzione
Le tre dimensioni della violenza (culturale, strutturale, diretta), così come sono state definite dalle teorie della nonviolenza (Galtung, 2000), vivono attualmente un'espansione esponenziale ed apparentemente inarrestabile.
La violenza culturale emerge con evidenza sia nelle relazioni col pianeta ed il vivente (la transizione ecologica risulta ancora sottomessa alle logiche della crescita e del mercato: il greenwashing è pervicacemente in corso e la catastrofe climatica inizia a presentare il conto anche in Occidente), sia nei contesti inter-umani (discriminazioni e razzismi, sino a vere e proprie pseudospeciazioni, che ancora ci si illude di poter contrastare con tiepide e cortesi opposizioni 'liberal'-woke').
La violenza strutturale si esprime tragicamente con l'aumento della diseguaglianza economica e sociale, della polarizzazione tra èlite privilegiate e masse impoverite, precarizzate, se non diseredate e abbandonate; il che non può che generare desolazione, rabbia, risentimento, sia all'interno delle società occidentali (per quanto ancora sedate dal consumismo e dai media ?), sia tra queste e altre aree del mondo che -a ragione- si sentono escluse da uno 'sviluppo' tanto promesso e decantato, ma mai raggiunto, se non per pochi e sempre solo all'interno di cornici neo-coloniali).
In un contesto di violenza così estremo non può stupire che il circuito si rafforzi anche mediante una crescita di azioni apertamente aggressive e direttamente espresse: sia nelle relazioni microsociali (ad es. nelle relazioni familiari e di coppia), sia in quelle meso (scontri tra gruppi e tra questi ed enti-isitituzioni (ad es, nell'ambito delle cure sanitarie o del sistema penale), sia nella dimensione macro (proliferazioni di guerre e riarmo tra gli stati, genocidi e progroms, escalation di conflitti armati e prodromi di guerra civile all'interno degli stati).
La guerra ritorna ad essere la condizione di sopravvivenza degli Stati nazionali, che non smettono di emettere funebri richiami all'unità di patria contro il nemico, per preservare così il controllo politico interno, quanto più la situazione ordinaria di 'pace' si profili sempre più ingovernabile e caduca.
In una situazione già così degenerata, esasperata ed estrema, paiono venire a mancare le condizioni minime di senso per un impegno -educativo, culturale e politico- collettivamente e socialmente orientato alla pace.
Le persone si sentono sole, confuse ed impotenti; in particolare, le giovani generazioni si dibattono tra il vuoto del presente e le angosce di un futuro senza prospettive, quando non minaccioso.
L'esistenza di tutti procede all'interno di un sistema di vita che vuole proseguire a distrarci con luci e paillettes, ma di fatto è impegnato quotidianamente a spegnere i sogni, a mortificare le esperienze di vita, ad alienare ragazzi e giovani nella scuola e gli adulti nel lavoro.
I movimenti sociali stentano a nascere e a manifestarsi, e -soprattutto- a durare e a coordinarsi.
Ognuno sta solo sul cuor della terra; e la 'società' ha come perso colore, pare essersi (e)stinta.
Anche la nonviolenza, intesa come teoria-prassi dell'azione educativa, sociale e politica alternativa alla violenza, inevitabilmente arranca e sembra non poter più rispondere alle istanze politiche ed ai conflitti violenti (culturali, strutturali e diretti) del secolo XXI.
