Cosa ricordo di questo viaggio ? E
cosa ricordare ? E cosa raccontare e raccontarsi ?
Le distanze.
Quando fai questi salti ti rendo conto
di quanto sia grande e diverso il mondo, di quanti passaggi devi fare
per starci sopra e dentro, di quante miglia mentali devi attrezzare
l'animo.
Per la prima volta ho attraversato due
continenti interi (e mezzo, se considero anche la punta afro-egiziana
del Sinai e del Mar Rosso, che ho attraversato in pochi minuti, quasi
meglio di Mosè...), osservando dall'alto i deserti arabici di sabbia
e i deserti di montagna iraniani, le propaggini dell'Himalaya e
l'infinito Mekong.
Un altro mondo, davvero.
Abitato da umani davvero diversi, con
ossessioni e usi davvero altri.
E, d'altra parte, sentire quanto cresce
l'omologazione strisciante, quanto il denaro e le merci ci uniscono,
quanto il turismo faccia strage di culture e differenze, e
soprattutto di tempi.
E quanto, su questo, comunichiamo.
L'acqua.
E' stato un viaggio caldissimo, madido
di sudore, di liquidi che scorrono e ti riempiono e ti svuotano. Un
viaggio di fiumi ed acqua, di docce e centinaia di bottigliette di
drinking water, di viaggi su barche lentissime, di cascate e pioggie
brevi, torrenziali.
Più ci bagnavamo e più avevamo caldo
e più sudavamo.
Loro stanno copertissimi, invece, anche
al sole. E bevono poco.
Ed hanno ragione, si vede. Ma noi non
riuscivamo a cambiare abitudine, e pagavamo.
Le acque stanno nel terreno, sempre
intriso, spesso carico di riso.
Dall'alto le città sono spesso
acquitrini, paludi e stagni, di acqua dolce o salmastra.
La stessa Bangkok mi è apparsa al
ritorno tutta costellata di canali e specchi d'acqua, una metropoli
immensa che poggia su qualcosa di liquido.
E così Angkor, con i suoi fossati
magnificenti, le sue opere idrauliche e architettoniche e sacre
insieme, i suoi artifici d'acqua e di pietra di cui possiamo oggi
solo intuire la complessità e la bellezza...
Il cibo.
Ho provato di tutto, credo. Fuorchè i
grilli e gli scarafaggi fritti, non ce l'ho fatta.
Ma per il resto, non mi sono tirato
indietro davanti al ghiaccio incerto dei succhi di frutta e
all'acquavite di riso (lao lao), alla pasta di pesce fermentato, alle
sour soup e ai sour sop, ai chilli di ogni origine, alle spezie e
alle erbe, alle alghe e alle pizze, agli amok e ai lak lak, alle
insalate di mango e papaya in cui c'è tutto fuorchè il mango e la
papaya, ai peperoni spacciati per melanzane, ai brodi e alle zuppe
con noodle e ramen, alle salse di cocco e curry, ai pesci gatto e
alle cernie di fiume, alla carne di bufalo e di altri animali non
identificati.
Qualche piccola diarrea ogni tanto,
qualche accenno di cistite, ma niente di più.
Anche questa volta il mio sistema
interno ha retto, abbastanza assuefatto ormai, grazie ai viaggi in
Africa e America latina.
Ho amato i sapori, in fondo sempre
estremi: o piccantissimi o dolcissimi, senza mediazione.
Mi è mancato il sale (ieri mattina,
appena tornato, al risveglio, mi sono goduto dei crackers con olive,
tonno e formaggini...).
Le immagini.
Ho sognato le apsara, le vedevo
continuamente, ne ho comprato icone di varia foggia e materia, e le
ho portate con me. Ora danzano sulla mia scrivania.
Spero mi portino fortuna.
Vedo ancora i garuda, con i loro
baffoni da falsi cattivi.
E onde, tartarughe, angeli e demoni,
serpenti alati, che si muovono sull'Oceano di Latte.
Difficile star dietro a tutta
quest'orgia di simbologie e mitologie sconosciute, ambivalenti,
contraddittorie, stranianti.
Ma è stato un viaggio di colori:
arancioni e rossi e neri, e oro.
Di incensi e fuochi, di gong e tamburi,
di milioni di Buddha (sdraiati, con le mani avanti, incrociate sulle
gambe o sul petto, in cammino, morti e rinati, mai nati e mai morti,
risvegliati e dormienti, santi e profani, ridicoli e grassi, ridenti
e sofferenti, vecchi e infanti...).
I luoghi più belli.
Il mercato di Chiang Mai, unica tappa
in terra Thai.
La bellezza dell'arte e del commercio,
della vita vera e per turisti, tutta intrecciata insieme.
I templi e i cartoni animati di vetro
nel palazzo reale a Luang Prabang, città davvero elegante e sinuosa,
quasi europea e del tutto orientale.
La processione dei suoi monaci
all'alba, che ricevono riso e cibo in elemosina sulla strada.
Le Quattromila isole e soprattutto, fra
queste, la dolce Don Khon, e la signora della Souksanh che ci accolto
coi suoi triclini, in faccia al Mekong e alle sue file di palme
perfette.