1. Analisi/Sintesi
I motivi sono vari:
la neutralizzazione crescente imposta sulla nonviolenza da parte di un pacifismo generico ed imbelle, unicamente votato a cercare di evitare la guerra per noi stessi, ma senza rimettere in discussione i nostri interessi economici (ad es. dell'industria d'armi) ed i nostri stili di vita e di consumo e quindi favorendo i teatri di guerra in un altrove, che però man mano si avvicina sempre più ai nostri confini e alle nostre vite; è inutile ed ipocrita educare alla pace se nella nostra vita concreta continuiamo a preparare alacremente la guerra;
la crescente criminalizzazione delle azioni di protesta e di disobbedienza civile, ormai perseguite e penalizzate dagli Stati, anche sedicenti democratici, alla stregua delle azioni violente, quando non equiparate a veri e propri atti terroristici (come nel DDL 1660/24, di recente imposto dal Governo italiano); ma non si può educare nella paura e sotto minaccia, senza favorire la possibilità di una pratica della libertà. Così si alimentano soltanto, per un verso, la paura di agire e protestare da parte di chiunque, minando alla radice in primo luogo le residue possibilità di contestazione da parte delle giovani generazioni; e quindi, per altro verso, si provoca quel ribellismo momentaneo e aggressivo, disorganizzato e senza prospettive che sta attraversando ad ondate improvvise le nostre società, caratterizzato da episodi di guerra civile per bande, distruzioni vandaliche, esplosivi ed apparentemente insensati acting out (atti che, peraltro, alimentano di fatto ulteriori escalation repressive e richieste securitarie per chi ha il solo interesse a proteggere la propria comfort zone ed i propri privilegi, piccoli o grandi che essi siano);
le istituzioni che dovrebbero essere orientate all'educazione, alla conoscenza, alla formazione ed alla mediazione nonviolenta dei conflitti (i sistemi politici e dell'istruzione) hanno accentuato invece la loro corsa verso modelli e valori individualistici, ipercompetitivi, tecno-strumentali e funzionalistici, fungendo così da promotori di fatto di una cultura che ispira la violenza sociale, in barba a qualunque retorica della cooperazione e dell'inclusione. Ma una scuola-azienda non potrà mai essere una scuola di democrazia. (Gray, 2015; Euli, 2019; Dewey, 2023)
Il soluzionismo tecnocratico che da questa cultura si genera vuole imporsi quale strada obbligata per la gestione delle emergenze permanenti nelle quali ci dibattiamo, ma non potrà mai andare oltre le soluzioni-tampone e -alla lunga- aggraverà ulteriormente la situazione.
il controllo sociale, attraverso le reti informatiche e la digitalizzazione forzata, permea le nostre vite quotidiane a tutti i livelli e rende pressoché impraticabile qualunque forma di mobilitazione che possa organizzarsi senza subire immediatamente un insieme di processi che ne limitino o inquinino l'azione pubblica e la sua portata trasformativa (manipolazioni mediatiche, infiltrazioni, dossieraggi, sino alla vera e propria repressione preventiva); l'informatizzazione, inizialmente idealizzata quale latrice di libertà ed autonomia, si è trasformata in strumento di controllo e di oppressione verso le opposizioni e verso la stessa libertà di informazione, sotto qualunque regime politico, in ogni parte del mondo; e l'ambito educativo, anziché opporsi alla digitalizzazione, vi si sta adeguando velocemente, assumendolo quale scorciatoia innovativa per attrarre le giovani generazioni (che di tutto avrebbero bisogno, vista la dipendenza di cui già soffrono, tranne che di un ulteriore apporto di questa natura) (Euli, 2020, 2021);
la virtualizzazione dei rapporti sociali, soprattutto dopo la pandemia, ha ingenerato infatti ancor più quel processo di isolamento-acquiescenza-passivizzazione-decorporizzazione che da tempo ha reso sempre più evidente il richiamo ad una obbedienza conformistica e sempre più rara l'emersione di movimenti socio-politici organizzati ed attivi, capaci di andare oltre la protesta 'da tastiera' o a nicchie identificative ristrette (quale appare il movimento lgbtq+, ad esempio); ma non può esistere educazione senza azione ed incorpazione dei valori e dei significati, senza che il conflitto si esplichi nella dimensione sociale (e non solo individuale o -ancor meno- intima e privata);
la fine delle democrazie politiche e la loro trasformazione, graduale ma inesorabile, in democrature che preservano -almeno al momento- i riti elettorali di regime, ma senza salvaguardare la sostanza di una reale partecipazione dei cittadini alle decisioni collettive;una politica occupata dai politici di professione, che agiscono peraltro su pressione di lobbies economico-finanziarie, non è compatibile con una crescita della coscienza e della passione politica; è questo che genera inevitabilmente un crescente disimpegno pubblico, intriso ormai di rassegnazione, diffidenza, senso di impotenza; da qui fenomeni quali l'astensionismo ed il ritiro sociale, la sclerosi dei movimenti, l'assenza di un vero dibattito politico sulle questioni fondamentali della nostra convivenza civile;
l'impossibilità di distinguere tra quel che viene definita guerra (cioè il terrore praticato dagli Stati) ed il terrorismo (cioè la guerra praticata da quel che Stato non è) semplifica e insieme complica la situazione per una chiara prospettiva nonviolenta: da un lato, ci impedisce a proseguire su distinzioni retoriche, di comodo e di parte; dall'altro però le possibilità di lavorare sul piano della mediazione e della sanzione si riducono enormemente (sempre che l'ONU potesse davvero svolgerla sin da principio) e gli Stati -praticando il terrore e accusando chiunque si opponga loro di terrorismo- perdono la loro potenziale apertura 'costituente' verso nuove leggi ed opzioni di scelta (obiettivi tipici di una prospettiva tradizionale della lotta nonviolenta,ma anche di una vera democrazia politica, anche intesa solo in senso meramente liberale).
L'educazione alla nonviolenza è sempre anche educazione alla divergenza, alla legittimità dell'essere differenti e dell'agire contro e oltre lo status quo, se lo si consideri ingiusto e -seppur legalizzato- illegittimo. Una visione che oggi trova sempre meno spazio per realizzarsi e, addirittura, per poter essere liberamente espressa.
2. Possibilità/ Impossibilità ?
Se tutto questo appare verificato e incontrovertibile, resta da chiedersi quali prospettive restino o si aprano per la nonviolenza oggi e (se ce ne sarà uno) nel prossimo (o -più probabilmente- remoto) futuro.
La prima è quella di puntare ad un'implosione catastrofica del sistema di violenza dentro cui siamo immersi. Questa evenienza appare -infatti- sempre meno improbabile e sempre meno lontana nel tempo.(Euli, 2007) Essendo venute a cadere -come evidenziato nelle parti precedenti del testo- le possibilità di una riforma interna del sistema (le illusioni basate cioè su una sua crescente 'sostenibilità', politicamente pilotata dalle istituzioni statali) ed entrando definitivamente in crisi gli equilibri che erano andati a costituirsi nel post guerra fredda (vedi oggi il declino dell'impero americano, l'emergere di un un neofeudalesimo no-global, l'espansione dell'imperialismo economico asiatico, la costituzione di nuove alleanze militari contrapposte...), la nonviolenza dovrebbe finalmente assumere la catastrofe come necessità storica ed ecologica, abbandonando il 'principio-speranza' e facendo invece del 'principio-disperazione' la cornice dentro cui riprendere a lottare (proprio perché ed in quanto consapevoli che 'non abbiamo più niente da perdere').
Dobbiamo attraversare insieme la depressione, per depotenziare le derive schizo-paranoidi in atto ed imparare a deprimerci con coraggio. (Berardi (Bifo), 2024)
La seconda, al fine di accelerare ed assecondare la catastrofe in corso, è quella di ridurre progressivamente la nostra collaborazione collusiva col sistema circuitale della violenza.
Il capitalismo si è rivelato quale potenza pedagogica potentissima ed insuperabile su scala globale: ma quel a cui ci educa è disumano ed anti-ecologico: ci conduce all'estinzione e alla devastazione totale del pianeta in cui viviamo.
La soluzione non può essere l'adattamento unilaterale, tanto esaltato e propagandato oggi alla voce 'resilienza'.