E -ancor più di Angkor Wat- lo
splendore di Angkor Thom e soprattutto le facce surreali e
inquietanti del Bayon, mitomani e stupende.
E l'intrico di giungla e pietre, legati
da immensi intrichi dei kapok, a Ta Prohm.
E i viaggi fluviali, e i villaggi
fluttuanti su zattere, e la vita quasi primitiva di chi ci vive, tra
animali e piante, in una relazione ancora quasi intatta, non ancora
immunizzata, tra i viventi.
Le fissazioni.
Lasciare le scarpe fuori dai templi,
dalle case, dagli hotel. E' un continuo mettersi e togliersi le
scarpe: il secondo giorno mi sono comprato dei sandali.
Aprire sezioni del Cambodian People's
Party per ogni dove. Un comunismo oscuro, leggero, assillante.
Offrire the verde scipito o riso
bianco, più o meno glutinoso.
Ringraziare continuamente con le mani
giunte al petto, e inchinarsi leggermente, oscillando.
Sorpassare a sinistra, a destra o al
centro, suonando sempre il clacson, con gusto e perfidia.
Arrivare sempre in ritardo o in
anticipo agli appuntamenti, per prenderti di sorpresa (ma quando sei
tu in ritardo, partire puntualissimi e senza avviso...).
Giocare ad una sorta di volano, ma con
i piedi, compiendo tacchettate mirabolanti.
Mettersi le mascherine in faccia, non
si sa se contro i colpi d'aria o lo smog.
Sorridere sempre, qualunque cosa
accada, e non arrabbiarsi mai, anche davanti a Pol Pot in persona.
Relax.
Farsi massaggiare da uomini, donne
anziane, giovinette, con l'olio o senza, i piedi o tutto il corpo.
Passeggiare la sera, quando sale un
leggero vento, sui lungofiume.
Navigare lenti sui fiumi, con ore e ore
di viaggio davanti e alle spalle, senza orario.
Il ronzio del ventilatore acceso per
tutta la notte, su letti comodi e ampi.
Il silenzio delle foreste, i suoni
degli uccelli, il buio dei templi.
Il moto eterno e senza onde
dell'immenso Mekong.
La vita nelle palafitte, sul legno e
sull'acqua.
I fiori bianchi, rossi, gialli, e le
farfalle.
Stare sempre scalzi, e quasi nudi.
Non passare per capitali o grandissime
città, se non in aeroporto.
Vedersi le finali Uefa e Champions,
alle 2 del mattino, spaparanzati sul letto, al buio e senza volume.
Stare in viaggio con uno come Stefano,
che sa sempre orientarsi e organizzarsi meglio di me ( ed è cosa
rara, e comoda...).
Catastrofi.
La deforestazione crescente di intere
colline, praticata da indigeni per costruire case e ottenere energia,
ma soprattutto dalle truppe di cinesi che asfaltano e ammobiliano
mezza Asia.
L'offerta sessuale continua,
soprattutto in alcune città frequentate da occidentali e riccastri,
in una situazione simil-cubana.
Mercati di droga capillari, con
migliaia di giovani che vivono tutta la vacanza in paradisi
artificiali e a basso costo, in luoghi 'happy' che attirano il dolore
e il vuoto.
Molta miseria, tanti disabili (anche
vittime delle mine inesplose lasciate dalle nostre guerre),
divaricazioni insopportabili tra hotel di lusso e baraccopoli, e
anche tra i loro tenori di vita (milioni in bici o in motorino, ma
chi ha la macchina gira in Suv enormi, come un boss...).
Bambini e ragazzine sempre in giro o
già a lavoro, col viso disfatto dalla fatica e da notti troppo
brevi.
Un comunismo di facciata, finto, senza
senso, vecchio e inutile, con le faccione ridicole dei capi sempre e
ovunque, e col mondo che va altrove.
A babbo morto.
Sono tornato, come si dice, a babbo
morto.
Quando non c'era più niente da fare o
da dire per lui.
Troppo tardi, insomma.
Sapevo che stava per morire, ma ho
fatto bene a partire, e a non tornare.
La mia famiglia d'origine è morta da
tempo, io non ne sono che un relitto.
Ora, definitivamente, ancora di più.
Ho pensato a lui tra le rovine, l'ho
lasciato andare sui fiumi, l'ho salutato all'alba e al tramonto.
Un commiato ad oriente.
Che le sue carni si macerino, si
cremino, si sciolgano nel nulla.
E che anche io accetti la verità di
questo viaggio...
A casa.
Ora sono a casa, dopo tanti aerei ed
attese.
Godo a dormire nel mio letto, a
mangiare le solite cose.
A bere l'acqua del rubinetto.
Ieri, mentre arrivavo dall'aeroporto,
mi sono venuti incontro sulla strada quattro ragazzini filippini in
bicicletta, vocianti e allegri.
Mi sono schizzati a fianco, scattanti e
placidi.
Ascolto la loro lingua, non più così
straniera.
Vivono nel mio quartiere, ora, ed io
nel loro...
Nessun commento:
Posta un commento