La non-collaborazione attiva, palese o coperta, nei luoghi di lavoro e nella produzione, il boicottaggio dei consumi e delle merci, l'astensione collettivamente organizzata dai riti elettorali, le obiezioni e le renitenze politiche, la decrescita volontaria appaiono tutti elementi di una possibile strategia nonviolenta tendente ad un ''esodo volontario, pubblico e condiviso' che, in un recente passato, ho già definito come 'fare il morto' (che non è altro che l'atteggiamento esplicativo e proattivo (e quindi nonviolento) del 'deprimersi con coraggio' precedentemente espresso). (Euli, 2016)
La terza possibilità è l'assunzione di una prospettiva radicalmente autogestionaria ed an-archica, che accentui più radicalmente la posizione oltre-statalista della nonviolenza: gli Stati si stanno sempre più rivelando come strutture istituzionali anti-istituenti, ostili ai loro stessi cittadini e ancora una volta forieri di divisioni, se non di conflitti armati, tra i popoli: il fallimento dell'Unione Europea, rimasta ostaggio degli interessi nazionali e incapace di assumere un ruolo autonomo nelle guerre in corso, è senz'altro rivelatore.
Le democrazie che non sono disposte a democratizzarsi, muoiono. E, infatti, quelle in cui viviamo sono come dei bozzoli che trattengono esseri già abortiti da tempo.
In un contesto post-democratico quale è già quello attuale, risulterebbe quindi anacronistico proseguire con una -ormai infondata- fiducia nelle istituzioni esistenti, sia in quelle politiche che in quelle giuridiche: non dobbiamo più badare alle eccezioni positive (che esisteranno sempre in qualunque sistema, anche il più malato ed inguaribile (il buon prete, il buon professore, il buon amministratore, il buon parlamentare, il buon imprenditore, etc...).
Perché, al di là di singoli casi, dobbiamo finalmente convincerci che non esiste più la possibilità di aprire nuove fasi 'costituenti' all'interno di un sistema che, invece, tende e tenderà irreversibilmente a chiudersi sempre più dentro il suo guscio, impermeabile ad ogni critica e favorevole soltanto a cambiamenti e riforme che siano funzionali al mantenere/rafforzare le forme violente del suo dominio.
Non possiamo e non dobbiamo più aspettarci nulla da esso, e non dobbiamo più quindi chiedergli nulla. Non dobbiamo più chiedergli di prendersi cura di noi. Dobbiamo imparare ad uscire dalla cornice dei 'diritti' e iniziare a praticare la nostra vita 'al rovescio'.
L'ultima è quella di iniziare comunque a praticare la nonviolenza laddove si può o riusciamo a costruirla con chi ci già se la sente di provare a farlo.
Oltrepassare l'antropocentrismo e aprirsi a nuove relazioni con la rete dei viventi a cui tutti noi umani apparteniamo da sempre e per sempre, anche se viviamo come se così non fosse. (Marchesini, 2016; De Waal, 2020)
Assumere quindi una prospettiva di vita evoluzionaria: proseguire a praticare un'educazione aperta e all'aperto, non richiusa in se stessa e non al chiuso di mura, che siano reali, mentali o immaginarie. Nelle relazioni interpersonali, nel lavoro formativo ed educativo, nei luoghi di lavoro, nei movimenti possiamo iniziare a mettere in discussione le 'microfisiche del potere' che ci attorniano, ma che non sono inscalfibili: vedersi come persone e non come ruoli, depotenziare le gerarchie staticamente definite, cercare il senso delle regole e rifiutare una cieca obbedienza ad essa, non accettare di essere colpevolizzati per responsabilità che dovrebbero ricadere sul sistema, limitare l'uso della tecnologia digitale e incontrarsi in presenza, ridarsi tempo, sperimentare nuovi giochi relazionali e sociali.
La prospettiva ludica può infatti venirci a soccorrere in un frangente storico tanto tragico e apparentemente senza uscita: per provare ad imparare ad abitare le distanze ed i conflitti, a convivere con gli irresolubili dilemmi della co-esistenza, ad orientarci verso modalità nonviolente del pensiero e dell'azione, personale e collettiva.(Euli, 2004)
Se la nonviolenza infatti non si diffonderà quale modalità di lotta resteranno solo due possibilità, entrambe funzionali al mantenimento del dominio: la passività generalizzata o la controviolenza della vittima, vera o presunta. Non è un caso che inizino a diffondersi entrambe come non mai.
Le origini e gli sviluppi della guerra in Ucraina e in Medio Oriente lo evidenziano con estrema, tragica chiarezza.
Proseguire a testimoniare l'Aperto diviene -ancor più oggi quindi- un dovere morale fondamentale, indipendentemente dal successo che avranno al momento le nostre scelte. (Capitini, 1967; Melucci, 1994; Ingold, 2016; Guerra 2020).
La
rivoluzione è la meta che si prefiggono coloro che credono solo
nelle cose di questo mondo e pertanto si occupano delle circostanze e
dei tempi della loro possibile realizzazione nel tempo storico
secondo i rapporti di causa ed effetto. La rivolta implica invece una
sospensione del tempo storico, l’impegno intransigente in un’azione
di cui non si sanno né si possono prevedere le conseguenze, ma che,
per questo, non scende a patti e compromessi col nemico. Mentre
coloro che non vedono al di là di questo mondo badano soltanto ai
rapporti di forza in cui si trovano e sono pronti a mettere da parte
senza scrupoli le loro convinzioni, gli uomini della rivolta sono gli
uomini del ci-non-è, che hanno sospeso una volta per tutte il tempo
storico e possono per questo agire in esso incondizionatamente.
Proprio perché le cose che ci-non-sono non rappresentano per essi un
futuro da realizzare, ma un’esigenza presente di cui sono obbligati
in ogni istante a testimoniare, tanto più inesorabilmente la loro
azione agirà sull’accadere storico, spezzandolo e annichilendolo.
A coloro che cercano oggi con tutti i mezzi di vincolarci a una
pretesa realtà fattuale che non consente alternative, occorre
opporre innanzitutto il pensiero, cioè la visione limpida e
perentoria delle cose che ci-non-sono. Solo a chi senza farsi
illusioni sa che il suo regno non è di questo mondo, ma nondimeno è
qui e ora a suo modo irrevocabilmente presente, è data la speranza,
che non è altro che la capacità di smentire ogni volta la menzogna
brutale dei fatti che gli uomini costruiscono per rendere schiavi i
loro simili.
(Agamben, 2024)
Biblio-sitografia
G. Agamben, Sulle cose che ci-non-sono, in Una voce (blog), https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-sulle-cose-che-ci-non-sono, 3 giugno 2024
F. Berardi (Bifo), Come terminare, https://francoberardi.substack.com/p/come-terminare, 3 agosto 2024
A. Capitini (1967), Educazione aperta, La Nuova Italia
F. De Waal (2020), L'ultimo abbraccio. Cosa dicono di noi le emozioni degli animali, Cortina
J. Dewey (2023), Arte, educazione, creatività, Feltrinelli
E. Euli (2004), I dilemmi (diletti) del gioco, la meridiana
E. Euli (2007), Casca il mondo! Giocare con la catastrofe, la meridiana
E. Euli (2016), Fare il morto. Vecchi e nuovi giochi di renitenza, Sensibili alle foglie
E.Euli (2019), Prolegomeni ad ogni futura pedagogia che voglia presentarsi come scienza (e come professione), in S. Deiana (a cura di), Pedagogiste e pedagogisti tra formazione e lavoro, Pensa
E. Euli (2020), DEAD: Didattica Estinta A Distanza ?, in Studium educationis, vol.21 (3)
E. Euli (2021), Homo homini ludus. Fondamenti di illudetica, Sensibili alle foglie
J. Galtung (2000), Pace con mezzi pacifici, Esperia
P. Gray (2015), Lasciateli giocare, Einaudi
M. Guerra (2020), Nel mondo. Pagine per un'educazione aperta e all'aperto, Franco Angeli
T. Ingold (2016), Ecologia della cultura, Meltemi
R. Marchesini (2016), Il bambino e l'animale. Fondamenti per una pedagogia zooantropologica, Anicia
A. Melucci (1994), Passaggio d'epoca, Feltrinelli
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